- Categoria: Racconti in Medio Oriente
IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE
Nella favola dello Yemen
Quando ho deciso di visitare lo Yemen, nel'autunno del 2005, prima mi sono informata sulla situazione sicurezza. I rapimenti di turisti (tipica usanza di quello Stato mediorientale) non si verificavano ormai da qualche anno, così ho prenotato un tour che sarebbe durato circa un paio di settimane durante le vacanze natalizie. Purtroppo poco prima di partire è giunta notizia del rapimento di due visitatori di nazionalità austriaca. Non ho dato molto peso alla cosa: ormai avevo deciso e non volevo tornare indietro. Faccio questa premessa per dire che non dovevo sorprendermi se 5 persone partite come me per lo Yemen, lo stesso giorno e con lo stesso tour, invece di godersi un viaggio meraviglioso in una terra da sogno, sono state tenute in un luogo misterioso sotto la minaccia del kalashnikov per quasi tutta la durata del nostro viaggio.
Arabia Felix
La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni.
("Le mille e una notte")
Tutti i libri di storia raccontano che la parte meridionale della penisola arabica, culla della religione islamica, già ai tempi dei Romani era denominata Arabia Felix perché l'abbondante acqua, il clima salubre e i porti del Mar Rosso e del Golfo Persico avevano permesso il sorgere di ricche città. I popoli che vi abitavano producevano beni tra i più rari e preziosi come la mirra, l'incenso, il pepe, le perle, l'avorio, e già nell'Ottavo secolo avanti Cristo avevano creato città e stati. La sedentarietà permise loro di sviluppare l'architettura e l'idraulica, al contrario dei beduini che abitavano la parte settentrionale e desertica della penisola, i quali rimasero nomadi a lungo.
Gli yemeniti odierni sono proprio un popolo singolare, composto da uomini con il pareo (o al massimo con la camicia da notte), un pugnale legato in vita e una guancia smisurata, e donne di cui si vedono — a volte — solo gli occhi, ritagliati in un panno nero. Gli yemeniti sorridono e stanno. Stanno accucciati e masticano il qat. Guidano e masticano il qat. Fumano e masticano il qat. Bevono il tè e masticano il qat. Dovunque vai essi stanno. Al sole. Coi denti storti sorridono. E introducono continuamente foglioline nella guancia deformata. Stanno dal barbiere e tu li guardi dalla strada e a un certo punto il barbiere si gira e sorride. E anche lui ha la guancia gigantesca. Stanno seduti per terra e mangiano con le mani intingendo il pane in una misteriosa ciotolina.
Se fanno i dentisti espongono una gigantesca insegna a forma di dente. Se commerciano alle volte se ne stanno rattrappiti dentro dei bugigattoli minuscoli insieme alla loro merce e alla loro guancia. Se fanno gli artigiani li vedi lavorare nello stesso angusto scatolone dove vendono i loro prodotti. Se stanno a stare, a volte hanno un mitra a tracolla. Alcuni ballano danze monotone accompagnate da cadenzate percussioni, agitando il pugnale nella mano. Se è venerdì disertano le strade e seguono il muezzin la cui voce riecheggia per le strade. Quelli che preparano il pane prendono una palla di acqua e farina, la schiacciano a forma di pizza, la bucherellano con la forchetta e poi la appiccicano sulle pareti di un pozzo di pietra rovente.
Gli yemeniti spesso mangiano la polvere. Fanno incidenti e, raramente, precipitano nelle scarpate. Se il radiatore si surriscalda lo ricoprono con una pelliccia sintetica inzuppata di acqua. Amano l'Italia e non sopportano gli Stati Uniti. Se ti accompagnano in spiaggia giocano con la sabbia e si schizzano a vicenda, ridendo. I bimbi ti baciano e ti chiedono una penna. Le femminucce ti sistemano meglio il foulard intorno al viso e ti dicono 'jamila' così dai loro una caramella. Le donne ti sorridono sotto il velo nero se lo indossi anche tu (non si capisce bene se anche loro hanno la guancia ipertrofica).
Gli yemeniti vivono in un paese pieno di luce e ombre ben definite, che disegnano figure geometriche sui pavimenti di pietra bianca. Producono vetrate tutte colorate e bruciano incensi profumatissimi. E costruiscono le case ma poi si stancano e le lasciano a metà.
Di prima mattina, nella capitale Sana'a, si può verificare immediatamente la vivacità dei guidatori locali. Ci immergiamo nel caotico suq dalla porta Bab-El-Yemen, l'unica rimasta intatta, vicino alla quale un dromedario bendato aziona un rudimentale frantoio di olio di sesamo girandogli incessantemente intorno. Ed ecco qua gli straordinari palazzi a torre, i grattacieli di fango con decori di gesso, arabeschi, balconcini in legno, le facciate di biscotto con le finestre glassate, i minareti snelli e slanciati in gara di altezza.
Al mercato si affastellano pugnali, cinture dorate, spezie, stoffe, teorie di abiti neri, sciarpe, monili d'ambra, incensiere, frutta secca, dolci, pane, spiedini di carne speziata, tè. Tutto profuma di esotico, i venditori non sono insistenti, di turisti quasi non se ne vedono. Acquisto un niqab nero che mi copra la testa lasciando vedere solo gli occhi, alla maniera locale. Sfortunatamente il maglione di lana che indosso, in un momento di distrazione mi scopre mezzo centimetro di pancia e vengo severamente redarguita da una donna senza volto. Mi allontano contrita.
A pochi chilometri da Sana'a c'è il magnifico Dar Al-Hajar, il palazzo costruito sulla roccia la cui immagine campeggia sulle bottiglie di acqua Shamlan e sui francobolli. L'ex residenza estiva degli Imam è un capolavoro di merletti di stucco bianco e vetrate che proiettano i loro colori sui pavimenti; dalle terrazze si gode un ampio panorama sugli altopiani circostanti. Sembra di stare in un sogno.
MA'RIB, PER VEDERE L'EFFETTO CHE FA
Ma'rib è la città più antica dello Yemen, collocata sull'antica via dell'incenso e capitale dell'impero della leggendaria regina di Saba, più di 1000 anni prima della nascita di Cristo. La regione è stata lussureggiante per molti secoli grazie alla grande diga, ma dopo il suo crollo è cominciato il declino di tutta l'area, che è tornata ad essere arida e desertica come la vediamo oggi.
Per raggiungere Ma'rib, situata a più di 200 km a est di Sana'a, è obbligatorio chiedere un permesso e farsi accompagnare da una scorta armata, a causa delle tensioni tra le tribù della zona. Bisogna dunque incolonnarsi con le altre jeep piene di turisti fino a formare un serpentone: la testa e la coda sono occupate da camionette cariche di soldati armati fino ai denti. Le operazioni preparatorie, effettivamente, non sono delle più rassicuranti. E comunque, a quanto pare, il serpente è troppo lungo e slabbrato per permettere alle camionette di controllare realmente tutte le jeep.
Nonostante i timori, giungiamo sani e salvi a destinazione. E con noi anche questi tre motociclisti italiani, ma il loro viaggio è stato più pericoloso: uno di loro è stato circondato e per un pelo non è stato rapito da alcuni minacciosi indigeni. Le cose sono di nuovo cambiate, evidentemente. Ma me ne dimentico non appena faccio amicizia con un bellissimo militare baffuto e protettivo che mi sorride e mi offre la coca cola e l'ingresso gratuito al tempio della luna (con le cinque colonne e mezza) e a quello dedicato al dio sole, risalente al periodo sabeo. Giungiamo al tramonto alla vecchia Ma'rib, tutto uno splendore di case dorate di sabbia e paglia, diroccate e parzialmente distrutte dai bombardamenti più di quarant'anni fa.
In questo pomeriggio di luce intensa e cappotti verdi dell'Armata Rossa, in cui si sparge la voce di una frana nelle vicinanze che ha provocato alcuni morti, io mastico il qat. E lo mastico per alcune ore così come fanno loro, per vedere l'effetto che fa. Ma poi, sarà la stanchezza o la bellezza o l'eccitazione, non riesco a capire l'effetto che fa. Raccontano i consumatori che esso aumenta concentrazione ed attenzione e tiene svegli, un po' come il caffè. Il consumo di qat è severamente vietato in tutti gli altri paesi arabi mentre qui è masticato (o meglio, lasciato macerare nella guancia) dalla maggior parte della popolazione maschile e da numerose donne. A seconda della qualità ogni masticatore spende dai 500 a più di 1500 riyal al giorno (da 2 a 7 euro) procurandosi seri danni all'intestino e deformandosi le guance.
Facciamo ritorno a Sana'a e alla cena al neon dal somalo (riso e pollo e tè al latte). Il quartiere semi buio alle 11 di sera è tutto un lavorio di barbieri che tagliano e sbarbano. Il sogno prosegue.
IL NIDO DELLE AQUILE
Lasciamo la capitale diretti a nord, verso paesaggi spettacolari e cittadelle arroccate a grandi altitudini, abitate da tribù bellicose. Sono luoghi dove persistono antiche tradizioni e dove molti uomini ostentano pistole e fucili, facili da reperire anche nei negozi visto che le ultime guerre civili sono piuttosto recenti. Facciamo conoscenza con gli autisti, che ci accompagneranno col sorriso fino al termine del viaggio, al volante di Land Cruiser malandate e sempre sul punto di esalare l'ultimo respiro.
Dopo una sosta ad Amran, con le sue case di paglia e sabbia e un vivace mercato pieno di arance e tessuti, ci dirigiamo a Shaharah, una cittadina arroccata su un cucuzzolo a più di 2500 metri, famosa per la valorosa resistenza contro gli ottomani, che non riuscirono mai ad espugnarla. Per raggiungere il "nido delle aquile", località controllata da una potente famiglia della zona, bisogna abbandonare gli autisti e salire su un pick up che ci impiega due ore per percorrere 12 chilometri, tutti buche e saltelli. Dobbiamo reggerci molto forte, dunque non facciamo molto caso al kalashnikov che chi ci accompagna porta in braccio, ma sorridiamo agli ospiti occasionali che salgono sul cassone.
Il panorama al tramonto è indescrivibilmente affascinante, così come l'inconcepibile stellata, che ci godiamo dalla terrazza del funduk Francesca, la proprietaria senza volto della struttura. Nell'attesa della cena mi spaparanzo insieme ai masticatori locali con qat, tè e sigarette, quindi ci sistemiamo per la notte in due stanzoni muniti di materassini e sacchi a pelo. La notte è irrequieta, ma viene interrotta presto dalle voci metalliche di alcuni muezzin non sincronizzati.
L'alba regala uno spettacolo sorprendente dalla terrazza e alle 6 siamo già pronti per scendere a piedi attraversando un ponte secolare, minuscolo se comparato allo sterminato scenario, sospeso su una profondissima gola. Ci circondano infiniti terrazzamenti per la coltivazione del qat, una delle fonti principali dell'economia locale; le torrette di pietra che si scorgono qua e là ospitano nottetempo i guardiani delle coltivazioni. Terminato il trekking siamo accolti da milioni di bambini che vogliono le penne (kalam), le foto (sura), le caramelle (bonbon).
Il programma ora prevedeva di avanzare verso nord fino a Sa'dah, ma ci informano che l'ingresso ai turisti è interdetto per motivi di sicurezza. Nell'appressarsi del cenone di fine anno dunque facciamo rotta verso la cittadina fortificata di Thula, racchiusa nell'antica cinta muraria, dove subito ammiriamo un paesaggio mozzafiato di tetti al tramonto dalla terrazza dell'unico funduk, dove dormiremo. Qui guide e negozianti parlano italiano e possono essere piuttosto ossessivi. Visitiamo una delle 25 moschee presenti in città, la cisterna in cui tutto si specchia raddoppiando la bellezza e alcuni dei numerosissimi negozi di souvenir e oggetti antichi.
Si spera inutilmente di fare una doccia e poi si cena. Sono sbrigative le cene yemenite: mischi riso e pollo e verdure ed è fatta. Poiché gli alcolici sono vietati in tutto il Paese, era prevedibile che ci fosse un traffico clandestino di lattine di Heineken calda, vendute allo straordinario prezzo di 4 euro l'una. Per farla breve, l'ultimo dell'anno prevede danze tradizionali a lume di neon e altrettanto tradizionali panettoni e torrone e spumante appositamente portati dall'Italia. Queste feste per soli uomini sono un po' deprimenti.
Il primo dell'anno, tra le illazioni e le battute a doppio senso della popolazione locale, riusciamo a districarci alla volta dell'incantevole Hababa (grande cisterna dove la gente attinge l'acqua, un originale palazzo colorato, cammelli). Poi raggiungiamo l'abbarbicata cittadella di Kawkaban da cui intraprendiamo un trekking di un'oretta sulle pendici del monte omonimo scendendo alla volta di Shibam. Qui sostiamo per il pranzo in un funduk con diverse stanze, in una delle quali ci fanno accomodare a piedi nudi per terra, su tappeti cosparsi di avanzi di riso. Ormai non faccio più caso ai dettagli e mangio con le mani anche se ci danno le forchette.
NOTIZIA DI UN SEQUESTRO
Coi cannocchiali non si scorge però traccia di abitato, quindi fronte indietro e si va in cerca di Hodeida direttamente a nord. Finalmente alcuni minareti si innalzano all'orizzonte, e verso le due mettiamo le ancore davanti alla città, dalla quale però ancora ci separano parecchi chilometri di bassi fondi.
La città è grande e interessante per lo stile prettamente arabo dei suoi edificii e per la molteplicità dei costumi dei suoi abitanti, fra i quali sono maggiormente degni di rimarco i beduini dell'Yemen, bellissima gente artisticamente vestita d'un piccolo pantalone, una giacca aderente e un turbante in tela azzurra, adorni di bellissime armi riccamente lavorate in argento. Le donne portano una massa di monili al collo, alle braccia, alle mani, alle gambe, pure in argento lavorato a filigrana e misto a conterie o pezzi d'ambra. Al collo dei ragazzi collane che ricordano quelle delle Abissinesi, che certamente ebbero queste a modello.
(Pippo Vigoni, “Abissinia. Giornale di un viaggio” - 1881)
In serata, dentro ad un nebbione fantasy, giungiamo ad Al Hajjarah, costruita sull'orlo di un precipizio tra i monti Haraz. È andata via la luce in tutta la zona e il lume di candela non fa che rendere ancora più credibile la sensazione di essere dentro ad una favola. Il cielo, senza l'inquinamento luminoso, è pieno di stelle. Avviene durante il ballo, mentre piroettiamo e ridiamo come matti, mentre stiamo vivendo un'altra vita, come in un romanzo. Dalla lontana e banalissima Italia arrivano degli sms che ci dicono: SONO STATI RAPITI CINQUE ITALIANI. E in pratica ci chiedono se siamo noi. Non siamo noi. Noi stiamo ballando tra le stelle, circondati da uomini col pareo e la camicia e i pugnali giganti. Noi siamo liberi e felici. Il posto è stupendo. Fa abbastanza caldo.
Al mattino stendo il bucato sul terrazzo assolato e mi godo la compagnia degli autisti sfaccendati che bevono il tè. L'atmosfera è così pacifica che mi vien voglia di mandare a quel paese tutti i punti di riferimento della vita vera. Altri, sembrerebbe, sono stati rapiti. Dicono che sono italiani. Ma non siamo noi. Non sono io. Io sto chiedendo a questo yemenita che ciuccia il qat perché alcuni portano il pareo ricamato e altri il camicione. E lui, semplicemente, mi dice che il pareo è tipico del sud e il camicione del nord. Gli autisti sfaccendati, tra un sorso di tè e l'altro, mi parlano del jambiya, il pugnale a lama curva che tutti gli uomini indossano: il manico può essere di corno di rinoceronte, d'avorio, di pietre preziose, d'argento e può arrivare a costare moltissimo. Gli autisti, fumando sigarette e bevendo il tè, affermano che la scuola è obbligatoria fino ai tredici anni, ma non ci vuole la loro consulenza per aver già capito che non tutti ci vanno.
E infine gli chiedo delle donne. L'autista yemenita, con la guancia piena di qat, rivela che nella provincia sono rintanate in casa a sbrigare le loro faccende, ma nelle grandi città lavorano e studiano all'università. Io in effetti ne ho viste ben poche in giro e tutte completamente velate. Dice lui che è una loro scelta, nessuno le obbliga a vestirsi così in pubblico. Io non tanto ci credo, però faccio finta di credergli e gli sorrido, senza velo.
Lungo le coste affacciate sul Mar Rosso il paesaggio diventa rigoglioso, quasi tropicale grazie al caldo e all'umidità. Una sosta in un misero villaggio ci dà l'impressione di essere già in Africa, con le capanne e i bambini con la pelle scura e tutti gli animali insieme. Dopo il rapimento la polizia ci scorta con la sirena.
Al Hudaydah è molto diversa da tutto: ampi viali, concessionarie d'auto, grandi alberghi, un moderno ospedale, negozi luccicanti. Bentornati a casa, alcune vie sembrano dirci. Ma non è vero. Il ristorante di pesce è frequentato da giovani in jeans e felpe, ma c'è la solita sala separata in cui le donne cenano dietro le tendine rosa da ginecologo e i camerieri devono servire la coca cola dall'alto. Il pesce è ottimo ma ricoperto da una salsa piccantissima. L'odore del mare arriva sulla strada; quello è lo stesso di sempre.
È qui che capiamo tutto. Gli italiani rapiti sono medici e insegnanti veneti che si erano iscritti allo stesso viaggio a cui ci eravamo iscritti noi e che come noi percorrevano la strada per Ma'rib, in una delle jeep del serpentone scortato malamente. Solo che la percorrevano tre giorni dopo di noi. Tutto qui. Anche ora che abbiamo capito non so se abbiamo capito veramente. Ricapitoliamo. Siamo ad Al Hudaydah, l'odore del mare arriva fin qui. La coppia al tavolo con noi si era iscritta allo stesso viaggio della loro amica, l'insegnante rapita, ma poi erano finiti in due gruppi diversi. Noi e la coppia al nostro tavolo siamo passati di là tre giorni prima. E adesso stiamo mangiando a fatica il pesce ricoperto di salsa piccante, invece di stare in una stalla sotto la canna di un kalashnikov senza poter nemmeno fare la pipì se non chiediamo il permesso.
Noi, anche se siamo partiti con lo stesso aereo e per lo stesso viaggio dei cinque italiani rapiti, in questo momento non abbiamo paura di morire e quindi facciamo shopping e poi guardiamo la TV in hotel, prima di dormire. Il video dell'artista locale con la kefiah circondato da paccottiglia natalizia ci fa addormentare con il sorriso sulle labbra, mentre il ventilatore gira.
La mattina presto visitiamo il mercato del pesce: pescatori abbronzati e pescherecci dai colori squillanti, enormi cesti e cappelli di paglia giganti. Tra i banchi odorosi si svolge l'asta per aggiudicarsi i pezzi migliori e tutti sbraitano con i soldi in mano.
UN AMORE DI PLASTICA
Davanti a quello spaccio, Jean mi aveva dato un arancio e dopo io non sapevo dove gettare le bucce. Cercavo un bidone di immondizie, mentre per terra era un tappeto di spazzatura, cartacce, fango, bucce, putredine e scatolame. Ma io cercavo un luogo ufficiale dove deporre le mie ordures, sempre per civismo ebete. Una ragazzina mi ha fatto segno che potevo gettare le bucce per terra, poi s'è messa a ridere di gusto, osservandomi meglio come incantato citrullo. Jean dice che ho preso le manie degli inglesi. Giusto! Sono diventato ecologico e biodegradabile, qui faccio ridere anche i polli.
(Gianni Celati, “Avventure in Africa”)
Al mercato di Bayt Al Faqih (antico centro per il commercio del caffè) sono concentrate tutte le mosche, la polvere e la spazzatura dell'universo. Lo devo dire, a costo di ridimensionare la favola: lo Yemen è il Paese più sporco della Terra. La plastica abbandonata finirà per sommergere lo Yemen, se non si danno una regolata. Se non la smettono di buttare dal finestrino qualunque involucro senza pensare che oggigiorno non tutto è biodegradabile. Se non la fanno finita con questo benedetto qat che viene consumato da bustine di plastica nere o rosse o verdine che poi ricoprono ogni centimetro quadrato del Paese. Ciononostante, il mercato incanta come una novella medievale: personaggi da romanzi d'avventura si muovono tra meloni, datteri, pesce sfrigolante, cammelli, galline e polpette.
La prossima tappa è Zabid, dove fu inventata l'algebra. Qui Pasolini ha girato diverse scene del "Fiore delle mille e una notte", e lo scenario è bianco di calce, appannato di polvere, ombroso per ripararsi dalla calura. Zabid è una delle città più calde della Terra, ma per fortuna siamo in gennaio. Sostiamo in un palazzo privato dove le donne ci dipingono le mani con l'hennè e dove prendiamo il tè in una stanza di legno e cuscini e finestre colorate. Visitiamo un ossimorico museo senza luce, all'interno della cittadella del palazzo dell'Imam, dove la polvere mulina incessantemente. Pranziamo in uno di quei posti in cui pensi che vorresti essere solo e lasciato lì per molte ore all'ombra su questi letti di legno e vimini intrecciato, con un sorridente yemenita baffuto che ti porta il tè alle spezie.
Il tramonto lo ammiriamo in un villaggio sul mare nei pressi di Al Khawkhah, fatto apposta per riconciliare le coppie in crisi (informa la Lonely Planet). Le nostre crisi, se ci sono, non sono sentimentali, così affrontiamo con cuore leggero le palme, la spiaggia chiara e gli aironi che ci accolgono nella passeggiata spazzata dal vento potentissimo che a dicembre, inizio della stagione dei datteri, soffia ogni pomeriggio. Per la mattina dopo però possiamo essere sicuri che si sarà calmato.
E infatti diamo spettacolo sulla spiaggia: i nostri bikini sono l'attrazione della giornata per gli sfaccendati locali che stanno accucciati, guancia sulla mano e sguardo fisso. Anche gli "impiegati della dogana", che dovrebbero sorvegliare sull'arrivo di clandestini dalle vicine coste del Corno d'Africa, preferiscono lo show al lavoro. Le conchiglie sono giganti, ma è difficile riconoscerle dentro ai cumuli di spazzatura che ricoprono la spiaggia e il mare. È per questo che accogliamo con entusiasmo l'idea di un giro in barca con tutti gli autisti in mutandoni, con cui si ride tra tuffi e goffi tentativi di risalire a bordo.
IL TEMPO SI AVVOLGE SU SE STESSO
La strada è lunga per raggiungere Taiz, una città con un passato glorioso e antico e allo stesso tempo una di quelle che si è più ampliata negli ultimi anni. L'ultimo tratto di strada lo percorriamo al seguito di un'auto della polizia a sirene spiegate che ci fa superare tutto il traffico clacsonante. L'inquietudine cresce: ci attende una folla quasi aggressiva all'hotel e poi al suq rapinano due membri del gruppo di un cellulare e un portafogli e infine, a completare il quadro, c'è l'odioso cesso alla turca in camera.
Per fortuna il mercato è fornito ed economico e poi per cena il simpatico Zaccaria ci apparecchia con fogli di giornale freschi di bucato e ci serve innumerevoli ciotole di terracotta piene di zuppe e omelette a prezzi popolari. Sulla via del ritorno in hotel un poliziotto ci fa segno di affrettarci.
Lasciamo Taiz diretti a Sana'a: è l'ultimo viaggio della speranza, appena in tempo perché le Toyota cominciano a manifestare segni di cedimento (pneumatici bucati, radiatori agonizzanti e conseguenti traslochi e agglomerati umani nella stessa auto). Per spezzare il noioso tragitto passeggiamo nella splendida Jibla, regno della regina di Arwa, cittadina rimasta fascinosamente identica nel tempo (altro scenario pasoliniano). Un'altra moschea e fanciulli pieni di fiori gialli e già pronti per diventare protagonisti delle foto. Dopo il pranzo a Ibb in serata raggiungiamo la capitale dove — come se nulla fosse accaduto — recuperiamo la vecchia abitudine di cenare dal somalo con i suoi neon e le patate fritte.
E forse nulla è successo, il tempo si avvolge su sé stesso.
L'ultimo giorno prima della partenza, c'è aria di festa in Old Sana'a, ma non sono i saldi di gennaio: mancano pochi giorni all'Eid’ Al-Adha, la festa islamica che commemora la sottomissione di Abramo disposto a sacrificare il figlio Ismael. Mentre provo abiti lunghi total black e burqa giunge la notizia della liberazione degli ostaggi italiani, giusto in tempo per il volo di domani. Il suq all'improvviso sorride tra gioielli, frutta secca, lampade in gesso, narghilè, scialli, incenso e mirra.
Trascorro un paio d'ore sulla terrazza dell'Hotel Taj Talha con vista superba sui tetti di Sana'a, dove bevo un tè in compagnia di un documentarista austriaco che sta visitando il Paese in sella alla sua bicicletta.
Sul volo Yemenia, poco prima del decollo, una voce dall'altoparlante del velivolo scandisce due volte: "I cinque italiani reduci dal rapimento vengano in prima classe". All'arrivo a Fiumicino siamo accolti da tutte le televisioni, ma nessuno pare ansioso di conoscere la mia opinione. Non solo. Gli amici e i conoscenti mi hanno rimproverato per essere andata in un posto tanto pericoloso, l'opinione pubblica erano giorni che criticava la stupidità dei viaggiatori nello Yemen, famoso per i continui rapimenti (senza sapere che da anni erano praticamente cessati). E infine il Codacons ci ha chiesto di coprire le spese sostenute dal governo italiano per liberare i rapiti. E io che volevo soltanto festeggiare l'agognato traguardo del posto fisso.
Galleria fotografica
Libri e film
Eric Hansen, "In viaggio con Mohammed" (2002)
"Il fiore delle mille e una notte", film di Pier Paolo Pasolini (1974)
"Le Mura Di Sana'a", film di Pier Paolo Pasolini (1971)