- Categoria: Racconti in Asia centrale e Caucaso
Esposizione universale
Viaggio in Kazakistan meridionale
Il Kazakistan è uno degli Stati più grandi e meno densamente popolati del mondo. Il suo territorio fu storicamente abitato da popoli nomadi di stirpe turcica, a metà del XIX secolo entrò a far parte dell'Impero russo, finché non fu inglobato nell'Unione Sovietica. Nel 1991 fu l'ultima repubblica a dichiarare l'indipendenza da Mosca, oltre ad essere l'unica in cui la nazionalità titolare non rappresentava la maggioranza della popolazione. Oggi occupa una posizione strategica tra Russia, Cina e Medio Oriente, la sua identità etnica si è molto rafforzata e rappresenta un modello equilibrato per il mondo musulmano.
Questo viaggio è iniziato nell'incredibile Mangystau, dove la natura si è divertita a creare delle opere d’arte, è proseguito nella provincia di Shymkent, dove mi sembrava di essere tornata in Uzbekistan, ed è terminato nell’ex capitale Almaty, una città cosmopolita circondata da paesaggi alpini.
Aktau, la città atomica
È l’alba e l’aereo decollato pochissime ore prima da Istanbul sta per atterrare. Sorvoliamo una sottile striscia di terra che separa il mar Caspio da un laghetto costiero, poi il territorio arido prende il sopravvento e appaiono migliaia di case organizzate in ordinati, giganteschi reticolati, tutti dello stesso colore del suolo. Dopo il coloratissimo lago Koshkar-Ata, ecco finalmente le piste di atterraggio dell’aeroporto di Aktau.
Sono venuta nell’estremo occidente dell'immenso Kazakistan per visitare questa regione misteriosa che si chiama Mangystau e fa parte della Depressione caspica, quella “pingue immane frana” di cui cantavano i CCCP. Sergey, che sarà la nostra guida in un tour di cinque giorni, viene a prenderci all’aeroporto per condurci in albergo.
Inizialmente il tragitto è costituito da un lunghissimo rettilineo circondato dal nulla, dove avvistiamo i primi cammelli e cavalli, veri o finti che siano. Quando cominciano ad apparire i palazzi, apprendiamo a grandi linee la storia di Aktau. Negli anni Cinquanta questa penisola era soprannominata "la terra delle mille strade", poiché ogni guidatore aveva il proprio percorso preferito. La regione del Mangyshlak era spopolata non tanto a causa del clima, quanto per la campagna di collettivizzazione e sedentarizzazione di Stalin, che all'inizio degli anni Trenta aveva sradicato o eliminato quasi del tutto la popolazione nomade locale. La città di Aktau nacque solo in seguito alla scoperta dei primi giacimenti di petrolio e di uranio. Nel tempo hanno cominciato ad estrarre anche lo scandio, sono state realizzate le centrali elettriche a petrolio e gas e il fondamentale impianto di desalinizzazione alimentato dall’energia nucleare, mentre il porto è diventato sempre più importante per la spedizione del petrolio. Intanto furono trasferite qui persone da tutti gli angoli dell’Unione Sovietica e si cominciarono a costruire i palazzi che ancora adesso possiamo vedere.
La propaganda sovietica dipinse il Mangyshlak come un luogo di “amicizia fraterna” in cui i rappresentanti di tutte le nazionalità sovietiche si erano uniti in uno “sforzo eroico” per conquistare questo deserto inospitale e sviluppare la periferia dell’URSS grazie alla tecnologia. Come in tutta l'Unione Sovietica, la linea di condotta era l’assimilazione delle diverse nazionalità nella cultura russa e l'esaltazione della lingua russa come fattore per rafforzare il patriottismo, ma in realtà c’era un’enorme disuguaglianza economica tra gli immigrati altamente qualificati che andarono a vivere in città e la popolazione kazaka, assolutamente minoritaria, che viveva nelle baraccopoli ai margini della società. Non a caso nel giugno del 1989 vari disordini nazionalisti scoppiarono a Novyi Uzen’ (oggi Zhanaozen) e nelle periferie kazake svantaggiate di Shevchenko (oggi Aktau) e di altre città, che causarono la fuga o l'evacuazione di circa 16.000 caucasici. Il motivo principale delle rivolte non era collegato tanto alle relazioni interetniche in sé, quanto all'iniquità dello sviluppo socioeconomico della regione, che è poi una cosa piuttosto ironica se pensiamo che l'equità, sulla carta, sarebbe dovuta essere una delle priorità del sistema economico sovietico.
Dopo l'indipendenza dall'URSS cominciò un esodo di massa della popolazione "straniera", seguito dal rimpatrio dei kazaki che stavano affrontando animosità nazionaliste nelle repubbliche vicine dove vivevano – un processo che è avvenuto in tutto il Paese, modificandone radicalmente la composizione etnica. Oggi Aktau conta circa 180.000 abitanti, in maggioranza kazaki, e dozzine di società di estrazione di combustibili fossili, infatti la sua economia si basa quasi interamente sulla vendita del petrolio estratto lungo le coste orientali del Mar Caspio e ci sono numerose raffinerie, oleodotti e torri di conservazione, oltre a diverse acciaierie.
Dopo un necessario riposino, dedichiamo qualche ora alla visita della città. Mentre ci dirigiamo verso la moschea Beket Ata, incappiamo nella statua dedicata a Kashagan Kurzhimanuly, celebre rappresentante della letteratura orale Adai, seduto con in grembo una dombra (un liuto a due corde simbolo del Kazakistan).
Il monumento è stato realizzato non molti anni fa per controbilanciare il predominio di Taras Shevchenko (il celebre artista e scrittore di nazionalità ucraina, quindi slavo, che fu spedito qui in esilio, al quale per un periodo era intitolata Aktau) con una statua altrettanto imponente di un eroe locale. Il nome del bardo kazako, Kashagan, è stato assegnato anche a un vasto campo petrolifero offshore localizzato a sud di Atyrau. Sui muri dei palazzi appaiono le targhe dedicate ai veterani della Grande Guerra Patriottica e i murales che raffigurano sconosciute donne soldato oppure, ad esempio, un uomo in giacca a cravatta con le manette e una mano estranea che gli infila una busta nella tasca (sotto c’è il numero verde anticorruzione). Vicino alla fiamma eterna dell’immancabile monumento alla Seconda Guerra Mondiale, giovanissimi skaters stanno provando le loro evoluzioni all’ombra dei cinque pannelli bianchi che ricordano la forma di una yurta. Compaiono poi i tipici bassorilievi che rappresentano gli indefessi lavoratori socialisti e, prima di arrivare al mare, il monumento ad un aereo sovietico montato su un piedistallo di cemento. In città ci sarebbe un Museo regionale di storia e tradizioni locali, ma purtroppo oggi rispetta il giorno di chiusura settimanale.
Nel frattempo siamo arrivate alla spiaggia, quindi costeggiamo il mar Caspio passeggiando sulle apposite passerelle in legno, passiamo per un antiquato parco divertimenti e notiamo il monumento al Presidente del comitato esecutivo centrale all’epoca del Kazakistan sovietico, tale Mynbayev. Se avessimo proseguito la passeggiata, a un certo punto saremmo arrivate al condominio con il faro in cima che Sergey ci aveva mostrato la mattina. Invece, ingannate dal sole che qua tramonta alle 9 e mezza, realizziamo che si è fatto tardi e cerchiamo un posto dove cenare.
Quelle poche persone con cui ci eravamo interfacciate durante la giornata ci erano sembrate piuttosto ospitali e gentili, ma la sera il personale di più di un ristorante non ci ha degnato della minima attenzione quando abbiamo messo piede nel loro locale, inoltre per ben due volte, quando eravamo in procinto di sederci, un gruppo di kazaki ci ha soffiato il tavolo davanti ai nostri occhi. Effettivamente già in aeroporto avevo notato che gli autoctoni hanno un problema con le file, che non riescono proprio a rispettarle. Per fortuna il manager del ristorante "L’Amore" è un libanese che ci capisce al volo perché ha vissuto in prima persona lo shock culturale dell’accoglienza incazzata kazaka, e fa di tutto per farci cambiare opinione.
In viaggio con Olga
La Toyota Prado bianca è carica di cibo, acqua, tende e tutto il necessario per campeggiare nella sconfinata steppa del Mangystau, un’area di circa 160000 chilometri quadrati situata nella parte occidentale del Kazakistan, parzialmente sotto il livello del mare. In vista delle elevate temperature tipiche del mese di luglio, Sergey indossa una tuta mimetica non bellissima ma estremamente funzionale, in quanto è realizzata in un tessuto leggerissimo che protegge dal sole, ma essendo fittamente traforato lascia il corpo praticamente nudo. Sergey è un driver esperto, una guida preparata, un ottimo cuoco e un ragazzo dal cuore d’oro, ma purtroppo non parla inglese, dunque usa un traduttore offline dal russo, che presenta evidenti lacune in quanto a sintassi e lessico, ma si dimostrerà capace di creare delle vere e proprie poesie dadaiste.
Ci avviamo verso il nord-ovest e in meno di due ore siamo a Kanga Baba: due coreografici cavalli al galoppo ci guidano al sito, una necropoli che secondo il cartello risale ai secoli XIV-XIX. Disseminate nel terreno vi sono centinaia di lapidi funerarie, sia steli lavorate a motivi geometrici, sia piccole strutture in pietra a volte decorate con corna, sciabole o parole del Corano: Sergey ci mostra una foto a colori spiegandoci che in epoca pre-islamica molte di esse avevano la forma di animali, ma che poi l’iconoclastia ha fatto sì che venissero rimosse teste e zampe. Non avendo trovato da nessuna parte conferme di questo fatto, non posso escludere del tutto che Olga (come è stata prontamente soprannominata la voce femminile del discutibile traduttore offline) abbia tradotto a cazzo. Il cimitero poco tempo fa era ancora in uso, come si deduce da alcune tombe recenti, mentre dell’adiacente moschea di Makhtum Baba rimangono solo i muri e le colonne. A un certo punto Sergey ci mostra un disegno realizzato da Taras Shevchenko quando visitò la necropoli nel 1851. Il celebre poeta e pittore a cui per alcuni anni fu intitolata Aktau era ucraino, ma trascorse sette orribili anni nel carcere di Novopetrovsk, città che oggi in suo onore si chiama Fort Shevchenko e si trova a pochi chilometri da qui. Quando uscì di prigione fu assegnato ad una spedizione geologica qui nel Mangyshlak e in quella occasione realizzò una serie di schizzi e disegni di quella che definì "una terra maledetta da dio". La costruzione di questo complesso è collegata alla presenza di una diramazione secondaria della Via della seta che proveniva dalla Corasmia, nonché di una sorgente di acqua dolce e di un boschetto di gelsi, uno dei quali è ancora visibile oggi circondato da svariati cespugli di menta selvatica.
Giunti presso la penisola Dzhigalgan, una terrazza panoramica affacciata sul bluissimo Mar Caspio ci accoglie per il primo pranzo del tour. Sulla tavola non possono mancare pomodori, cetrioli e peperoni tagliati a fette, pane, tè, biscotti e caramelle. Poi, a seconda dei giorni, vengono aperti pacchetti di plastica sottovuoto che contengono salumi e formaggi oppure pezzi di pollo già cotto. Ricordo bene la stessa commistione di dolce e salato sulle tavole kirghize, e anche al ristorante di Aktau, la prima sera, dove ho notato due commensali che prima hanno ordinato cappuccino e torta e dopo, quando ancora una parte di dolce era nel piatto, una pizza.
Mentre mangiamo, Sergey ci spiega che sta lavorando tantissimo perché ha avuto molte spese: “Quest'anno mi sono messo di piani molto grandi e ho comprato un appartamento, ho comprato un’auto ed è molto denaro, ha bisogno di chiudere tutto.” I suoi bambini sentono molto la sua mancanza e a lui dispiace, però quest'anno deve darsi da fare. “L'anno prossimo trascorrerò il tempo con la famiglia. Dobbiamo svolgere tutti i compiti e poi ci riposeremo.” Fin qui l’affidabilità di Olga non è il massimo, ma come sempre a un certo punto arriva una massima di grande profondità: “Se non facciamo piani molto alti non saremo in grado di capire di cosa siamo capaci.”
Dopo pranzo scendiamo a piedi nell’ampio anfiteatro erosivo circondato dal mar Caspio: il ripido dislivello geologico secondo qualcuno è stato creato da un fortissimo terremoto, secondo altri dall'inumidimento dello strato di argilla e sabbia presente sotto lo strato calcareo. In ogni caso, “dzhigalgan” in kazako vuole dire “caduto” e a quanto pare le frane geologiche sono ancora in corso. All'interno del territorio collassato possiamo osservare grotte, pietre funerarie, fossili antichissimi e, su alcune pareti rocciose, orme fossilizzate di animali preistorici, come cavalli e felini ormai estinti. Infine, nel punto più basso del nostro percorso, appare un delizioso laghetto a forma di cuore.
La prossima tappa è la moschea Shakpak-Ata, un’affascinante struttura scavata nella montagna accanto alla necropoli medievale omonima, dove gli agenti atmosferici hanno ricamato la roccia chiara a forma di merletti e spugne. Innumerevoli incisioni raffigurano impronte di mani, cavalli, scene di battaglia e motivi decorativi botanici, mentre le iscrizioni in arabo, persiano e turco (in particolare delle poesie sufi sulla caducità della vita umana e sulla malvagità del mondo) sono state decisive per datare il complesso ai secoli XIV-XVI, all’epoca del khanato dell'Orda d'Oro. La moschea prende il nome da un leggendario derviscio, famoso per la sua capacità di produrre scintille semplicemente sfregando le unghie l'una contro l'altra: Shakpak si era rifugiato in una delle grotte della necropoli e poi fu in grado di fuggire dai nemici dopo essere stato decapitato, lasciando durante la fuga le sue impronte sulle pietre. Una storia molto simile mi era stata raccontata a Samarcanda, presso il complesso funerario di Shah-i-Zinda, e riguardava il mitico “re vivente” che scappò con la sua testa sotto il braccio. Se crediamo al folklore popolare, questo luogo può curare tutte le malattie, dormendoci dentro o semplicemente toccando la roccia. Dopo aver visitato l’interno della moschea vera e propria, costituita da quattro camere raggruppate attorno a una stanza centrale con volta a cupola, saliamo sul tetto che si affaccia sullo sconfinato panorama. L’imperturbabile voce di Olga ci invita a fermarci e riflettere: “E ora sediamoci qualche minuto per pensare il bene per il bene migliore”. Se ci fosse stato Giovanni Lindo Ferretti, avrebbe sicuramente intonato alcuni versi di “Depressione caspica”: “Io in attesa a piedi scalzi e ricoperto il capo, canterò il vespro la sera”.
Il canyon Kapamsay lo guardiamo dall’alto, dove è stata posizionata una cornice gialla per fare le foto. Un cartello ci informa che questa gola ha una lunghezza di circa 2,7 chilometri e che le “scogliere di gesso” raggiungono in alcuni punti i 70 metri. Nel canyon un tempo scorreva un fiume, mentre oggi ci sono delle grandi rocce e, sul fondo, un'oasi verde, creata dall'acqua piovana e protetta da una grotta.
Il primo campo lo montiamo nel canyon Shakpaktysay, il più grande della zona, non prima però di aver fatto una breve sosta in un luogo molto ameno vicino a una mandria di cammelli. Non avevo mai sentito parlare dell’aggressività di questi animali, ma quando il più alto di tutti ha cominciato a correre nella nostra direzione ci siamo arrampicate col cuore in gola sulle rocce più vicine, bianchissime e meravigliosamente lavorate dal vento. Ci siamo convinte a scendere solo quando è arrivato Sergey, il quale ci ha bonariamente deriso per la nostra infondata paura. Pochi quarti d’ora dopo le tende sono montate, il pesce sta cuocendo in padella, le patate stanno a lessare e qualche birretta della scorta personale di Sergey è stata condivisa.
Durante la cena Sergey torna a raccontarci la sua attività e ci spiega che anche la moglie, pur avendo un buon lavoro, a volte porta i turisti insieme a lui: “Quando succede, quando non può lasciare bambini bassi o alcuni altri problemi, va il mio amico” sono le parole piuttosto arcane che pronuncia Olga. Poi aggiunge: “Stanno arrivando un sacco di italiani e un sacco di russi, voi così l’Italia raccontare di me”, che praticamente significa che dobbiamo fargli pubblicità, cosa che faremo con molto piacere.
Le rocce bianche cambiano colore con il calare del sole; qualche nitrito proviene da una mandria di cavalli in lontananza, dall’alto dei versi di animali che non riusciamo a identificare. Si dorme decentemente, all’alba un pungente freschetto invita addirittura ad entrare nel sacco a pelo.
La mattina ci alziamo come sempre verso le otto, facciamo colazione e ci mettiamo in auto diretti a Occidente; passiamo per il villaggio di Tauchik e raggiungiamo la prima “posizione” (come direbbe Olga), ossia Torish, la valle delle sfere. Questa località potrebbe benissimo trovarsi su Marte e fa impressione pure se la vedi su google maps, infatti è cosparsa di centinaia di rocce sedimentarie sferiche, alcune con un diametro superiore ai due metri. I ricercatori ritengono che si tratti di concrezioni o megasferuliti, ossia sfere cristalline formate da cenere vulcanica esposte a molti millenni di agenti atmosferici, mentre secondo il folklore degli Adai (il gruppo etnico originario di questa regione) sarebbero degli invasori a cui è andata male e sono stati congelati da un potente santo locale. Sergey va a caccia di conchiglie fossili, una delle sue passioni: la presenza di organismi marini fossilizzati dipende dal fatto che il Mangystau centinaia di milioni di anni fa era il fondo marino dell’oceano Tetide; poi progressivamente le acque si sono prosciugate e nel corso del tempo si è formato l’insolito paesaggio che oggi ci affascina tanto.
Da queste parti ci dovrebbe essere il set cinematografico del film "Waiting for the Sea" del regista tagiko Bakhtyar Khudojnazarov: è la storia di uno skipper che, una volta rilasciato dal carcere, torna al porto e scopre che il mare è scomparso e tutto ciò che rimane è un vasto deserto sabbioso su cui sono poggiati gli scafi arrugginiti delle navi. In pratica è stato ricreato in Kazakistan il vero paesaggio che c’è a Moynaq, in Uzbekistan, che in passato sorgeva sulla riva del lago d'Aral.
Dopo una sosta al supermercato del villaggio di Shayyr, ci dirigiamo a Kokkala (la “fortezza verde”), dove allestiamo il pranzo. In questa gola multicolor si trovano facilmente fossili di carbone, che dimostrano che centinaia di milioni di anni fa c’era una foresta dove vagavano i dinosauri. La natura ha sorprendentemente eroso gli strati di argilla, creando bizzarre incisioni sulla montagna stratificata. “Strati grigi di diversi colori, più scuro più scuro a carbone disponibile, in modo che siano di questo colore” chiosa Olga con il suo solito ermetismo dadaista. “Dopo la montagna abbiamo l'ultima posizione dove dormiremo con voi. Prima di questa posizione sarà possibile entrare in minivillaggio e nuotare, costa 1000 tenge a persona”, con queste parole invece Sergey vuole darci la bella notizia che potremo fare una doccia.
Quando arriviamo in prossimità di Sherkala (la “fortezza del leone”) il nostro driver ci comunica con una sintassi un po' pleonastica che “da questo lato della montagna che assomiglia alla parte destra del leone della montagna come la testa del leone”, mentre se vista da un’altra angolazione ha la forma di una yurta. Ci accostiamo dunque alla montagna a forma di leone per scoprire che un tempo qui c’era una città che serviva come tappa per i commercianti che viaggiavano da regioni lontane: “Erano i tempi del sentiero della Seta. C'era una fortezza qui che difendeva questa città. Sulla montagna poteva salire solo da un unico posto, la gente della montagna avevano acqua, potrebbero difendersi per mesi. C'erano solo archi e lance.” Quella città oggi non c'è più: a sentire Olga avevano usato l’argilla, per cui “non ha vissuto fino ai nostri anni; erano fragili quindi non sono sopravvissute. C’erano migliaia di persone nel quinto secolo, ma non è rimasto più niente.” Per quanto riguarda le grotte che vediamo accanto a noi, Sergey ha fatto “un esperimento, quando la gente era nella grotta: sono andato nella steppa e ho detto con calma con una voce del genere; mi hanno sentito bene. Queste grotte fungono da suono di notte.” Insomma, una specie di telefono. “Leggenda narra che completare un giro completo di Sherkala fa sì che i tuoi desideri diventino realtà”. Il giro della montagna non lo facciamo, anche perché fa un caldo cane e non vediamo l’ora di farci la doccia nel camping di yurte.
Debitamente rinfrescati, raggiungiamo Akmyshtau, la "valle dei castelli" secondo la definizione di Shevchenko, circondata da cinque montagne modellate da potenti processi erosivi. Sergey ci mostra un altro disegno realizzato dal poeta pittore all’epoca della già citata spedizione, che raffigura una di queste montagne: le colonne modellate dal vento la rendono simile a un antico tempio.
Montiamo il campo in un meraviglioso punto panoramico dell’Airakty Shomanay, circondato da creste rocciose e imponenti guglie. In un impeto di romanticismo, di fronte al sole che sta illuminando di rosso questo set di un film di fantascienza, Olga scandisce: “L’auto sta impedendo una vista così bella: spostiamo il tavolo e facciamo una cena al tramonto”. A causa del forte vento infatti l’auto era stata messa di traverso, ma da lì ci avrebbe impedito di guardare il panorama. La cena è come sempre squisita, lo spettacolo delle montagne ci lascia senza fiato, l’unico problema sono le migliaia di cavallette. “Presto non ci sarà bisogno di un interprete” afferma ridendo Sergey, che sta imparando qualche parola di italiano. “Per incontrare espansioni sconosciute” aggiunge con oscure parole Olga.
A parte la sosta al villaggio di Shepte per il rifornimento di viveri e gas, e a parte la breve ma piacevole passeggiata in una gola formata da tanti fogli rocciosi grigio scuro, la giornata odierna è dedicata ad uno dei paesaggi naturali più riconoscibili e visitati del Mangystau, il meravigliosissimo lago salato Tuzbair, che si estende per 15 km lungo il bordo occidentale dell'altopiano di Ustyurt ed è situato a circa 60 metri sotto il livello del mare. La prima vista panoramica spazia sulle ripide scogliere dai contorni levigati che si gettano nella sconfinata palude salmastra, bianca come la neve. Sergey raccoglie un sacco di fossili di ricci di mare e poi ci prepara il pranzo in un anfratto di roccia candida. “Se continuiamo a buttarlo fuori capisco che questo corpo creerà un enorme ohoh” sono le enigmatiche parole di Olga. Preghiamo Sergey di fare frasi più brevi al fine di rendere la comunicazione più efficace e lui, ubbidiente, promette: “Cerco di dividere il testo.”
Nel successivo punto di avvistamente notiamo in lontananza una specie di gazzella del luogo, che purtroppo galoppa via non appena si accorge della nostra presenza. Successivamente scendiamo al livello del lago, percorribile solo da autisti esperti come il nostro. C’è sempre musica nell’auto di Sergey: canzoni di rock pesante in lingua russa, hip hop americano, ma anche artisti discutibili come gli Enigma e Sandra, che negli anni Ottanta e Novanta inspiegabilmente hanno avuto un certo successo. È con questa imprevedibile colonna sonora che, sobbalzando nella Prado, ammiriamo le stupefacenti opere d’arte che l’erosione ha compiuto qui: a me vengono in mente le statue di Vigeland che ho visto ad Oslo l’anno scorso, a qualcun altro dei palazzi birmani.
Montiamo il campo in un angolo riparato, dove ben presto arriva l’ombra. La presenza delle mosche è davvero fastidiosa, almeno finché non calano le tenebre. Sergey dimostra un'eccezionale indulgenza nei confronti di questi insetti, che – poveretti – non incontrano molte forme di vita in questa stagione: “Siamo l’unica fonte d'acqua per loro di un’altra acqua qui.” In altri periodi dell'anno i turisti sono molto numerosi. D'inverno c’è una tenda dedicata alla cucina, mentre ora il fornello è posizionato all’aperto, protetto dalla jeep: “Con questo tempo sarà molto caldo cucinare dentro” spiega la servizievole Olga.
Sergey comincia a preparare la cena e stappa la prima Efes. “Ci sarà sempre un po' di birra nella mia pancia” traduce Olga senza riprodurre la risata che aveva accompagnato la battuta. Gli chiediamo come ha conosciuto sua moglie, una bella ragazza bionda che abbiamo visto in foto: “Siamo andati nella stessa scuola. Si ricorda di me quando ero piccolo e non me la ricordo.” Qualunque cosa vogliano dire queste parole, quel che è certo è che si sono conosciuti a 18 anni e poi sposati a 21.
Facciamo una sognante passeggiata sull’immensa distesa di sale, il tramonto arrossa l’orizzonte, le rocce gessose sono stupefacenti. Stanotte fa più caldo del solito. La mattina il sole arriva presto e scotta per cui dobbiamo smontare in fretta e furia il campo. “Tu con lo sguardo eretto all’avvenire Fisso al sole nascente ed adirato all’imbrunire” avrebbe detto Giovanni Lindo Ferretti in duetto con Olga.
Il tragitto per andare da Tuzbair a Bozzhira è un lunghissimo fuoristrada che fa divertire moltissimo Sergey. All’ora di pranzo ci troviamo su una strada asfaltata dove sono posizionate alcune capannine dotate di tavoli, simili a fermate per aspettare autobus inesistenti, e dove incontriamo alcuni turisti. Le postazioni sono state create perché questo tratto di strada si affaccia sulla valle dove sorgono due formazioni iconiche del Mangystau: la gola di Kyzylkup e il monte Bokty, che per il momento possiamo avvistare solo da lontano, tra l’altro sotto un cielo molto nuvoloso. Inoltre da qui si passa per andare alla famosa moschea di Beket Ata, importantissimo luogo di pellegrinaggio che però purtroppo non fa parte del nostro tour: “c’è abbastanza da vedere in trenta giorni”, commenta Sergey, per dire che in cinque giorni non possiamo vedere tutto. Alla fine del solito pranzo finalmente assaggiamo la buonissima ricotta dolce che avevamo comprato al supermercato e anche l'halva, il tipico dolce mediorientale, che in questo caso è a base di semi di girasole e non di sesamo. Di fronte all’ennesimo equivoco creato dal traduttore offline, Sergey finalmente ammette che “Olga con l’italiano ha dei problemi”, anche se “è davvero il miglior traduttore che conosco e che esista offline.”
Con la palude salata pensavo di aver visto il non plus ultra del Mangystau, ma quando siamo arrivati al primo punto panoramico sopra la valle di Bozzhira capisco che non è così. A causa di questi straordinari pinnacoli, guglie e creste rocciose, molti l'hanno considerata la versione kazaka della Monument valley, ma percorrendola tutta a me vengono in mente anche le ambe, le montagne piatte del nord dell’Etiopia, nonché le Meteore in Grecia, monasteri costruiti in cima alle montagne, perché è proprio questo che sembrano alcuni rilievi della zona: costruzioni realizzate dall’uomo. Avanzando nella valle poi appaiono scenari così bianchi che pare neve, e a un certo punto mi sembra di stare dentro a un ghiacciaio e poi, quando appaiono praticamente le tre cime di Lavaredo, nelle Dolomiti.
Anche il luogo dove montiamo l’ultimo campo è una meraviglia pennellata dal sole che finalmente scende, alleviando lievemente l’afa. Le temperature sono salite terribilmente col passare dei giorni, è l’ultima sera e c’è ancora abbastanza acqua, così Sergey ci propone di farci una specie di doccia en plein air. Stasera ci cucinerà il besbarmak, il piatto nazionale kazako. “Cucinare cibo semplice molto veloce, ma penso che sia meglio aspettare e mangiare cibo delizioso, quindi mi dispiace per una lunga cena” fa dire a Olga per giustificare il fatto che la preparazione impiegherà molto tempo. La stessa pentola in ghisa verrà utilizzata prima per cucinare la carne, poi per bollire patate e carote e infine per lessare la tipica pasta kazaka che farà da letto agli altri ingredienti, quando sarà collocata nel piatto di portata. Apprezziamo la filosofia e intanto beviamo la consueta birra Efes come aperitivo. “Mio nonno diceva sempre che se fai qualcosa che è dal cuore se non lo fai di cuore in cuore, allora è meglio non farlo mai. Quindi tutto quello che faccio sempre con amore” prosegue Olga con quell’afflato poetico che ormai abbiamo cominciato a conoscere e ad apprezzare tanto. “Siamo soli qui. In primavera, aprile e maggio avere molte persone qui.” E in effetti, in quattro giorni molto di rado abbiamo scorto altri turisti.
Finito di mangiare il piatto nazionale, delizioso, Sergey dice e Olga traduce: “Il mio amico mandato una foto di questo ragno, ricordare? L'ha preso nel suo garage.” Noi ricordiamo. “Abbiamo il ragno più pericoloso al mondo sul campo che si chiama la sua morte nera”. La notizia non è delle più rassicuranti, ma Sergey ci dice di non preoccuparci: “Se ora mi sdraierò sulla terra nessuno si rifugerà in me. Non siamo cibo per loro. In modo da non avere bisogno di prendere il panico: solo controllare.” Tiriamo un sospiro di sollievo, ma poi Olga ci mette nuovamente in allarme quando scandisce: “L'ultima volta c'erano un sacco di ragni durante il tour e quindi appena abbiamo spento le luci hanno corso intorno a noi.” E poi aggiunge in modo sibillino: “Ma non l'abbiamo visto e quindi non li abbiamo temuti. Se ci fossero ragni sarebbe già significa che il reggimento non ha paura. Ed ecco le borse e le scarpe meglio rimosse.” Quest’ultima raccomandazione è comprensibile, così raccogliamo le nostre proprietà e le andiamo a stipare dentro la tenda. “Non posso parlarne, dovresti saperlo” sono le ultime, misteriose parole di Olga. “Assomiglia all’ingenuità la saggezza” avrebbero chiosato i CCCP.
Anche se stasera non mettiamo la copertura alle tende, il calore insopportabile che sale dalla terra non mi fa chiudere occhio. Invidio Sergey che dorme sul tetto della jeep.
L’ultimo giorno del tour dura meno del previsto. Sarà che oggi si superano i 40 gradi, sarà che abbiamo un volo nel tardo pomeriggio e non possiamo rischiare di perderlo, sarà che Sergey vuole approfittare per riposarsi un po’ prima di ripartire con un nuovo gruppo, fatto sta che alle 3 siamo già a casa sua. Nonostante ciò abbiamo visto uno dei posti più belli di tutto il Mangystau, che se la gioca con Bozzhira: la gola di Kyzylkup, una serie di colline piatte a strati di diversi colori (tra cui il bianco del gesso e il rosso del ferro) che gli hanno fatto guadagnare il soprannome di "montagne tiramisù". “Questo posto è formato un reggiseno grazie ad un grande corpo d'acqua dove c'era acqua rossa” sostiene Olga incurante del nonsense appena pronunciato. Poi però aggiusta il tiro: “Linee perfettamente piatte che potrebbero essere fatte solo grazie all'acqua”, in pratica un tempo c’era un bacino idrico che poi si è ritirato creando questo affascinante spettacolo, che per fortuna possiamo ammirare sotto un cielo perfettamente azzurro in cui si affollano tante piccole nuvolette bianche.
A poca distanza c’è il monte Bokty, anch'esso costituito da rocce gessose di diversi colori, raffigurato sulle banconote da 1000 tenge. A poca distanza ci fermiamo per andare alla ricerca dei denti di uno squalo preistorico estinto, ma solo Sergey ha il coraggio di passare mezz'ora sotto il sole cocente a fissare il suolo. Comunque posso testimoniare in prima persona che i denti ci sono davvero e che si possono trovare facilmente guardando per terra.
A questo punto prendiamo la via del ritorno: le dune Tuyesu, vicino alla cittadina di Senek, non riscuotono grande entusiasmo. L’altra sosta infernale serve ad osservare la Depressione di Karagije, a - 132 metri sotto il livello del mare, il punto più basso e bollente dell'Asia centrale. Man mano che ci avviciniamo ad Aktau, compaiono migliaia di pompe petrolifere e poi i tipici tubi di distribuzione del metano per la rete domestica.
Sergey ci invita a casa sua, dove troviamo il classico tavolo kazako pieno di caramelle, biscotti, samsa (rustici ripieni di carne e cipolle) e naturalmente litri di chai. Conosciamo anche i bellissimi bambini e dopo le classiche foto insieme siamo pronte per andare all’aeroporto.
“Cinque giorni sono volati in un lampo” sono le commoventi parole di Sergey, per una volta perfettamente tradotte da Olga; se non fosse per la frase successiva, un ennesimo messaggio criptico ma geniale nella sua astrusità: “La ferita, per coltivare i baci, la devi lasciare”.
Fake Kazakistan
Scendere dall’aereo atterrato a Shymkent è un'operazione alquanto ansiogena; i kazaki, infatti, come si è visto hanno questo brutto vizio di affrontare le situazioni affollate con il proverbiale coltello tra i denti. La contrattazione con il tassista è concitata, in meno di un minuto passa da diecimila a cinquemila tenge, ossia dieci euro – che sono comunque tantissimi se si considera che la benzina costa l’equivalente di 50 centesimi di euro. La velocità di crociera è sostenuta; dal finestrino scorrono alberghi e locali enormi e illuminatissimi. L’hotel è di altri tempi, la stanza è molto spaziosa con tanto di salottino e perfino il bidet; inoltre costa solo venti euro e hai diritto a tenerla per 24 ore. Mi vado a procacciare un pane tondo nell'unico negozietto aperto lì vicino e il gestore tira subito fuori il traduttore, sorridendo.
Shymkent fu fondata nel Medioevo come caravanserraglio lungo la Via della Seta e si trova molto vicino al confine con l’Uzbekistan, con cui condivide una buona parte della sua storia; una nutrita fetta della popolazione ancora oggi è di etnia uzbeka, anche se in netto calo rispetto al passato. Nel periodo sovietico era una città industriale, famosa soprattutto per la produzione di piombo, mentre recentemente fa parte di un programma di sviluppo, intrapreso dall'ex presidente Nazarbaev, che la promuove come "terza megalopoli kazaka": gli abitanti sono diventati più di un milione e nuovi quartieri sono in costruzione.
Il Parco dell'Indipendenza, inaugurato nel 2011, celebra le tappe più importanti del Kazakistan e i suoi valori, come ad esempio l’impegno per il disarmo e l'unità del popolo, composto da 137 nazionalità che vanno d'amore e d’accordo. Le numerose composizioni floreali provengono dai Paesi Bassi, mentre le varie strutture sono realizzate in granito rosso. Sul piedistallo del portabandiera alto 50 metri appare l'emblema del Kazakistan, tutto dorato, al centro del quale campeggia l'immagine di uno shanyrak (la punta superiore di una yurta), racchiuso fra le ali dorate di due cavalli mitologici. Nella parte inferiore dello stemma si trova il nome del paese in caratteri dell’alfabeto latino, QAZAQSTAN, che sta soppiantando il nome in caratteri cirillici. Siccome lo stemma conserva alcuni elementi di quello sovietico, il presidente Tokayev ha recentemente annunciato che sarà presto cambiato. Per quanto riguarda l'attuale bandiera, invece, su uno sfondo azzurro campeggia un'aquila della steppa (probabilmente associata all'impero di Gengis Khan) posta sotto un sole dorato, mentre sul lato c'è un "ornamento decorativo nazionale" che rappresenta le tradizioni artistiche e culturali del vecchio khanato kazako.
Il Museo delle vittime della repressione politica si trova lungo il parco Abay, di fronte al monumento con la fiamma eterna, e sta per chiudere; ciononostante l’impiegato non solo ci permette di visitarlo, bensì ci tiene a fornirci una serie di spiegazioni barcamenandosi con quel po’ di inglese che sa e poi ricorrendo come sempre al traduttore online. L’obiettivo del museo è perpetuare la memoria delle vittime del terrore sovietico durante la prima metà del XX secolo, quando oltre un milione di kazaki morirono a causa della carestia e altri milioni furono deportati nelle inospitali steppe di tutta l'ex Unione Sovietica; lo stesso Kazakistan ha ospitato almeno 11 campi Gulag e centinaia di sottocampi dagli anni '30 alla fine degli anni '50. Al centro della sala principale campeggia un'inquietante e articolata scultura che rappresenta la prigionia, il dolore e la morte, circondata da moltissimi nomi, immagini e storie delle vittime. Per completare la descrizione, userò le parole (tradotte automaticamente) di una recensione che ho letto su Google: “Una visita al museo lascia profonde emozioni nell'animo. Il governo sovietico è probabilmente l’unico nella storia che ha trattato i suoi cittadini in modo così disumano. Al piano terra si trova una composizione scultorea che trasmette tutto il dolore e la sofferenza della gente in quegli anni. Ci sono figure di cera raffiguranti la repressione della rivolta con il fuoco delle mitragliatrici e l'interrogatorio con tortura. Al secondo piano ci sono cartelli con i nomi dei residenti repressi del Kazakistan meridionale. P.S. Probabilmente tra molti decenni esisterà un museo dedicato alle vittime della repressione dell'attuale governo.”
Pranziamo in un ristorante uzbeko, sedute nella classica capannina in legno, e poi attraversiamo il mercato scherzando con alcuni venditori. Per andare a Turkestan, il receptionist ci ha trovato un’auto a soli 9000 tenge (meno di quanto abbiamo pagato per il taxi dall’aeroporto) e solo in seguito abbiamo arguito che aveva utilizzato l'app di ride-hailing che si chiama Indrive e che qui va alla grande. Scoperta la nostra provenienza, l’uomo al volante scrive “italyanskiy music” su youtube e da lì parte una mezzoretta di calvario in cui siamo costrette ad ascoltare i Ricchi e poveri, finché l’algoritmo non si decide a cambiare genere.
Turkestan, la «seconda Mecca dell'Oriente», attrae da secoli frotte di pellegrini che vanno a visitare il mausoleo del più grande poeta e mistico dell'Asia centrale, il maestro (Khoja) Ahmed Yasawi. Costui all’inizio del XII secolo fondò qui una scuola di sufismo e ancora oggi è ampiamente venerato nel mondo di lingua turca per aver reso popolare questo movimento mistico nell'Islam (la serie turca “Mavera”, per dire, è basata sulla sua vita). Fu Timur, alias Tamerlano (sotto il cui controllo era passata la città), a far erigere questa magnifica struttura, dopo che Ahmed Yasawi (stando a quanto dice la leggenda) gli era apparso in sogno predicendogli l'imminente conquista di Bukhara. Anche se la costruzione fu interrotta con la morte di Timur nel 1405, il mausoleo ancora oggi è considerato il monumento più significativo di tutto il Kazakistan (dal 2003 incluso nel patrimonio UNESCO), ma soprattutto rappresenta il prototipo degli inconfondibili edifici che Tamerlano fece costruire a Samarcanda e in altre città del regno.
Quando l'impero timuride si disintegrò, il territorio passò sotto il Khanato kazako, che nel XVI secolo fece di Yasi, poi ribattezzata Turkestan, la sua capitale. Fu allora che i kazaki acquisirono individualità come gruppo etnico, per questo Turkestan conserva ancora oggi un grande valore simbolico come cuore culturale del Paese. A questo periodo d’oro risalgono le fortificazioni e le mura che circondavano la città, di cui oggi restano soltanto delle porzioni. Nel museo storico (l'unico luogo non restaurato qui nella cittadella, ancora senza aria condizionata) viene esaltata l'importanza nazionale di questa città così antica, nonché il valore spirituale derivante dalla presenza del maestro Ahmed Yasawi e di tutti i "khan" che si succedettero. Molti di questi re e anche altre personalità di spicco sono sepolti qui, per esempio una pronipote di Tamerlano riposa nel monumento funebre (completamente ricostruito) accanto a quello del maestro. Altre eredità del periodo medievale sono un hammam e una moschea sotterranea, in cui si crede che Ahmed Yasawi si fosse ritirato negli ultimi anni di vita.
Nel tempo l’antica cittadella si spopolò e nacque la città nuova, che c’è ancora adesso ma nella quale non ho messo piede. Nel periodo sovietico, sebbene il mausoleo fosse chiuso al pubblico, i pellegrini continuavano a recarsi al monumento; alcuni lavori di conservazione e restauro vennero comunque effettuati a quei tempi, ma non così radicali e continui quanto dopo l’indipendenza. Come Shymkent, anche Turkestan negli ultimi tempi ha visto crescere il numero di abitanti, registrando un calo degli uzbeki etnici, che comunque restano un discreto numero.
Sull’onda degli sforzi che il governo kazako sta facendo per avviare il turismo nel Paese, diverse aree di Turkestan e dei suoi dintorni sono state designate Zona Economica Speciale e la città è stata recentemente soggetta ad un completo e dispendioso restyling che in meno di dieci anni l’ha resa irriconoscibile. L’opera più sorprendente è il Karavan Saray, il più grande complesso turistico dell'Asia centrale, completato su un’area di circa venti ettari tre anni fa, dopo che la città era stata nominata “la capitale spirituale del mondo turco” dal Consiglio turco (un’organizzazione internazionale che comprende Turchia, Uzbekistan, Azerbaigian, Kazakistan e Kirghizistan). Solo tre mesi dopo si cominciarono a notare segni di deterioramento nelle strutture appena realizzate: il fatto che una somma del genere si fosse tradotta in costruzioni e materiali di scarsa qualità scatenò l'ira dei cittadini.
Questo finto caravanserraglio è una specie di Disneyland della Via della seta che comprende negozi, hotel, ristoranti, cinema, un canale navigabile, una fontana luminosa e molto altro. Il cosiddetto Teatro volante, ad esempio, è una struttura con un tetto d'oro a forma di uovo intitolata a Samruk, un uccello del folklore kazako che pose un uovo d’oro nel nido dell’enorme albero della vita a cui nella notte dei tempi assomigliava il nostro pianeta. Lo stesso mito di origine turcica è alla base della famosa torre di osservazione Baiterek, nel centro di Astana, considerata un simbolo del Kazakistan post-indipendenza; si tratta appunto di un albero stilizzato alto 97 metri (corrispondente al 1997, l'anno in cui la città divenne la capitale) con i "rami" che sostengono un'enorme sfera color oro, che sarebbe appunto l’uovo d’oro che contiene tutti i desideri degli uomini e le risposte sul loro futuro. Vabbè poi in cima c'è un'impronta dorata della mano destra di Nursultan Nazarbaev, il primo presidente (un tipo molto umile di cui parleremo in seguito), su cui i visitatori sono invitati a poggiare la propria mano esprimendo un desiderio.
Un grande "pioppo della conoscenza" si trova pure nell'atrio dello scintillante Museo del patrimonio culturale di Turkestan, un museo etnografico dedicato alla "cultura delle steppe", dove ci viene spiegato che nella mitologia turcica (ma anche in altre culture) esso ha la funzione di collegare i tre regni dell'universo: quello sotterraneo, la terra e il cielo.
Il ritrovamento archeologico che ha permesso di dare uno sguardo nuovo agli antenati dei kazaki, ossia gli sciti, è il "Tutankhamon del Kazakistan", i cui resti furono rinvenuti nel 1969 in un tumulo funerario vicino alla città di Issyk. Si tratterrebbe di un principe/principessa saka (parente orientale degli sciti) del III o IV secolo a.C., di circa diciotto anni, sepolto/a con un equipaggiamento da guerriero e un ricco corredo funebre, inclusi migliaia di raffinatissimi ornamenti d'oro (metallo che aveva un ruolo preponderante nella loro religione). Il tumulo comprendeva anche un'iscrizione saka, una lingua iranica orientale di cui molto raramente di sono trovate tracce epigrafiche. Partendo da questo e da altri corredi funerari rinvenuti in vari luoghi dell'attuale Kazakistan, sono stati realizzati i manichini del guerriero d'oro e di altri uomini e donne del passato esposti qui. Come si evince dagli altri oggetti, statue e pannelli esplicativi, il cavallo era un elemento fondamentale della società scita, sia come fulcro dell'attività nomade e di quella guerriera, sia come fonte di nutrimento.
Una sezione del museo è dedicata al sito archeologico della cultura Botai, nel Kazakistan settentrionale, che risale al 3500 a.C. circa ed è importantissimo perché ha prodotto alcune delle prime prove in assoluto dell'addomesticamento del cavallo.
Per concludere, se a tutto ciò aggiungiamo la bellissima moschea Ahmed Yasawi (un recente omaggio da parte della Turchia), le fontane e le altre strutture luminose a forma di fiori di loto o alberi, le macchinine elettriche che girano per le strade, l’etno-village con le yurte e i finti cavalli, i cammelli veri (su cui vengono piazzati bambini imbronciati) e quelli finti presenti un po’ ovunque, i giardini e i parchi curatissimi e continuamente innaffiati, i cestini e i lampioni a tema, i ristoranti e parchi gioco per famiglie e tutte le altre attrazioni create nel centro storico di Turkestan, l’impressione è di circolare dentro a un gigantesco padiglione dell’expo. E comunque è bello, a suo modo, oltre a rappresentare una perfetta metafora di questo Paese di contrasti che è il Kazakistan.
Tutto ciò detto, Turkestan è un luogo di culto che attrae veri pellegrini islamici e pochissimi visitatori occidentali, infatti più di una volta sono stata fermata da qualcuno che voleva intervistarmi. C’è stato anche un ragazzo, non so se pellegrino o residente, che mi ha bonariamente seguito per una mezz'oretta perché voleva diventare mio amico, ma non aveva niente da dire e anche se l’avesse avuto non avrebbe saputo in quale lingua dirmelo.
Ho prenotato una cuccetta nel moderno treno notturno che parte da Shymkent e arriva ad Almaty la mattina presto. Mi godo il sole che al tramonto illumina i tavoli della carrozza ristorante e quando diventa buio mi siedo al bancone del bar per prendere una birretta. Il tizio accanto a me inizialmente sta per i fatti suoi ad ascoltare la musica in cuffia, ma quando capisce che sono italiana si toglie gli auricolari e si presenta: è di Shymkent, ma lavora ad Almaty come avvocato. Dopo avergli raccontato brevemente il mio itinerario, la conversazione prende una piega filosofica-esistenziale, abbastanza malinconica e sconsolata visto il carattere del mio compagno di bevute. Quando ho espresso la mia passione per il liberalismo, ha risposto che per lui confligge con la democrazia, probabilmente confondendolo con il neoliberismo (“Tutto gira intorno ai soldi!” ha affermato con un certo livore). Io invece gli ho detto che per me il liberalismo consiste nel rispettare tutte le minoranze e assicurare i diritti di tutti, indipendentemente dall’orientamento sessuale, dal colore della pelle, dalla religione eccetera. “Ehhh, it’s angels’ world!” ha commentato con palese scetticismo l’avvocato di Shymkent, al che ho detto che non è il mondo degli angeli, ma che servirebbe un grande sforzo da parte di tutti per renderlo almeno in parte possibile. Lui non ha ribattuto, io ho intravisto un impercettibile luccichio nei suoi occhi e ho sorriso, illudendomi di averlo quasi convinto.
Il primo presidente e il nonno delle mele
Almaty, la città più popolosa del Paese, in russo si chiama Alma-Ata, che dovrebbe significare il “nonno (o padre) delle mele", per sottolineare che le mele selvatiche hanno avuto origine da queste parti. La città è situata ai piedi dell’estrema propaggine settentrionale della catena del Tian Shan: le montagne innevate che le fanno da sfondo, nelle giornate di cielo sereno, regalano un fascino speciale a questa Torino kazaka.
Una ragazza autoctona incontrata sull’autobus mi informa in italiano perfetto che fino al 1997 era la capitale del Kazakistan. “Se non sbaglio la nuova capitale Astana per un periodo è stata chiamata Nursultan…” dico io, che lo avevo letto sul libro di geografia. Lei ride di gusto: “Sì, Nazarbaev decise, con l’umiltà che lo contraddistingueva, di chiamarla con il proprio nome di battesimo, ma tre anni dopo il parlamento ha votato in modo compatto per tornare al precedente nome”. Per contestualizzare i fatti, il cambio di nome avvenne nel 2019, quando – incalzato da una serie di proteste anti-governative – il presidente, dopo quasi trent’anni di governo, si decise finalmente a dimettersi; tuttavia fu una semplice operazione di facciata, perché in realtà continuò a mantenere un’enorme influenza (per esempio, era a capo del potente Consiglio di sicurezza nazionale). Soltanto a gennaio 2022, dopo altri gravi disordini, il suo sostituto Tokayev ha dato avvio ad una vera e propria opera di "de-nazarbaevizzazione": molte vie, edifici e istituzioni intitolati all’ex presidente hanno ripreso il loro nome originale, alcune sue statue sono sparite e soprattutto sono stati revocati tutti gli incarichi, i privilegi e le immunità che ancora aveva.
A Zhanaozen, nel Mangystau, ebbero luogo sia i già citati disordini del 1989 sia il massacro dei manifestanti del Giorno dell'Indipendenza, nel dicembre 2011. Sempre qui, dopo un improvviso aumento dei prezzi del GPL, iniziarono pacificamente le proteste di massa del gennaio 2022, che si diffusero poi rapidamente in altre città del paese. In particolare ad Almaty le manifestazioni si trasformarono in rivolte violente, alimentate dal malcontento nei confronti del governo e dell'oligarchia nazionale, nonché della corruzione e della disuguaglianza economica. Il presidente Tokayev dichiarò lo stato di emergenza e richiese l’intervento dell’alleanza militare regionale guidata dalla Russia, parlando di “aggressione terrorista” di ispirazione straniera o addirittura di un tentativo di colpo di stato. Putin giustificò l'intervento come uno sforzo concertato per proteggere gli alleati kazaki da quelle che ebbe a definire, siccome suole, ”rivoluzioni colorate”: il rovesciamento del regime amico non sarebbe stato un bell’esempio per i russi! Dopo più di duecento vittime e migliaia di arresti, Tokayev volle dimostrare di aver preso in carico le richieste, per cui sospese l’aumento del prezzo del carburante e sciolse il governo (oltre alle suddette azioni contro Nazarbaev). Però poi qualche mese dopo inaugurò il memoriale di Tagzym con un discorso retorico del tutto in linea con l'opinabile narrazione putiniana. Il monumento alle vittime dei disordini sorge nella scenografica piazza della Repubblica, in un giardino situato accanto al palazzo del sindaco (che all'epoca degli eventi venne vandalizzato), e di fronte all’imponente obelisco in onore dell'indipendenza, sulla cui sommità si erge una statua del già citato “guerriero dorato”.
Girando l’angolo si incontra un'altra opera celebrativa dedicata a un evento simbolo della lotta per l'indipendenza del Kazakistan, la "rivolta di dicembre" (Zheltoksan), che ebbe luogo nel 1986 dopo che Gorbaciov ebbe licenziato il segretario del Partito Kunaev, di etnia kazaka, per sostituirlo con Kolbin, che non solo era di etnia russa ma non aveva mai vissuto o lavorato in Kazakistan. La manifestazione degenerò e scoppiarono scontri fra i dimostranti e la polizia; molte persone furono uccise dall’esercito e dalle forze speciali, migliaia furono arrestate. Coloro che protestavano non avevano nessuna intenzione di staccarsi dall’Unione Sovietica, gli bastava avere un segretario kazako e poco dopo furono accontentati: iniziò così la lunga carriera di Nursultan Nazarbaev – che tra parentesi non era certo schierato con i manifestanti. Tra l'altro, secondo le memorie di Gorbaciov, la nomina di Kolbin era stata proposta dallo stesso Kunaev proprio per fermare l'avanzamento del nostro NN.
Almaty è una bella città piena di verde, che percorro volentieri a piedi visto che fortunatamente le temperature sono molto piacevoli in questi giorni. Per le lunghe distanze ci sono gli autobus, ben segnalati sulle mappe online, e anche una linea di metropolitana
Il cuore di Almaty è il Parco delle 28 Guardie Panfilov, che prende il nome dai soldati di un'unità di fanteria che morirono mentre difendevano Mosca dall'invasione tedesca: insieme a tutti i sovietici che combatterono e morirono nella “Grande Guerra Patriottica”, sono commemorati con un gigantesco monumento nero accanto al quale arde la classica fiamma eterna. Al centro del parco si erge la coloratissima cattedrale ortodossa dell’Ascensione, “tutta di legno, magnifica nel primo sole del mattino, con le sue croci scintillanti, alte sulle cupole d'oro a cipolla, con le sue torri rosa e il corpo giallo e bianco; un gioiello di architettura inizio Novecento, simbolo della fede portata qui dai russi ed eccezionalmente lasciato intatto dai bolscevichi che invece, nel resto dell'Unione Sovietica, non si peritarono di dare alle fiamme del loro fuoco rivoluzionario altre chiese e altre cattedrali”. Così la descrisse Terzani nel 1991, aggiungendo che “forse la risparmiarono perché, nonostante il suo valore religioso, era anche un grande esempio di cultura russa in terra kazakha e, come tale, serviva ai bolscevichi stessi a rammentare alle popolazioni locali la missione civilizzatrice dei colonizzatori.” La chiesa fu uno dei pochi edifici rimasti in piedi dopo il devastante terremoto del 1887, che rase al suolo quasi completamente Vernyj, come allora si chiamava la città.
A un isolato di distanza dal parco spicca l’imponente moschea centrale di Almaty: oggi circa il settanta per cento della popolazione kazaka è musulmana, ma i governi si sono adoperati per diffonderne una versione laica. I partiti politici religiosi sono vietati e i gruppi religiosi vengono tenuti sotto sorveglianza, infatti come in tutti i Paesi dell’Asia centrale è diffuso il timore dell’affermazione di movimenti islamici più rigidi e fondamentalisti e la minaccia del terrorismo è notevolmente propagandata: “Pure io ho questo pregiudizio, sai la barba ecc. Non puoi farne a meno…” mi ha detto un kazako di etnia russa. E infatti nella trafficata via pedonale Zhibek Zholy viene proiettato sul maxischermo un video dedicato al lavoro di una squadra anti-terrorismo alle prese con un pacco-bomba. Il green bazar è un ordinato mercato coperto, con le bancarelle numerate che espongono frutta e verdura in geometriche piramidi, sottaceti e miele in barattoli colorati, latte di cammello fermentato, frutta secca proveniente dall’Uzbekistan, dolci, spezie, palline di formaggio salato (qurt), panna rappresa (kaymak) ecc. Il reparto macelleria è suddiviso a seconda del tipo di animale (disegnato sul cartello): molto prelibata è per i kazaki la carne di cavallo. Infine, sempre nella stessa zona troviamo l'Arasan Wellness & SPA, un enorme edificio in stile modernista realizzato nel 1984. Uomini e donne sono separati, infatti si entra nudi per godersi questo complesso di saune finlandesi, banyas russi, hammam turchi e piscina da cui esci con la pelle liscissima. Il bagno russo è insopportabilmente caldo: qui molte donne indossano il cappello di feltro e si frustano a vicenda con i rami di betulla venduti all'ingresso, i quali spargono un intenso profumo balsamico in tutta la stanza infernale.
Il Museo d'arte statale Abilkhan Kasteev, fondato addirittura nel 1935, è intitolato a un celebre pittore kazako insignito in epoca sovietica del titolo di Artista del Popolo. L’ingresso costa un euro, ci sono più membri del personale che visitatori, inoltre siamo praticamente solo donne. Oltre alla sezione dedicata alle arti applicate e decorative, c'è un'eccezionale galleria di dipinti e sculture di artisti kazaki classici e contemporanei, ma anche moltissime opere provenienti da tutte le ex repubbliche dell’URSS (lavoratori e lavoratrici, sport, neve, stivali, campi agricoli). In contrasto con l'impostazione prettamente sovietica dell'edificio e degli arredi, è presente una mostra interattiva realizzata in occasione del 120° anniversario della nascita di Kasteev: cinque opere del maestro sono state trasformate in brevi video che possiamo guardare su altrettanti schermi a LED incorniciati. La tecnologia è stata fornita dalla Samsung, che si impegna a contribuire alla conservazione e alla ricerca dell'arte kazaka come parte del patrimonio artistico mondiale.
Proseguendo verso sud ovest si incontra prima il giardino botanico e poi il parco del primo presidente, costruito su un vasto terreno dove un tempo si trovavano dei meleti. C'è un ingresso monumentale, diverse sculture a forma di mela, una fontana, dei chioschi e ovviamente tanti alberi e panchine. Il nostro NN, al quale il parco è intitolato, è celebrato con una statua realizzata in marmo, bronzo e granito che lo ritrae seduto tra due ali che rappresentano le città principali del Paese: Almaty e Astana. Non solo la statua è ancora al suo posto, ma la gente si mette in fila per fotografarsi insieme a lui. Devo dunque dedurre che l’ex dittatore continua ad essere amato, nonostante le violazioni dei diritti umani, il dissenso represso, le elezioni non libere, il culto della personalità, il controllo dei media, nonché la corruzione e il nepotismo che hanno caratterizzato il suo governo. E nonostante il fatto che, come abbiamo visto, sia recentemente caduto in disgrazia.
Quando arrivo alla stazione della funivia diretta a Kok Tobe (la "collina blu") due fattori mi fanno titubare: la lunga fila e i minacciosi nuvoloni neri che incombono. Ma poi man mano le persone in coda vengono risucchiate dentro e in poco tempo tocca a me affrontare la solita lotta all’ultimo sangue per far rispettare l’ordine di arrivo alla biglietteria e per salire sulla “gondola”. Il parco di Kok Tobe, situato a più di 1000 metri di altitudine, comprende una casa capovolta, una ruota panoramica, un percorso avventura, una palestra di roccia, un labirinto degli specchi, una pista per la slitta, dei cavalli, delle giostre, degli angoli foto con i finti Beatles o le vere aquile, la torre della televisione, bar e ristoranti. A parte le attrazioni, trovo questa destinazione molto deludente perché le montagne non si vedono quasi per niente: sembra che abbiano fatto apposta a limitare l'accesso a tutti i punti panoramici più interessanti. La cosa positiva è che il temporale, finora, mi ha risparmiata.
Un'oretta dopo sono seduta a un tavolo all'aperto di questo grande e ambizioso ristorante specializzato in piatti di carne. Vicino a me è seduta la proprietaria, a cui alcuni membri dello staff stanno cerimoniosamente proponendo le nuove salse: quella al pepe e quella ai funghi le fanno assaggiare pure a me. Sta piovendo da un bel po' e non accenna a smettere. Inoltre c'è un vento molto forte, le temperature sono precipitate e io indosso una maglietta leggera e non ho nemmeno l'ombrello. Nell'attesa che la situazione migliori ordino un'altra birra e nel frattempo esce questo tizio a fumarsi una sigaretta. Quando scopre la mia provenienza, mi dice in italiano che ha studiato a Siena, è di Almaty e parla russo (cosa che avevo capito dai suoi lineamenti). Approfitto per chiedergli com'è la situazione politica. "Be', non c'è una vera e propria censura su quello che si dice, ad esempio a scuola; il controllo è attuato più tramite la propaganda religiosa, quindi fare più figli, non bere alcol, insomma così la società è più tranquilla e c'è meno criminalità." E per quanto riguarda le varie etnie? "Russi e kazaki si riconoscono subito, però non c'è razzismo tra di noi. Io ad esempio non parlo bene kazako, mentre i kazaki il russo spesso lo capiscono perché lo hanno studiato a scuola. Ancora oggi, se studi ingegneria o medicina non puoi non sapere il russo." Per essere precisi, il russo lo parlano i kazaki di una certa età e i ceti più colti, mentre i giovani e le persone di campagna in genere parlano solo la lingua nazionale. La lingua kazaka viene trascritta con tre alfabeti: latino, cirillico e arabo. Attualmente sono ancora utilizzati i caratteri cirillici, ma avevo letto che entro il 2025 è prevista la transizione verso l'alfabeto latino. Secondo Ivan è un'assurdità "perché pochi sanno l'inglese, e comunque ci sarebbero problemi molto più importanti da risolvere, invece di queste scemenze".
Nel 2017, il nostro NN descrisse il ventesimo secolo come un periodo in cui "la lingua e la cultura kazaka sono state devastate" e infatti molto si sta facendo per ridargli importanza. Però, come in tutte le repubbliche dell'Asia centrale, ogni decisione che rafforza la propria lingua nazionale è un colpo al cuore per Putin. Le lingue di questi stati infatti sono di origine turca e non slava come il russo o l'ucraino: ogni abitante di questa regione che non parla più russo rappresenta un ulteriore passo nel cammino che li allontana dalla Russia, non solo dal punto di vista culturale ma anche politico, visto che non sarà più capace di capire i programmi della TV russa, nonché i giornali e i siti internet. Nel novembre 2023 Tokayev, mentre accoglieva una delegazione russa guidata dallo stesso Putin, ha cominciato il suo discorso in kazaco prima di passare al russo: una mossa davvero inaspettata, che nessuno ha capito se era rivolta più ai funzionari russi o più al popolo kazako.
Intanto Ivan è rientrato e io decido di tornare in ostello, nonostante la pioggia. A parte che ci arrivo fradicia, va detto che le mie compagne di camerata dormono tutte, il letto a castello che mi è stato riservato è privo di coperta e fa un fracasso infernale ad ogni minimo movimento, inoltre il lenzuolo copre solo una parte del materasso e le prese più vicine non sono utilizzabili, per cui non solo devo salire e scendere almeno quattro volte per i motivi su esposti, al buio e spaccandomi i piedi sulla ignobile scaletta, ma vengo anche mandata affanculo per averle svegliate. Con grandissima soddisfazione la mattina dopo mi trasferisco in un meraviglioso capsule hotel, nuovo di zecca nonché centralissimo ed economico, dotato di letti che non fanno rumore situati in minuscole stanzette dove non si rischia di svegliare i vicini.
Il Museo Centrale Statale della Repubblica del Kazakistan di Almaty mi dà l'opportunità di ripassare tutto quello che ho imparato finora, a partire dalla sfarzosa sala centrale dove un video di promozione turistica mostra i luoghi più belli del Mangystau, di Turkestan e del montuoso sud-est. Nella sezione archeologica ritrovo l'immancabile "guerriero d'oro" del tumulo di Issyk, le raffinate opere di oreficeria e alcuni mausolei in scala ridotta, tra cui quello di Turkestan, mentre nelle sale dell'antropologia e dell'etnografia sono esposti diversi diorami dedicati alla cultura tradizionale e allo stile di vita nomade: sullo sfondo dell'arida steppa sono state ricostruite antichissime sepolture, pupazzi di maniscalchi, tessitrici e falconieri all'opera, cammelli e cavalli e le immancabili yurte. Grande risalto viene dato alla ricchezza mineraria del Kazakistan, che sin dai tempi antichi occupa uno dei primi posti al mondo in termini di quantità e diversità di risorse. Grazie ad esse oggi è lo Stato più ricco dell’Asia centrale, come vogliono dimostrare nella sezione "Kazakistan indipendente", dove – tra le altre cose – sono esposti dei modellini degli stabilimenti di estrazione petrolifera.
Infine c'è la "Hall of History", dedicata al Kazakistan multietnico. Sono più di cento le nazionalità presenti in questo Paese, conseguenza duratura del brutale regime di Stalin che fece deportare qui numerosi popoli come i coreani che vivevano nella Siberia Orientale, i tartari della penisola di Crimea, i ceceni e gli ingusci del Caucaso settentrionale, i tedeschi delle colonie del mar Nero e del Volga ecc. All’epoca infatti, dopo la spaventosa carestia e l’imposizione della collettivizzazione, il Kazakistan era spopolato e le sue sterminate pianure erano pressoché deserte. Secondo le stime, circa sei milioni di persone furono trasferite con la forza negli anni Trenta e Quaranta, circa un quarto delle quali morì durante il trasporto o nel primo periodo dell’esilio. A questi popoli dobbiamo naturalmente aggiungere gli ucraini, gli uzbechi (molto numerosi nella zona di Shymkent), gli uiguri (maggiormente presenti qui a oriente) e gli altri vicini di casa. Comunque, in questo padiglione sono allegramente esposti arredi, abiti, oggetti d'artigianato, documenti, fotografie ecc. caratteristici di 16 gruppi etnici in particolare.
Per quanto riguarda i russi, invece, erano quasi il 40% nel 1989, grosso modo la stessa percentuale dei kazaki; questi ultimi oggi sono diventati il 70%, con i russi scesi al 15% circa, tra l’altro maggiormente concentrati nelle regioni settentrionali. A parte i numerosi trasferimenti avvenuti dopo l’indipendenza, l’aumento in percentuale degli autoctoni è dovuto anche all’indice di fecondità più alto tra la popolazione kazaka, che è più conservatrice. Oggi il Kazakistan conta quasi venti milioni di abitanti, pochissimi in un territorio così vasto, ma da alcuni anni in aumento grazie appunto al fatto che ogni donna fa mediamente più di 3 figli. Un dato che lo differenzia dalla Russia, dove la fecondità non raggiunge il livello di riproduzione, e un altro segnale del fatto che i russi sono sempre meno "padroni".
Al termine del concerto mi sono messa a chiacchierare con i membri del gruppo sulla terrazza di questo bellissimo jazz club. "Ti è piaciuto il concerto?" mi chiede il contrabbassista. "Molto" rispondo sinceramente io, che avevo gradito sia la musica sia il locale con i tipici tavolini, le luci soffuse e anche una discreta cucina. "Peccato che c'era poca gente". "È così tutte le sere, specialmente in settimana" mi risponde, "d’altra parte il club di Almaty è stato aperto solo dopo l'invasione criminale dell'Ucraina, quando una parte del personale della sede di Ekaterinburg ha deciso di lasciare la Russia. E anche noi musicisti, come vedi". “La sede russa va molto bene, quindi non gli interessa granché avere tanti clienti qui" aggiunge la cantante, che invece è di Almaty, "e in quanto a me, devo pure ringraziare Putin per aver iniziato la guerra! Prima ero disoccupata, mentre ora lavoro qui molte sere a settimana. L'inflazione è alle stelle: Mosca un tempo per noi era una città carissima, invece oggi è diventata più costosa Almaty. Però abbiamo gli stipendi che equivalgono a un terzo di quelli russi. La crisi è forte, ma noi resistiamo.”
La più tipica delle escursioni nei dintorni di Almaty prevede la visita a canyon e laghi situati vicino al confine con il Kirghizistan, circondati da montagne ammantate di splendide foreste. Nel mio caso è concentrata in un giorno solo, ma può anche essere svolta in due o più giorni prendendosela più comoda. La prima sosta non è niente di che: ti affacci sul cosiddetto Black canyon e vedi quelli che si posizionano a favore di strapiombo per farsi le foto, anche se è proibito. Poi si arriva al lago Kandy, non prima di aver lasciato il van a Saty ed essere saliti su un camioncino vintage che deve percorrere strade sconnesse e guadare fiumi. Poiché il lago è apparso solo in seguito a un terremoto (quello del 1911), la sua particolarità consiste nella “foresta sommersa” di alberi che si elevano sopra la superficie dell’acqua. Un breve temporale ci sorprende mentre stiamo tutti a scattarci le foto su questo specchio turchese, qualcuno indossando i costumi tradizionali o addirittura facendosi mettere un’aquila sul braccio; in quell’occasione faccio amicizia con l'adorabile gestore del chiosco e con suo figlio. A questo punto andiamo a pranzo in una guesthouse di Saty dove vanno praticamente tutti i gruppi, che prevede la classica, scenografica tavola kazako-kirghiza stracolma di dolci e frutta secca. Il pranzo consiste in una zuppa (il borsch) e in un grande piatto principale a base di pollo (squisito).
Nel pomeriggio ci rechiamo al lago Kolsai, dove hanno recentemente costruito una serie di passerelle in legno così non dobbiamo sporcarci le scarpe sui sentieri e infatti il posto è molto affollato; per la cronaca, vanno alla grande i video panoramici realizzati indossando la bandiera kazaka come mantello. Probabilmente il secondo lago sarebbe stato meno turistico e avrebbe permesso di godersi di più la natura, ma è troppo lontano per poterlo includere nelle gite di un giorno. La guida – a parte la fissazione di scattarci decine di foto nei punti panoramici – parla un ottimo inglese perché ha vissuto negli Stati Uniti e viene a lungo interrogato su vari temi. Per quanto riguarda l’attualità, ci informa che hanno accolto molti russi e ucraini che scappano dalla guerra, “ma non quelli con la Z”. Rispondendo alla domanda di un norvegese che era nel tour, aggiunge: “Naturalmente siamo dalla parte degli ucraini, perché anche noi vorremmo tanto liberarci dal controllo russo, ma per il momento la vedo difficile, visti i rapporti commerciali e il lunghissimo confine”. Infatti nessun altro paese condivide un confine così lungo con la Russia (quasi 7000 chilometri), e inoltre in nessun altro paese centroasiatico vivono così tanti russi. Mi vengono in mente le parole di Azamat Junisbai, professore di sociologia in un college californiano, ma di origine kazaka, che ha scritto che essere vicini della Russia è come trovarsi in una stanza con un pazzo che ha una pistola in mano: “You try to make yourself as inconspicuous as possible and hope he doesn’t notice you”. Devi fare il possibile per non farti notare.
L’ultima tappa è il Charyn canyon, splendidamente colorato di arancione al tramonto. Quando il sole scompare sono appena le sette e mezza, ben due ore in meno rispetto ad Aktau (da dove ho cominciato il viaggio), situata nell’estremo occidente del Paese che ora, dopo due settimane, mi appresto a lasciare (stanotte ho un volo per Baku). "Questa idea di un unico fuso orario per un Paese grande come il nostro è una vera stronzata!" eccepisce la guida.
Concluderò con le parole – oserei dire: definitive – del suddetto prof. Junisbai, che sintetizzano in maniera eccellente una serie di insegnamenti e di riflessioni che mi hanno accompagnato nelle due settimane in cui attraversavo il Kazakistan meridionale: "Per i kazaki, il lungo dominio coloniale della Russia ha prodotto una lista di orrori difficile da eguagliare. Una carestia provocata dall'uomo che ha ucciso circa il 40% della popolazione. Una distruzione totale dell'intellighenzia. E 456 (!) test nucleari.
Il programma scolastico sovietico ci ha insegnato che il colonialismo era perpetrato solo da malvagie potenze europee su persone in terre lontane; e che il mio paese, l'URSS, che copre 1/6 della superficie terrestre, era invece un amico leale dei popoli colonizzati.
La propaganda che ha reso invisibili al mondo esterno sia la brutale colonizzazione sia gli stessi colonizzati, è forse il maggior successo della Russia. Questa invisibilità fornisce ancora oggi copertura alle atrocità russe e deve essere interrotta..."
Gallerie fotografiche
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Shymkent e Turkestan:
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