- Categoria: Racconti in Asia centrale e Caucaso
Azerbaigian: la terra dei fuochi
Quando arrivò a Baku nel 1991, il giornalista e scrittore Tiziano Terzani inizialmente ebbe la sensazione di essere ormai giunto in Europa, ma presto anche qui, come in tutto il resto dell’URSS in disfacimento che aveva attraversato, venne sopraffatto dalla miseria e dallo squallore. Circa un trentennio dopo, il mio breve volo notturno partito da Almaty atterra all’alba al modernissimo aeroporto "Heydər Əliyev", che all’epoca Terzani aveva paragonato a un deposito di immondizie.
Il sovreccitato tassista Emin mi mostra con grande orgoglio la città, che ha visto recentemente una straordinaria spinta innovativa dal punto di vista urbanistico; non a caso durante il tragitto verso l’hotel si avvicendano svariati grattacieli arrossati dall'alba, alcuni ancora in costruzione. Emin mi comunica che il Presidente Əliyev padre (a cui è intitolata anche la strada che stiamo percorrendo) era migliore del figlio che è attualmente al potere; per quanto riguarda me, a causa del mio sorriso (a suo dire) empatico è convinto che io sia una psichiatra, anche se in realtà sto semplicemente cercando di non addormentarmi, mentre lui per tutto il tempo non la smette un secondo di parlare.
Anche il personale dell’hotel è così cerimonioso ed ospitale da apparire sin da subito insopportabile. Apprezzo comunque il fatto che mi danno una camera già usata da un altro ospite per fare un riposino di un paio d'ore.
L'oro nero di Baku
Alle 10 ho appuntamento con un altro Emin nel giardino dedicato al famoso poeta satirico Mirza Alakbar Sabir. Questo Emin, che mi guiderà in un free walking tour della città vecchia, è piuttosto imbronciato, e poi sembra che abbia imparato la lezione a memoria. In ogni caso, superiamo le antiche mura attraverso i double gates ed entriamo nella cosiddetta "città murata", patrimonio mondiale dell'umanità. A dire il vero nel 2003 l'UNESCO, citando i danni subiti dal terremoto del 2000 e la scarsa conservazione, incluse il complesso nella lista dei patrimoni in pericolo, da cui poi è uscito in seguito all'esecuzione di importanti lavori di restauro. Gli edifici storici di pietra giallina e i balconi in legno mi ricordano La Valletta, ma ogni tanto alzando gli occhi appaiono le cime in vetro delle Flame Towers, tre grattacieli a forma di fiamma che sono diventati il simbolo di Baku. Mi sembra il manifesto pubblicitario che già all’aeroporto di Istanbul mi aveva invitato a visitare questa "terra di vibranti contrasti”.
Ed eccoci qua. Questo è un ex caravanserraglio trasformato in ristorante, questa grande scultura a forma di testa, vista da vicino, contiene una serie di pregiati bassorilievi, mentre quello è il Palazzo degli Shirvanshah, che custodisce il mausoleo degli scià che governarono a lungo la città. Ecco l'iconica Torre della Vergine, il piccolo Museo dei libri in miniatura e poi i numerosi hammam, le piccole moschee, gli atelier di artisti e i negozi di tè, dolci, souvenir in genere. Insomma, la vecchia Baku, tutta infiocchettata per i turisti, racconta circa mille anni di storia.
Appena fuori dalle mura c'è il ristorante Xezer, che a conti fatti è stato il consiglio migliore che Emin ha dato a me e a Maira, l'unica altra partecipante al tour. Mentre mangiamo un plov azero accompagnato da birra Xirdalan, questa bella ragazza brasiliana mi racconta che faceva l’assistente sociale nel suo Paese, ma a un certo punto si è accorta che non c’era speranza per la popolazione povera ed era così frustrata dal suo lavoro che ha deciso di trasferirsi a Tallinn, dove risiede tuttora. Di fronte al ristorante c'è il bellissimo edificio, fresco di restauri, che ospita il Museo della letteratura, dedicato alla vita e all'opera di Nizami Ganjavi (che l'Azerbaigian celebra come suo poeta nazionale anche se è vissuto in epoca medievale e scriveva in lingua persiana). A lui è intitolata anche la via dello shopping, che si incontra dopo aver superato il centro della vita sociale di Baku: piazza delle Fontane.
La città vecchia un tempo si affacciava direttamente sul mar Caspio, mentre oggi a separarla dal lago più grande del mondo c'è il Baku City Seaside National Park, una striscia lunga più di 25 chilometri che presenta aiuole, chioschi, bar, statue e naturalmente una bella passeggiata molto frequentata da turisti e residenti. Ecco, ai piedi della collina, il centro commerciale a forma di fiore e l'immancabile mini-Venezia, ecco di fronte allo yacht club la fontana dei cigni, ispirata ad uno dei poemi del solito Nizami. Nei giardini pubblici affollati di donne che ramazzano, molte foto d'epoca raccontano come appariva questo lungomare nel passato, un progetto fotografico racconta la straordinaria tolleranza di cui l'Azerbaigian si vanta in ogni dove, mentre la procura generale ci mette in guardia dai pericoli della droga. Superati la Government House e il circuito cittadino dove si svolge il gran premio di Formula 1, mi trovo ai piedi di alcuni neonati grattacieli, tra cui il Crescent hotel, un edificio in vetro a forma di mezzaluna.
Parallela al lungomare scorre una grande arteria che conduce al nuovissimo distretto Baku White City. Il nome di questo quartiere residenziale è altamente simbolico perché esso sorge in quella che un tempo era conosciuta come "città nera", sede delle industrie petrolifere del Paese. Nel 1991 Terzani la descriveva così: "Il cielo è sempre giallastro. L’aria puzzolente. La spiaggia è coperta di pompe in disuso, di ferraglia, di tubi rotti", e ancora quindici anni fa era un paesaggio desolato di pozzi petroliferi abbandonati tra cumuli di immondizia.
I giacimenti di petrolio e gas costituiscono la ricchezza principale del paese sin dalla notte dei tempi, infatti Marco Polo nel "Milione" descriveva una fontana, situata al confine tra la Grande Armenia e la Georgia, da dove sgorgava tanto olio "buono da ardere", molto apprezzato. Ancora oggi sul fianco della collina di Yanar Dag (la "montagna che brucia", 25 km circa a nord di Baku) il gas naturale che fuoriesce costantemente alimenta delle fiamme eterne che possono raggiungere i 3 metri di altezza, mentre presso il Tempio del Fuoco di Ateshgah, un luogo sacro della religione zoroastriana, un tempo ardeva un fuoco naturale (considerato un simbolo divino) che però nel 1969 si è estinto: oggi la fiamma viene propagata artificialmente a scopi turistici e molti visitatori la considerano una bella fregatura. A Baku già nel XV secolo il petrolio veniva utilizzato per l'illuminazione, nel 1848 venne effettuata la prima trivellazione di tutti i tempi e all'inizio del XX secolo c'era l'area petrolifera più grande del mondo.
Ai piedi dell'hotel JW Marriott Absheron prendo un Bolt che mi porta al Centro culturale Heydər Əliyev. Si tratta di un meraviglioso edificio bianco e sinuoso di quasi sessantamila metri quadri, progettato dall'archi-star iracheno-britannica Zaha Hadid e inaugurato nel 2012. Nell'ampio spazio di fronte all'ingresso tutto è di un candore accecante: sia le sculture contemporanee sia un gruppo di donne biancovestite protagoniste di uno shooting fotografico. Gli spazi espositivi di questo contenitore culturale all'avanguardia sono dedicati a variegati argomenti: archeologia, arte contemporanea, abiti uzbechi, bambole ecc.; di grande interesse la mostra di circa 50 modelli in scala di famosi edifici di Baku e del resto del Paese, tra i quali il distretto White city che non ero riuscita a vedere dal vivo. Due opere d'arte sono dedicate al nostro Heydər Əliyev, il primo segretario dell'Azerbaigian sovietico dal 1969 al 1982, poi presidente della Repubblica dall'ottobre 1993 all'ottobre 2003, nonché il motivo per cui molti azerbaigiani hanno lasciato il Paese.
Oltre all'aeroporto, al centro culturale e al viale su cui sorge, molte altre strutture pubbliche di Baku prendono il nome dal vecchio presidente: una sala concerti, una raffineria di petrolio, una moschea, uno stabilimento di acque profonde, un parco... senza contare piazze, strade, scuole, parchi e quant'altro anche nel resto del Paese e all'estero, e infine l'oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. Quando alla fine del secolo scorso i giacimenti terrestri si esaurirono, infatti, si passò allo sfruttamento dei giacimenti del mar Caspio: il cosiddetto "Contratto del secolo" portò nel 2006 all'inaugurazione di questo oleodotto (definito il "capolavoro del Presidente"), che oggi si configura come il principale canale di esportazione del petrolio azerbaigiano all'estero, soprattutto dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina. Gli introiti hanno reso possibile la metamorfosi dell'Azerbaigian in una specie di sceiccato, ma nonostante i successi internazionali sul fronte interno il governo di Heydər Əliyev aveva cominciato a perdere popolarità, soprattutto a causa di brogli elettorali, corruzione e autoritarismo, finché dopo la sua morte il timone è passato nelle mani del figlio İlham.
Torno in centro a piedi percorrendo un lunghissimo viale specializzato nei negozi di ceramiche e incontro il Yaşıl Bazar, molto simile ai mercati coperti delle altre capitali ex-sovietiche, dove mi fanno assaggiare varie qualità di caviale. Poi cerco di approfondire la conoscenza diretta di alcuni luoghi di culto, visto che l'Azerbaigian si vanta di essere un Paese estremamente tollerante dal punto di vista religioso: visito due belle chiese russe ortodosse, ma non riesco ad entrare né nella sinagoga Dağ Yahudilərinin né nella Moschea Taza Pir. Delle chiese armene, alla faccia della tolleranza, non c'è traccia.
Infine ho la malsana idea di visitare il Museo nazionale dell'Azerbaigian che mi aveva raccomandato Emin: a parte la deludente esposizione, il problema principale è che i visitatori si contano sulle dita di una mano, mentre gli addetti alle sale sono innumerevoli e ti seguono in maniera imbarazzante dovunque vai. Solo in seguito mi rendo conto di aver frainteso il consiglio di Emin, che in realtà non mi aveva consigliato questa ciofeca, bensì il nuovissimo Museo di Arte Moderna progettato da Jean Nouvel.
La storia immaginaria dell'Azerbaigian
La prima notte che ho dormito a Baku ho sognato in maniera abbastanza realistica che c'era la guerra, evidentemente influenzata dalle foto e dai monumenti funebri che tappezzano la capitale e l'intero Azerbaigian, celebrando l’eroismo dei tanti soldati caduti nel conflitto infinito del Nagorno-Karabakh. Tiziano Terzani nel 1991 descrisse questa regione contesa con l’Armenia come “un’altra di quelle bombe a tempo lasciate in eredità dalla politica di Stalin che sapeva benissimo quel che faceva quando, nel 1921, aggiudicò il Nagorno-Karabah, una regione storicamente armena e cristiana, alla fortemente mussulmana Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaigian”.
L'ultima offensiva militare risale a meno di un anno fa e si è conclusa con una schiacciante vittoria azera, determinando – nell’indifferenza internazionale – un ennesimo esodo di decine di migliaia di abitanti armeni dalla regione. Visto il rapporto tuttora conflittuale tra i due Stati, sia al momento della richiesta del visto online sia all’ingresso nel Paese si accertano che il turista non abbia intenzione di recarsi nelle zone di confine e che non abbia relazioni con l’Armenia. D’altra parte le frontiere di terra sono tutte chiuse e l’unico mezzo per entrare e uscire dal Paese è l’aereo.
La spinosa questione, sopita per decenni durante il periodo sovietico, riemerse alla fine degli anni Ottanta, quando il Soviet Supremo del Nagorno Karabakh, dopo tanti anni di azerificazione forzata, votò per l’annessione della regione. Mentre a Yerevan erano cominciate le prime dimostrazioni in appoggio a quella decisione, in Azerbaigian scoppiarono disordini e scontri, con violenze a danno della popolazione armena locale. In particolare a Sumgait (25 km a nord di Baku) le contro-dimostrazioni di azerbaigiani presto si trasformarono in un pogrom: per tre giorni e tre notti, a fine febbraio del 1988, bande armate di azeri girarono per la città picchiando, stuprando e uccidendo gli armeni lungo le strade e nelle case. Terzani commentò che probabilmente il massacro era stato organizzato proprio da elementi all’interno del Partito Comunista sovietico che, creando delle tensioni razziali e poi imponendo una soluzione di forza, sarebbe riuscito a riprendere il potere che si sentiva sfuggire di mano, “una parte che i russi avevano già fatto altre volte con successo”. Nei mesi successivi si verificò l’esodo degli armeni dall’Azerbaigian e di conseguenza quello degli azerbaigiani dall’Armenia, con enormi ricadute sul piano economico a causa della divisione del lavoro istituita dai sovietici.
Nel cosiddetto "gennaio nero" del 1990 a Baku ebbero luogo imponenti manifestazioni a favore dell’indipendenza dall’URSS. La violenza colpì nuovamente gli armeni residenti, i quali furono uccisi e torturati mentre i loro appartamenti e negozi furono saccheggiati e dati alle fiamme in quello che viene ricordato come “pogrom di Baku”.
La narrazione nazionalista azera contempla solo i pogrom compiuti dalla fazione nemica e usa pertanto l’espressione "gennaio nero" non per riferirsi a questo evento, bensì per ricordare ciò che avvenne nella notte tra il 19 e il 20 gennaio, quando l'Armata Rossa entrò in città facendo circa 130 vittime e diverse centinaia di feriti tra i civili. I caduti a opera dei sovietici sono stati sepolti nel cimitero chiamato Martyrs’ Lane, che si trova su una collina nella parte sud-occidentale della città, un posto simbolico dove vengono celebrate le festività nazionali dell'Azerbaigian. Il memoriale fu realizzato nel 1991 nel luogo dove un tempo sorgeva un cimitero poi distrutto dai bolscevichi, ma nel tempo si è ingrandito con le tombe dei soldati morti nei vari conflitti per il Nagorno-Karabakh; una lunga serie di lapidi una accanto all’altra forma un percorso rettilineo che conduce fino a un pilastro commemorativo e a una fiamma eterna.
Si può raggiungere questa zona collinare a piedi o tramite la funicolare, ma all'ora del tramonto ci sono lunghe file perché è molto gettonata. Il cosiddetto Highland park infatti è dotato di punti panoramici che offrono una bellissima vista della baia a forma di mezzaluna, paragonata da Terzani a quella di Napoli: in particolare spiccano il già noto centro commerciale a forma di fiore, l'originale edificio che ospita il museo del tappeto, la ruota panoramica, i grattacieli di vetro di fronte e infine guardando a destra, dove la baia si chiude, la Piazza della bandiera nazionale e il Baku Crystal Hall, un'arena coperta completata a tempo record nell'aprile 2012 in tempo per accogliere la 57ª edizione dell'Eurovision Song Contest. Siamo ai piedi delle spettacolari Flame Towers, che di sera si trasformano in giganteschi schermi grazie a un impianto con più di 10.000 luci a LED.
Alla fine del 1991 l'Azerbaigian diventò indipendente e poco dopo anche l'Unione Sovietica si dissolse. All’inizio dell'anno successivo, poco dopo che il Nagorno-Karabakh ebbe dichiarato con un voto del parlamento la nascita della Repubblica, iniziò la prima vera e propria guerra per il controllo di questo piccolo territorio montuoso. Nel Museo Nazionale di storia dell'Azerbaigian, allestito in uno sfarzoso palazzo dei primi del '900 appartenuto a un magnate del petrolio, ci viene spiegato che nel febbraio 1992 avvenne il peggior massacro nella storia del conflitto, definito dagli azerbaigiani un “terribile genocidio”: i “fascisti armeni” assediarono la città di Khojaly per mesi e la distrussero in una notte. La popolazione civile fu sottoposta a “torture inimmaginabili”, 613 persone furono uccise (alcune con “particolare crudeltà”) e 1275 persone furono prese in ostaggio. Il governo armeno ha sempre respinto ogni accusa, sostenendo che si trattò di un'operazione militare e che la maggior parte dei civili cadde sotto fuoco azero; alcuni militari aggiunsero che il governo azero aveva nascosto apposta al suo popolo la possibilità di lasciare il Paese tramite il corridoio umanitario, allo scopo di orientare l’opinione pubblica internazionale contro gli armeni. Insomma, si intuisce facilmente che il racconto storico azerbaigiano non è il massimo dell'affidabilità.
Il primo conflitto terminò due anni dopo con la nascita della repubblica armena dell’Artsakh, non riconosciuta dalla comunità internazionale e costituita anche da territori in precedenza abitati da azeri. Dalla firma dell'Accordo di Biškek è però rimasta una situazione di conflittualità, con il tempo si sono intensificati gli episodi di cecchinaggio e, in diverse situazioni, le parti sono arrivate allo scontro aperto, sempre più pesante. Nel museo si passa direttamente agli anni Dieci di questo secolo con una teca intitolata “La strada verso la grande vittoria” che mostra foto e oggetti personali di alcuni "eroi nazionali". Poiché tutte le trattative diplomatiche non avevano portato alcun risultato, l’Azerbaigian, più ricco e forte dell’Armenia, ha ripreso il completo controllo della regione prima con la vittoriosa guerra del settembre-novembre 2020 e in seguito con il già citato intervento militare nel settembre del 2023. Quest'ultimo non è ancora stato musealizzato, mentre il conflitto del 2020, che gli azerbaigiani chiamano “Guerra patriottica di 44 giorni”, viene celebrato mostrando al visitatore una serie di forniture militari e mediche, torce elettriche, distintivi, bussole, accessori dei soldati come cellulari, guanti, cuffie, borse, berretti e altri oggetti e strumenti, nonché "schegge di granata rimosse dai corpi dei veterani e dei martiri" e una bandiera "con tracce di sangue di martire".
Per conoscere l'origine dell'infinita guerra armeno-azera bisogna tornare all'inizio del XX secolo, al tempo della prima rivoluzione russa: secondo i curatori del museo le rivolte etniche del 1905 non furono altro che "massacri nazionali commessi dai gruppi estremisti armeni", ai quali per fortuna "le unità di autodifesa azerbaigiane non hanno dato l’opportunità di ottenere un vantaggio.” La situazione si aggravò nel 1918, quando i territori caucasici furono riuniti in un unico Stato: la Repubblica Federale Democratica Transcaucasica. Le questioni etniche si intrecciarono alla lotta per il potere politico tra i bolscevichi sostenuti dalla Federazione Rivoluzionaria Armena (Dashnaktsutiun) e il partito azero del Musavat, così i due anni successivi furono caratterizzati da vari conflitti tra armeni e azeri e i loro alleati, a partire dai cosiddetti "Giorni di Marzo", quando a Baku e nelle aree adiacenti si svolse una guerra civile che causò la morte di circa 12.000 azeri. Le fonti azerbaigiane, come ormai si è capito, in merito a questo evento hanno una loro personale narrazione molto solida, secondo la quale il 31 marzo 1918 (oggi celebrato come "Giorno del genocidio") gli armeni insieme ai bolscevichi massacrarono circa 50.000 persone innocenti e bruciarono santuari musulmani; anche se avevano obiettivi diversi, il piano comune delle "Guardie Rosse armeno-bolsceviche" era infatti sterminare il povero popolo azero usando il classico metodo della "purga etnica".
Su una cartina tematica (nella quale l'Armenia è minuscola), sono segnalate le decine e decine di genocidi compiuti dagli armeni tra il 1918 e il 1920 non solo a Baku ma anche in molti altri distretti e villaggi; due foto mostrano una fossa comune trovata a Guba e altre immagini testimoniano “le conseguenze del terrore armeno” a Baku e a Shusha. Nel museo, comprensibilmente, non c'è traccia dei "Giorni di Settembre", quando 10.000 armeni etnici furono massacrati dall'Esercito islamico del Caucaso e dai loro alleati azeri.
Nel luogo in cui nel 2007 furono ritrovati più di 400 corpi di azeri massacrati dagli armeni, il governo ha costruito in quattro e quattr'otto un Museo del genocidio, che avrei voluto visitare. Per andare a Guba, situata a più di due ore di strada nelle montagne a nord del Paese, mi sono accodata a un gruppo organizzato, dando per scontato che il museo sarebbe stato parte del tour. Peccato che l'agenzia Smile non sia interessata a questo tipo di mete: "Mostriamo solo le cose belle del nostro Paese" mi ha detto con un grande sorriso il titolare dell'attività, "e lasciamo la politica ai politici!". Per inciso, quando gli ho chiesto se avremmo almeno avuto modo di conoscere la comunità di juhuro (o ebrei della montagna), che vive là e magari visitare il museo a loro dedicato, mi ha risposto che hanno deciso di non comprenderla nel loro tour perché non si sa come potrebbero reagire gli arabi. Insomma, mi sono dovuta accontentare del modellino esposto al Centro Əliyev.
Secondo la versione azera, la repubblica indipendente dell'Azerbaigian ("la prima repubblica democratica nell'oriente musulmano") nacque "per impedire il genocidio dei civili musulmani pacifici dopo 100 anni di schiavitù coloniale" il 28 maggio 1918. Questo Stato in realtà durò ben poco, infatti l'Armata Rossa lo invase nel marzo del 1922 creando prima una Repubblica Sovietica Transcaucasica e poi nel 1936 la RSS Azera. A quanto si legge, l'URSS non solo ha derubato l'Azerbaigian delle sue risorse naturali, ma soprattutto ha violato in vari modi la sua integrità territoriale, per esempio cedendo Zangezur ("la terra ancestrale dell'Azerbaigian") all'Armenia e creando la provincia autonoma del Nagorno-Karabakh.
Per sfuggire alla persecuzione del governo sovietico, a partire dagli anni Venti migliaia di persone furono costrette a emigrare, ma dall'esilio "continuarono la loro lotta per la libertà e l'indipendenza, nonostante il dolore di essere lontani dalla loro patria". In linea con quanto avviene nei musei degli "Stan", l'opinione azera sul periodo sovietico non si discosta molto dalla realtà, infatti possiamo leggere che "i diritti e la libertà delle persone sono stati costantemente violati sotto il duro regime totalitario e la dittatura del Partito Comunista nell'URSS", e che durante il periodo del terrore, negli anni Trenta, "il sistema punitivo sovietico ha fucilato a morte, imprigionato ed esiliato milioni di persone innocenti dopo averle considerate Nemici del Popolo, perseguitando anche i loro familiari".
La falsificazione della realtà storica portata avanti dall’Azerbaigian non si limita agli eventi bellici recenti, bensì va a riscrivere il passato con precisi intenti propagandistici. Per delegittimare la pretesa armena di essere antichi abitanti del territorio, i fantasiosi discorsi azerbaigiani sostengono che gli armeni sarebbero giunti nella regione soltanto nel Tredicesimo secolo o addirittura nell’Ottocento, naturalmente con bellicose intenzioni di conquista. Giustificare la presenza di tutti i monumenti cristiani ancora presenti nel Paese senza fare riferimento all'Armenia è invece più complicato: a questo fine è stato riesumato l’antico regno dell’Albània del Caucaso, un vasto territorio del quale ci sono giunte scarse testimonianze dirette, che si collocava più o meno in quello che è l’odierno Azerbaigian, i cui abitanti adottarono il cristianesimo dal IV secolo. Associare etnicamente gli azerbaigiani odierni agli antichi albanesi caucasici ha un secondo obiettivo: permette ai primi di guadagnarsi un falso status di autoctoni nel Caucaso, quando in realtà sono un popolo "turco" giunto qui solamente a partire dal XI secolo dopo Cristo.
Questa storia immaginaria, costruita negli ultimi decenni, è sostenuta e diffusa in vari modi. Presso il Centro culturale Heydər Əliyev, ad esempio, nella lista delle "architectures of the caucasian Albania" figurano ben 13 chiese palesemente armene situate in diverse località interne del Paese, mentre i ritrovamenti archeologici testimonierebbero che l'Azerbaigian è "uno dei più antichi centri di civilizzazione" e i suoi abitanti "sono i più antichi d'Europa".
Anche le destinazioni turistiche del Paese vengono pubblicizzate facendo riferimento a questa narrazione, ad esempio Qabala, l'antica capitale dell’Albània Caucasica, oppure il piccolo villaggio di Nij, dove si trova l’unica comunità al mondo di Udi, un’antichissima etnia discendente degli albanesi. Perfino il Ministero della Cultura dell’Azerbaigian sui social spaccia importanti monumenti culturali armeni, dall'inconfondibile stile architettonico, come albanesi. Infine, tra i molti storici ed intellettuali azerbaigiani che appoggiano queste tesi, alcuni considerano albanesi caucasici addirittura i khachkar, i tipici cippi funerari scolpiti armeni.
La drammatica conseguenza pratica del revisionismo azero è che i monumenti armeni corrono il rischio di essere tutti snaturati oppure distrutti, come è già successo nell’exclave del Naxçıvan: un vero e proprio genocidio culturale che sta cancellando la memoria della millenaria presenza degli armeni in questo territorio.
Nelle sale espositive troviamo una cartina dell'Albània tra il sesto e l'ottavo secolo quando essa, secondo i curatori del museo, comprendeva non solo tutto l'Azerbaigian ma anche una buona parte dell'attuale Armenia. Un dipinto raffigura l'elegantissimo Javanshir, capo dell’Albània caucasica tra il 620 e il 681: fu lui a guidare la resistenza contro gli arabi, che alla fine ebbero la meglio convertendo – dopo soli tre secoli – gli abitanti all'Islam.
A partire dall'XI secolo si stabilirono qui una serie di dinastie turche. Sotto l'Impero selgiuchide fiorì la letteratura persiana con poeti come il già citato Nizami Ganjavi, ricordato anche nel museo con un busto. Un altro dipinto rappresenta l'attacco dei mongoli nel 1220-1222, quando numerose città furono saccheggiate e distrutte. Pochi anni dopo – ci viene ricordato – l'Azerbaigian divenne il centro politico-amministrativo dell'Impero mongolo Ilkhanato e fu adottata ufficialmente la lingua turca. La sua posizione sulle antiche rotte carovaniere ha contribuito a garantire lo sviluppo economico e culturale del Paese, illustrato da un quadro che raffigura il mercato medievale di Shamakhi. Dopo il breve periodo di Tamerlano, che incorporò temporaneamente il territorio nel suo vasto dominio, giunsero i Safavidi, i quali sconfissero la dinastia locale degli Shirvanshah, che aveva governato per un tempo infinito, dall'861 fino al 1539: il barbuto re Akhsitan I, al potere nel Dodicesimo secolo, è rappresentato in un dipinto con la sciabola in vita, le scarpe con la punta ricurva e una bella piuma sul copricapo, mentre guarda la flotta sul Caspio. I Safavidi hanno imposto l'Islam sciita alla popolazione (che prima era sunnita), dando il via ad una serie di guerre contro l'Impero ottomano. Circa due secoli fa il Trattato di Golestan, uno dei trattati più umilianti che l'Iran abbia mai firmato, sancì il passaggio di gran parte della regione caucasica all'Impero russo. Ancora oggi i rapporti con l'Iran sono tesi, nonostante condividano l'islamismo sciita, mentre la Turchia è uno dei più stretti alleati, nonché fornitore di armi, dell'Azerbaigian.
Credo tanto, credo a tutto
Dopo una bella e stancante giornata tra le verdi montagne del Caucaso e i suoi villaggi arroccati a più di duemila metri, mi trovo nel centro storico di Baku, seduta a bere finalmente una birra ghiacciata al tavolo di un bar. Accanto a me si siede un trentenne dalle fattezze presumibilmente locali, il quale ordina del tè e la shisha da fumare. Quando mi vede preparare una sigaretta di tabacco mi chiede (come spesso accade) di dove sono e poi mi comunica che è dei Paesi Bassi.
Quando gli faccio notare che parla la lingua locale, ammette che è originario di qui e che è in visita ai parenti. Per una serie di collegamenti che capitano quando si parla del più e del meno, viene fuori che è un creazionista, convinto per esempio che nel lontano passato davvero gli esseri umani vivessero molto più a lungo (centinaia di secoli, come dice l'Antico Testamento). Di fronte al mio malcelato scetticismo mi chiede: Do you BELIEVE in evolutionism? Io ovviamente confermo, così mi racconta l'aneddoto seguente: un bambino chiede ai genitori da dove ha avuto origine l'essere umano; la mamma dice dalle scimmie, il papà da Adamo ed Eva; il bambino piange perché non ha ricevuto una risposta chiara e univoca, allora il papà gli dice: La famiglia di tua madre discende dalle scimmie, la mia da Adamo ed Eva.
Ora, è vero che in un treno notturno kazaco ero quasi riuscita a convincere un avvocato di Shymkent che la democrazia è meglio dell'autoritarismo, ma quando si tratta di credenze religiose ognuno ha la sua visione, come dimostra l'efficace aneddoto di cui sopra. Se non fosse che poco dopo mi fa: Do you BELIEVE in covid? E poi, incredibilmente: Do you BELIEVE in homosexuality?
Eh già, caro il mio Said, io credo tanto, credo a tutto.
Le coste azerbaigiane sin dal periodo sovietico rappresentano una frequentata meta di villeggiatura balneare, così anch'io, prima di lasciare l'Azerbaigian, mi volevo togliere l'infantile sfizio di fare un bagno nel mar Caspio, che non ero riuscita a fare in Kazakistan. La meta prescelta è la spiaggia di Buzovna, situata sulla costa settentrionale della penisola di Abşeron. L'acqua è naturalmente poco salata, ma ricca di alghe viscide e fastidiose, e il bagno non è per niente refrigerante, però passo un pomeriggio divertente con il gestore del lido e i suoi amici. La spiaggia è attrezzata con lunghe file di gazebo colorati e alcuni bagnanti, nonostante il divieto, hanno messo il samovar sul fuoco. Il Paese è molto laico, si beve birra ovunque e le donne sono in bikini: le uniche col velo incrociate in questi giorni sono turiste di qualche Paese più tradizionalista. La maggior parte dei turisti proviene infatti dall'Asia vicina e lontana (fra pochi giorni per i cinesi non servirà più il visto) e in particolare dalla Turchia, mentre i visitatori dell'Europa occidentale sono rari; le presenze di iraniani e russi sono in calo, anche a causa delle frontiere chiuse e dell'elevato prezzo dei voli.
Nel tour di Guba avevo conosciuto questa turista di origine venezuelana che abita da molti anni in Ungheria, con la quale – per una fortuita coincidenza – ho preso lo stesso volo notturno Wizzair per Budapest. Quando mi ha detto che molti venezuelani in Ungheria amano Orban mi sono sorpresa, conoscendo la poca simpatia che il premier magiaro riserva agli immigrati. Ma poi ho capito che viviamo in un mondo assurdo dove una donna colta e assolutamente liberale come lei si considera conservatrice e apprezza l'attuale governo autocratico ungherese solo perché, da una parte, nutre una forte avversione nei confronti del comunismo reale e di Maduro, dall'altra combatte con estrema convinzione una cosa che non esiste: il "gender" nelle scuole.