- Categoria: Racconti in Asia centrale e Caucaso
Il Kazakistan è uno degli Stati più grandi e meno densamente popolati del mondo. Il suo territorio fu storicamente abitato da popoli nomadi di stirpe turcica, a metà del XIX secolo entrò a far parte dell'Impero russo, finché non fu inglobato nell'Unione Sovietica. Nel 1991 fu l'ultima repubblica a dichiarare l'indipendenza da Mosca, oltre ad essere l'unica in cui la nazionalità titolare non rappresentava la maggioranza della popolazione. Oggi occupa una posizione strategica tra Russia, Cina e Medio Oriente, la sua identità etnica si è molto rafforzata e rappresenta un modello equilibrato per il mondo musulmano.
Questo viaggio è iniziato nell'incredibile Mangystau, dove la natura si è divertita a creare delle opere d’arte, è proseguito nella provincia di Shymkent, dove mi sembrava di essere tornata in Uzbekistan, ed è terminato nell’ex capitale Almaty, una città cosmopolita circondata da paesaggi alpini.
La Cambogia è un piccolo Stato confinante con la Thailandia a Ovest, il Vietnam a Est (Paesi molto più dinamici dal punto di vista economico) e il placido Laos a Nord. Avendo già visitato i primi due nel passato, per completare la mappa dell’Indocina alla fine ho scelto la Cambogia, soprattutto per approfondire la storia del secondo Novecento, che a quanto pare qui è stata particolarmente cruenta e allo stesso tempo non abbastanza conosciuta in Europa.
L’obiettivo principale di questo viaggio era conoscere la Slovacchia, un Paese giovane e non molto turistico, che non possiede una capitale prestigiosa come Praga o Budapest e il cui popolo ha un’identità per molti indistinguibile da quella ceca. Non essendoci voli diretti, ne ho approfittato per visitare Vienna e anche per fare una puntatina nella Moravia, la regione meridionale della Cechia. Ho sempre trovato molto istruttivo superare le frontiere e confrontare Paesi limitrofi, perché certe caratteristiche tipiche di uno Stato vengono fuori in maniera molto più evidente se paragonate con quelle di un vicino di casa diverso.
Con il passare dell’età e l'accumulo degli Stati visitati, sempre più di rado mi accade di provare quella piacevole sensazione di innamoramento per un luogo. Bene, nemmeno per Malta è scattato il colpo di fulmine. Tuttavia, a patto che non ci si vada in agosto, anche questo piccolo arcipelago, situato al centro del Mediterraneo e così vicino all’Italia, possiede il suo fascino.
Il gate del mio volo per Tel Aviv è questo, non mi posso sbagliare: ci sono molte kippah, libretti nelle mani e un uomo che prega contro il muro accanto alla toilette. È uno dei primissimi giorni di questa nuova tratta e l’aereo è quasi pieno, ma sono quasi tutti israeliani, anche se siamo all'inizio delle vacanze di Natale e i prezzi dei voli sono infimi.
La mia passione per i musei del comunismo è nata quando ho visitato per la prima volta il museo Casa del terrore di Budapest. Non ne conoscevo l’esistenza (era stato inaugurato da poco) e mi rimasero impressi in particolare la musica (composta appositamente da un certo Ákos Kovács), gli effetti sonori e le voci dei testimoni. In seguito ho avuto modo di visitare diversi musei del comunismo ed ex-prigioni delle polizie segrete dei Paesi baltici, di Berlino, della Polonia e della Romania (sorvolo sull’insulso museo del comunismo di Praga, una semplice trovata per turisti) ed ora eccomi di nuovo qui, 18 anni dopo.
Per il mio primo viaggio extraeuropeo postpandemico ho scelto la Turchia, un Paese che amo, collegato da un comodo volo diretto da Bari, dove sono già stata più di una volta, sperimentando tra le altre cose la comodità dei suoi autobus e la squisita ospitalità dei suoi abitanti. Questo nonostante il fatto che una serie di persone di mia conoscenza non condivida, diciamo così, questa scelta – le stesse persone che quando sono stata ad esempio in Uzbekistan o in Vietnam (governate da regimi altrettanto, se non più autoritari) non hanno avuto niente da ridire. Questa volta la meta principale sarebbe stata la Cappadocia, ma avendo due settimane di tempo ci volevo arrivare lentamente, viaggiando via terra e facendo delle soste nella regione occidentale.
Sarà capitato a tutti di provare la sensazione che il tempo, man mano che si invecchia, passi molto più in fretta. A quanto pare diverse ricerche hanno appurato che questa impressione dipenda strettamente dal tasso di cambiamenti di cui facciamo esperienza.
Da bambini tutto è nuovo e il fatto che continuamente sperimentiamo e impariamo rende il tempo così denso che ci sembra passare più lentamente, poi man mano prendiamo sempre più confidenza con le cose e diventano sempre meno le novità che ci capitano nella nostra vita quotidiana.
Tranne che in viaggio. Mentre si esplorano posti nuovi sono così tante le esperienze che il tempo diventa pienissimo e due giorni ti sembrano tipo un mese, e insomma questo è l'unico modo efficace che ho trovato per illudermi di fottere il tempo, quel bastardo.
La regione geografica della Macedonia è attualmente suddivisa tra la la Bulgaria (dove sono atterrata), la Macedonia del Nord, la Grecia, l'Albania (le tre tappe del mio viaggio) e la Serbia (dove andrò un'altra volta).
Come l'omonima insalata di frutta, questa regione è un gustoso mix di etnie, lingue, religioni, ma anche monete e alfabeti che cambiano ad ogni frontiera che passo.
Quando sono arrivata all'aeroporto Narita di Tokyo ho preso il treno della Keisei Railway insieme ad Alfredo, un italiano che avevo conosciuto all'aeroporto di Istanbul e che vive a Tokyo da tre anni. Alfredo a un certo punto mi ha detto che quel gruppo che stava seduto in fondo al vagone erano cinesi perché i giapponesi non parlano mai a voce così alta.
Quando esci da un aeroporto giapponese, pensi di uscire da un aeroporto ma in realtà continui a restare imprigionato in un altro gigantesco aeroporto che si chiama Giappone.
Il primo dell’anno mi trovavo in un ostello fricchettone di Cabo Polonio, in Uruguay, senza un soldo, con la schiena ustionata, il torcicollo e il ricordo di una serata disastrosa. Avrei dovuto intuire che era la premessa di un anno complicato, ma ancora non sapevo fino a che punto.
In effetti già il volo di andata era stato premonitore perché avevo perso la coincidenza, avevo dovuto passare la notte in hotel ed ero arrivata a Buenos Aires con 12 ore di ritardo, nel deserto della vigilia di Natale.
Viaggio nel Turkestan, il cuore continentale dell’Asia, ancora in assestamento dopo quasi trent’anni di indipendenza dall’Unione Sovietica.
Per l’Uzbekistan è un periodo di cambiamenti, in cui uno dei regimi più autoritari del pianeta sembra che stia lentamente compiendo passi avanti verso un timidissimo riconoscimento dei diritti umani e la fine dell’isolamento internazionale. Dalle lande desolate dell’antica Corasmia alla fruttifera valle di Fergana, passando per le gemme della mitica via della seta, ha apparecchiato per le comitive di anziani turisti tavole imbandite con coreografici piatti di uva e albicocche, spettacolari madrase decorate e minareti ricoperti maioliche turchesi, chilometri di tessuti ricamati e seta, più o meno di pregio.
Il Kirghizistan invece, terra di pastori nomadi e cavalli selvaggi, non aveva nessun monumento storico da dare in pasto ai restauratori sovietici e ancora oggi presenta al visitatore una facciata antropizzata fatta di orribili palazzi di cemento e vecchi simboli arrugginiti. Ma tanto la sparuta compagine di backpacker di etnia caucasica che lo visita è interessata soltanto al trekking nelle spettacolari montagne, alle passeggiate a cavallo e all’ospitalità nelle yurte estive; della bruttezza del paese, della rozzezza del popolo e dei monotoni pasti se ne sbatte.
A furia di parlare di attentati, bombe, curdi, terroristi, derive autoritarie, tentati golpe, presunta islamizzazione, rifugiati siriani, a molti è passata la voglia di viaggiare in Turchia. E invece è un paese ricco di meraviglie naturali, con una storia affascinante e un popolo accogliente che conquista facilmente il cuore del visitatore.
Il nostro itinerario tocca tre destinazioni molto diverse tra loro, situate nella parte più orientale del paese: Trabzon, vivace città portuale sul mar Nero; Erzurum, roccaforte conservatrice con un passato selgiuchide e un presente di stazione sciistica; Mardin, una specie di Matera affacciata sulla sconfinata pianura mesopotamica del Kurdistan.
Tra i motivi per cui il Senegal sta diventando una meta di viaggio sempre più ambita figurano le graziose spiagge, un bel po’ di santuari della natura e un popolo universalmente noto per la gioia di vivere e l’ospitalità (che in wolof si dice “teranga” ed è diventato un claim turistico). Inoltre è un Paese a maggioranza musulmana, ma laico, e ha una situazione politica tranquilla, a differenza degli stati confinanti dove sussistono instabilità e disordini. Un altro non disprezzabile aspetto che attira i viaggiatori europei è il clima: a queste latitudini non esiste un vero e proprio inverno, benché, a fine dicembre, lungo la costa atlantica le temperature possano scendere anche sotto i 15 gradi.
Benché la fissazione per i luoghi rimasti arcaici e arretrati pervada la fantasia dei viaggiatori, in molti Paesi del mondo tante cose sono profondamente mutate negli ultimi vent'anni e bisogna farsene una ragione. Se nel 1995 il Vietnam aveva un tasso di disoccupazione del 25%, oggi è sceso all'1,3%. Certo, in molte fabbriche le condizioni di lavoro sono inaccettabili e gli stipendi medi equivalgono addirittura a meno della metà di quelli cinesi, ma d'altra parte è proprio questo il motivo per cui tante multinazionali hanno spostato qui la produzione. Fatto sta che la percentuale di popolazione che vive sotto la soglia di povertà è scesa all'11% e in media i vietnamiti hanno un cellulare e mezzo a cranio.
Durante l'estate la compagnia aerea Mistral Air, del gruppo Poste Italiane, effettua ogni settimana un volo da Bari a Mostar, ideato appositamente per condurre intere famiglie numerose pugliesi e lucane in pellegrinaggio a Medjugorje. Devo dunque essere molto grata ai fan delle apparizioni mariane se posso raggiungere la Bosnia in meno di un'ora, invece di trascorrere una lunga notte nel traghetto per Dubrovnik.
Sbarcati nel minuscolo aeroporto, solo io e uno studente barlettano siamo rimasti in attesa di un mezzo di locomozione: tutti gli altri sono stati ingoiati da un torpedone con l'aria condizionata e sono spariti dalla nostra vista in un batter d'occhio.
Io sono salita su questa vecchia Opel pensando di scroccare un passaggio, che invece mi è stato fatto pagare, e non poco. Sara ai tempi della guerra viveva in provincia di Benevento, e ora è quello l'accento che sfoggia mentre parla senza sosta seduta sul sedile posteriore, guardandosi in giro con quegli occhi nerissimi contornati da un forte segno di matita.
Erano anni che ci giravo intorno: sapevo che la Bosnia fosse il cuore e avevo paura di scottarmi. Ed ora eccomi qui: i muri della stradina che mi conduce alla pensione mostrano ancora i segni dei colpi di arma da fuoco. Miran mi accoglie in casa con quei modi un po' bruschi tipici dei timidi, ma con gli occhi azzurri buoni. Un grappino alle undici di mattina, sulla strada 35 gradi di fuoco. Benvenuta in Bosnia-Erzegovina.
Nonostante sia la prima volta che metti piede a Manhattan, avanzi nel reticolato di strade con inaspettata sicurezza: Sesta avenue, Quinta, Flatiron, Madison Square Park, The Church of the Transfiguration, Empire State Building, Bryant Park, Public Library. Dopo ventisei strade sei giunta alla tua meta. Un ascensore molto veloce ti porta al Top of the Rock, il terrazzo al 65° piano del Rockefeller Center. Attivi le procedure di geolocalizzazione. A nord il rettangolo verde di Central Park, con i boschi, le radure e i laghetti; dietro ai grattacieli il fiume Hudson e l'East River che scintillano. A sud, oltre Midtown e oltre Lower Manhattan, le isole e la statua della Libertà. A occidente si prepara il quotidiano spettacolo del tramonto, ma per fotografare il sole che scivola oltre Jersey City nel cielo rosa devi sgomitare tra la selva di smartphone e fotocamere e infilare la mano in uno dei pochi pertugi tra un vetro e l'altro. Insomma, il tramonto ti tocca guardarlo negli schermi degli altri device.
Destinazione Africa Occidentale. Ho ripassato i fondamentali: Kapuściński, Aime, Celati. Ho fatto il vaccino obbligatorio contro la febbre gialla. Altre precauzioni sanitarie non ne ho prese, anche perché il centro di medicina di viaggio di Bari (dispensatore di vaccini e paranoia) si è mostrato inespugnabile. Profilassi antimalarica dunque no, che dio me la mandi buona.
Sono pronta per scorrazzare in questi due piccoli Stati affacciati sul golfo di Guinea, per percorrere l'arida savana alla ricerca delle sue varie etnie, per conoscere le loro danze, la loro antica religione vudù, la storia dello schiavismo nero, per visitare mercati colorati, villaggi tradizionali e spiagge atlantiche.
Due o tre anni fa sono andata in l'India con un'amica. Era la prima volta che viaggiavamo insieme e ben presto mi resi conto che avevamo uno stile diverso: lei aveva programmato un lungo elenco di attrazioni turistiche “da non perdere” e per ottimizzare i tempi (ma anche per pigrizia) preferiva raggiungere le varie mete con i mezzi piuttosto che a piedi. Una delle prime sere le imposi di non prendere il tuk-tuk per andare al ristorante dove avevamo deciso di cenare. Durante la passeggiata mi confessò che non le era mai capitato di essere invitata a cena da sconosciuti come era successo a me varie volte, ma le sarebbe piaciuto molto, e io le promisi che se lo avesse desiderato davvero sarebbe capitato con grande facilità. Il primo invito non si fece attendere: dopo soli cinque minuti di cammino attraverso viuzze sconnesse e scarsamente illuminate, due uomini nei pressi di un tempietto addobbato ci offrirono un piatto di riso, sorridendo. Declinammo la proposta perché ambivamo a qualcosa di meglio, ma eravamo sulla buona strada. Giunte al nostro indirizzo, ci fermammo a chiedere indicazioni in merito al fantomatico ristorante. In quel mentre notammo, sull'altro lato del viale, un enorme tendone bianco illuminato da plafoniere da stadio. Ci precipitammo a vedere di cosa si trattasse e in men che non si dica fummo invitate ad una festa di matrimonio. Ci trattarono come ospiti d'onore, assaggiammo delle pietanze deliziose, conoscemmo molti eleganti parenti. Insomma, fu una serata indimenticabile.
Noi turisti a volte tendiamo a considerare un viaggio come una raccolta di figurine, il cui obiettivo è completare la pagina, mettere una ics su ogni attrazione, mentre alcuni dei miei migliori ricordi sono incollati a luoghi incontrati per caso e non segnalati su una guida come “da non perdere” (tra l'altro, come si fa a perdere qualcosa se prima non l'hai trovato?). Il vero viaggio è quello che si fa tra un luogo imperdibile e l’altro ed è per questo che ho imparato a muovermi quanto più possibile a piedi o, come dicono in Indonesia, "jalan-jalan".
Sono arrivata con imperdonabile ritardo al mio appuntamento con la Turchia, ma le giravo intorno già da un po'. Cinque anni fa non ero troppo lontana mentre in un minibus, a nord di Aleppo, l'autista mi diceva: «Vedi, lì dietro c'è la Turchia» e all'autoradio prendevamo le sue stazioni e ascoltavamo la sua musica. Poi, l'anno dopo, l’ho vista dal vivo; a dire il vero, ne ho visto solo una piccola parte, seppure quella più alta: sulla strada per Yerevan apparve la cima innevata del Monte Ararat e il mio casuale compagno di viaggio ci tenne a farmi sapere che − anche se attualmente la biblica montagna si trova in territorio turco − il lato ben visibile da lì, dall'Armenia, è quello più bello. E poi, ho sentito il suo odore e le sue note a Batumi, sulla spiaggia e nei bar affacciati sul Mar Nero, pure se mi trovavo in Georgia e, a separarmi da lei, c'erano ancora venti chilometri (che io non ho percorso). E infine l’ho pensata in Romania, quando, passeggiando lungo gli ultimi metri di uno dei rami del Danubio, sono giunta al punto in cui sfociava nel Mar Nero e ho pensato che di fronte c'era la Georgia, ma a destra, verso meridione, c'era la Turchia. Condividevamo, di nuovo, lo stesso mare.
Si può immaginare, adesso, l'emozione che provo sull'aereo diretto ad Istanbul.
Gli esseri umani non amano fare le cose da soli. Gli italiani, in particolare, sono un popolo che cerca compagnia persino per andare al cinema o al cesso, figuriamoci per i viaggi. Partire da soli sembra ai più una pratica da sfigati o, al massimo, un'esperienza incompleta. Non a caso, una buona parte dei “solo traveller” italiani che ho incontrato in giro per il mondo erano partiti con qualcuno e poi se ne erano liberati (magari momentaneamente), oppure stavano raggiungendo il classico amico che ha aperto un baretto a Playa del Carmen o che fa il baby pensionato in qualche posto fricchettone dell'India.
D'altra parte anche per me non sempre è stato facile liberarmi del condizionamento sociale: prima di partire infatti solitamente alcuni miei conoscenti si divertono a terrorizzarmi, elencandomi le sfighe più drammatiche che mi potrebbero capitare e dalle quali difficilmente mi salverò a causa della mia irrimediabile solitudine.
Ci vuole fortuna nella vita, per esempio io sono molto riconoscente di essere nata in Italia. Metti che nascevo in Québec: sarei stata convinta che il formaggio "mozzarellissima" abbia davvero qualcosa in comune con la mozzarella, avrei chiamato il salame pepperoni, e poi, quanto avrei dovuto spendere ogni volta per venire in Italia?
Se fossi nata in Canada, anch'io di certo sarei stata una cliente fissa di questa compagnia low cost che effettua voli diretti che collegano alcune città europee con le principali città canadesi. Questa compagnia è molto nota ai canadesi oriundi europei, ma viene opzionata anche da quei bon vivant non oriundi che decidono di trascorrere le proprie vacanze in Europa e perfino da quel minuscolo manipolo di europei ai quali è balenata la stravagante idea di andare a visitare il Canada. Io avevo già preso alcuni voli intercontinentali disastrosi, però Air Transat è peggio perfino di Argentina Aerolineas, e ho detto tutto.
Una piccola guida per i principianti dell'India, destinati ad innamorarsene o a detestarla irrimediabilmente. Un'introduzione ad alcuni curiosi costumi indiani, ma anche alla conoscenza delle località più interessanti del Maharashtra, del Karnataka e del Goa.
Con colpevole ritardo ho deciso di ricambiare la visita ai nostri dirimpettai albanesi, che da più di vent'anni ci sopportano qui in Puglia. Con questo degno proposito mi reco all'aeroporto di Bari in una soleggiata mattina di agosto: il volo Belle Air Bari-Tirana dura soltanto 50 minuti, le procedure di imbarco sono velocissime e il personale del minuscolo velivolo parla anche italiano.
All'aeroporto prelevo i Lek dal bancomat dell'Intesa San Paolo che, come verificherò in seguito, ha monopolizzato il Paese. L'autobus per il centro è pronto per partire e immediatamente realizzo che spostarsi, in Albania, sarà molto facile: gli altri passeggeri e il conducente trascorrono i venti minuti di tragitto discutendo su dove è meglio accompagnarmi per farmi prendere un mezzo pubblico per Scutari.
Ero a Cracovia, seduta ad una macchina da cucire a mobiletto sulla terrazza del locale Singer. Alle 11 di sera, finalmente una lievissima brezza stava soffiando nel quartiere ebraico di Kazimierz. Avevo socializzato con alcuni turisti: svedesi, canadesi, olandesi, australiani. Il canadese viaggiava in Europa con un gruppo organizzato: in dieci giorni avrebbero visitato Budapest, Praga, Cracovia e chissà cos'altro; era la prima volta che veniva in Europa ed era veramente esaltato dall'abbondanza di testimonianze storiche. Quando se n'è andato, io e lo svedese ci siamo guardati perplessi. Per noi la Polonia era molto differente dalle nostre rispettive terre di provenienza e facevamo fatica solo a immaginare che cosa volesse dire "Europa", per il canadese (il quale, oltretutto, aveva confuso la Svezia con la Svizzera).
L'estate di circa 25 anni fa ricevetti una cartolina da una mia compagna di liceo. C'era scritto “Saluti dalla caldissima Annalisa”. O almeno, così mi sembrò di capire. Soltanto molti mesi dopo, riordinando il cassetto delle cartoline (allora ne ricevevo parecchie), mi accorsi che c'era scritto “Saluti dalla caldissima Andalusia”, che almeno aveva un senso visto che la mia amica non era una lap dancer.
In tutti questi anni ho sentito parlare molto dell'Andalusia, ma non ci sono mai andata, forse anche a causa di questa cartolina, e in particolare di quell'aggettivo, di grado superlativo assoluto.
Poi, nel mese di giugno 2013, grazie alla peraltro odiosa Ryanair, in un momento di debolezza ho acquistato un volo economico diretto Bari-Siviglia. A quel punto non potevo tirarmi indietro, nonostante i segnali minacciosi che mi inviava la pagina del meteo di Siviglia (38 gradi alle ore 22).
È notte fonda all'aeroporto di Addis Abeba. L'avifauna etiope ci dà il benvenuto da un grande poster. Due inservienti in divisa dormono beatamente sdraiati sulle sedie della sala d'aspetto.
All'ufficio di cambio trecento euro vengono lentamente trasformati in un malloppo maleodorante di Birr. Ancora non sapevo che quel gruzzolo puzzolente si sarebbe sì assottigliato, ma mai estinto, e che dieci giorni dopo, nello stesso aeroporto deserto alle 2 di notte, sarebbe stata un'impresa trasformarne la parte restante in euro, dollari, bounty, mars, calzini e marlboro lights.
A convincermi a partire sono stati un violinista della Bucovina e due scolare rumene. Poi, in viaggio, col passare dei giorni e l'accumularsi di ore di autobus, treno e automobile, tanti personaggi sono comparsi sul mio cammino: guide giovani e preparate e solerti receptionist, un dittatore poco morigerato (per fortuna non più in vita) e un ingegnere divorziato e malinconico, un barista che parla napoletano e un custode di chiesa dal forte accento romano, controllori di treno baffuti e sfaticati e fidanzate sfiorite di business men meridionali... Ad ognuno di loro va il mio pensiero e il mio ringraziamento per avermi guidato alla scoperta di questo paese così ricco di bellezza, di storia e di storie.
C'erano venti esseri umani di nazionalità italiana di fronte all'ufficio di cambio dell'aeroporto di Johannesburg, la mattina della Vigilia di Natale. Quasi tutti avevano più bagagli di quanti in realtà gliene sarebbero serviti. Tutti erano eccitati per l'avventura che li aspettava.
Motivazioni svariate li avevano riuniti lì. Alcuni erano curiosi di osservare la fauna e la flora che fanno del Sudafrica uno degli Stati più ricchi di biodiversità del pianeta. Altri erano lì per approfondire la conoscenza delle diverse etnie che popolano la Nazione Arcobaleno e comprendere meglio l'attuale situazione socio-politica. C'era chi voleva praticare surf tra le famosissime onde oceaniche, o addirittura buttarsi con il bungee jumping da qualche ponte altissimo. Qualcuno non vedeva l'ora di provare la macchina fotografica nuova. Molti speravano di andare in spiaggia almeno una volta. Non mancavano i partecipanti che avevano il sogno del Sudafrica da quando avevano visto "Invictus", in cui Morgan Freeman veste mimeticamente i panni di Mandela; né chi era stato segnato, più di quanto non volesse ammettere, dal film "Lo squalo". Purtroppo non è escluso che qualcuno, come punto di riferimento morale, avesse De Sica e Panariello nel cinepanettone "Natale in Sudafrica".