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VADO AL MASSIMO, VADO IN MESSICO

Città del Messico-Chiapas in solitaria

Gli esseri umani non amano fare le cose da soli. Gli italiani, in particolare, sono un popolo che cerca compagnia persino per andare al cinema o al cesso, figuriamoci per i viaggi. Partire da soli sembra ai più una pratica da sfigati o, al massimo, un'esperienza incompleta. Non a caso, una buona parte dei “solo traveller” italiani che ho incontrato in giro per il mondo erano partiti con qualcuno e poi se ne erano liberati (magari momentaneamente), oppure stavano raggiungendo il classico amico che ha aperto un baretto a Playa del Carmen o che fa il baby pensionato in qualche posto fricchettone dell'India.
D'altra parte anche per me non sempre è stato facile liberarmi del condizionamento sociale: prima di partire infatti solitamente alcuni miei conoscenti si divertono a terrorizzarmi, elencandomi le sfighe più drammatiche che mi potrebbero capitare e dalle quali difficilmente mi salverò a causa della mia irrimediabile solitudine.

Città del Messico - Oaxaca - Chiapas - Puebla - Immagini - Piccolo Me - Yucatán 

TUTTA SOLA A MÉXICO, D.F.

Quando sono atterrata a Città del Messico ho raggiunto il centro storico in autobus. Alle dieci di sera sono lì che vago tra le vie buie e deserte alla ricerca dell'indirizzo dell'hotel prenotato: l'atmosfera è inquietante e anche i capannelli di poliziotti che chiacchierano negli angoli, invece di tranquillizzarmi, mi mettono ansia. L'accoglienza ricevuta alla reception da una donna scorbutica, protetta da una gabbia di ferro, non contribuisce affatto a rasserenarmi. Mi sono convinta solo il giorno dopo che non mi trovavo in una zona a rischio, tanto più che l'albergo è proprio accanto ad una stazione di polizia.

All'alba mi sveglio in preda ai morsi della fame, che metto a tacere con un pacco di biscotti ripieni provvidenzialmente in vendita al piano terra dell'hotel. L'unico suono che proviene dalle strade è la cantilena del venditore ambulante di gas, ripetuta all'infinito. Città del Messico si sveglia molto tempo dopo, quando ho già raggiunto l'immenso Zocalo (a quell'ora popolato solo da spazzini in divisa fluorescente e lustrascarpe) e visitato la cattedrale ancora vuota. Appreso che il Palacio nacional è chiuso al pubblico per non so bene quale tafferuglio e che il Museo de las Culturas apre solo alle dieci, mi calo nel budello della metropolitana per raggiungere la mia prima meta: Chapultepec. Riemergo in Paseo de la Reforma provata dai corpo a corpo che ho dovuto sostenere per entrare e uscire dai treni, e frastornata dalle caterve di ambulanti che recitano le loro litanie a turno, senza soluzione di continuità.
Dopo aver trascorso molte ore liete allo straordinario Museo di Antropologia, mi siedo sul prato a guardare lo spettacolo dei voladores, acrobati indios colorati che — legati ad una corda — volteggiano nell'aria intorno a un palo altissimo. Ci sono tante interpretazioni del significato di questa danza rituale indigena, ma le più accreditate la associano alla fertilità, rappresentata dalla discesa dei volatori che sembrano mimare la caduta della pioggia.

Di ritorno allo Zocalo stento a riconoscerlo: durante il giorno la piazza è affollatissima e il traffico nelle vie circostanti congestionato. Molti defeños sono in fila per usufruire della pista di pattinaggio o per entrare nel cubo e assistere allo spettacolo di luci e suoni, attrazioni che per tutto il periodo natalizio occupano una buona porzione della piazza. Lo show dei danzatori aztechi (o concheros), che ballano al ritmo di percussioni tradizionali, ornati di copricapi di piume e cavigliere di conchiglie, mi ricorda che un tempo qui c'era il centro cerimoniale di Tenochtitlán, la capitale dell'Impero “Mexica”. Dietro la cattedrale si possono ancora visitare le rovine del Templo Mayor, la grande piramide nonché tempio principale della città. I conquistadores di Cortés in realtà distrussero quasi tutto: già al museo dell'antropologia avevo osservato la gigantesca “piedra del sol” — miracolosamente ritrovata secoli dopo durante il restauro della cattedrale — e il modello in scala del Templo Mayor, dal quale si evince che in cima alla piramide sorgevano due tempietti: quello di Huitzilopochtli (dio della guerra e del sole) e quello di Tlaloc, dio della pioggia e della fertilità, ritenuto responsabile delle inondazioni e degli annegamenti e dunque molto temuto.
Tenochtitlán infatti era a quei tempi un'isola, situata al centro del lago Texcoco e collegata alla terraferma con ponti e calzadas. Fu proprio in seguito ad un'esondazione del lago che si avviò una straordinaria ricostruzione della città, durante la quale si provvide anche all'ampliamento del Templo Mayor — e in questa occasione furono sacrificati migliaia di uomini in onore del dio Tlaloc. Com'è noto, Tenochtitlán fu fondata su quest'isola perché qui apparve la leggendaria aquila di cui parlava la profezia: un complesso di statue che commemora l'evento è collocato su uno dei lati della piazza, mentre l'aquila, appollaiata sopra un cactus e con in bocca il serpente, campeggia tuttora al centro della bandiera messicana.

Alle sette ho appuntamento con Raul di fronte alla cattedrale. Nonostante l'opinione di certi miei conoscenti, viaggiare da soli non vuol dire infatti avere una vita sociale inesistente nel Paese che si è scelto di visitare. Mentre passeggiamo, mi racconta alcune curiosità di México, DeFe: ad esempio mi spiega che quella statua a forma di scheletro con indosso veste e velo di pizzo rappresenta la santa de la muerte, mentre quel santo che le sta di fronte in mezzo alla strada, vestito di verde, con una moneta sul petto e una fiamma in testa, è San Juda, il santo delle cause perse; entrambi sono molto popolari anche nel mondo dei delinquenti e narcotrafficanti, chiosa. A cena ormai mi sono rassegnata al fatto che sarebbe stato impossibile alimentarsi senza avere a che fare col mais.

La mestizia della Nochebuena
La pioggia…
Sono nata nella pioggia.
Sono cresciuta sotto la pioggia.
Una pioggia fitta, sottile... una pioggia di lacrime. Una pioggia continua nell’anima e nel corpo.
Sono nata con lo scroscio della pioggia battente.
(Pino Cacucci, “¡Viva la vida!”)

Di buon mattino raggiungo la stazione degli autobus e prendo una corriera diretta a Teotihuacan. I controlli di sicurezza sono minuziosi: sia prima dell'imbarco sia a bordo tutti i passeggeri vengono accuratamente perquisiti e poi ripresi da una videocamera.
Era questa la capitale di una delle civiltà più singolari della storia dell'umanità, densamente abitata da una comunità multietnica di zapotechi, mixtechi, maya e nahua. Nel suo periodo di apogeo (tra il secondo e il quinto secolo dopo Cristo) era una delle città più grandi del mondo. Furono loro – prendendo come modello le circostanti montagne – a inventare le piramidi a gradini, così sfruttate da aztechi e maya e così sfiancanti da salire per noi turisti. Anche qua si praticavano sacrifici umani e si adoravano celebri dei come il Serpente Piumato e il Dio della pioggia. Il declino a quanto pare cominciò proprio a causa della siccità, cosa che sembra impossibile a credersi il giorno della mia visita, visto che la pioggia non ha smesso per un istante di cadere, copiosa.
E anche se, a giudicare dai riti e dal pantheon religioso, gli indigeni ne sarebbero stati entusiasti, per me il diluvio non è molto piacevole: enormi pozzanghere maculano la calzada de los muertos, il viale principale su cui si affacciano tutti i maggiori monumenti di Teotihuacan, e dopo la massacrante scalata della piramide del sole (la seconda più alta di tutto il continente, dopo quella di Cholula) resto molto delusa dal panorama, semicancellato dalla nebbia. Se già normalmente è difficilissimo immaginarsi questi siti archeologici come dovevano apparire all'epoca, magari tutti colorati, con questo clima è proprio al di là delle mie capacità.

Tornata in città, il diluvio prosegue e fa freddo. Entro in un ristorante per asciugarmi vicino al fuoco adibito alla cottura del pastor, un cilindro rotante apparentemente identico al kebab ma fatto di carne di maiale (una contraddizione in termini). Sono a due passi dal Museo delle Belle arti, dove pregusto di ammirare finalmente i murales di Rivera. Be', la farò breve: tutti i musei di città del Messico il 24 dicembre sono chiusi.
Al colmo della delusione visito le poste centrali, cazzeggio qualche quarto d'ora tra la folla che percorre le vie del centro e poi mi rinchiudo in malinconica solitudine nella mia camera. Alla televisione scopro tutti i segreti della stella di Natale o poinsettia, questo fiore tipico natalizio che in realtà è un albero e in Messico (di dove è originario) si chiama Nochebuena, definizione che si riferisce anche alla sera della vigilia.
Grazie alla consulenza della receptionist, apprendo che durante la Nochebuena i defeños festeggiano in famiglia e praticamente tutti i ristoranti sono chiusi, ma per appurarlo personalmente mi devo avventurare sotto la pioggia nelle strade deserte (tranne i già noti capannelli di poliziotti, alcuni raggruppati nei cassoni delle camionette) fino ad approdare al ristorante Sanborns in calle Madero, l'unico aperto della zona (il cameriere poi mi ha detto che tutti i ristoranti sono chiusi perché nessuno ha voglia di lavorare, a Città del Messico). Una profonda tristezza mi prende al pensiero di stare seduta da sola a questo tavolo tra tanti, dopo aver fatto persino la fila per entrare, nell'unico ristorante aperto (seppur ubicato in un palazzo bellissimo) del centro di una città di venti milioni di abitanti, con quel clima davvero poco tropicale per i miei gusti.
Comincio a covare pensieri dissennati: forse il dio Tlaloc ha deciso di ricambiare la devozione e i sacrifici umani che per secoli i messicani gli avevano dedicato, e magari c'è anche lo zampino dei voladores, che sono stati un po' troppo alacri nelle loro acrobazie. Mi è venuto in mente allora Cortés: pure quella famosa “noche triste”, quando i Mexica riuscirono a mettere in fuga gli spagnoli, pioveva; e l'eroico conquistador si mise a piangere per la sconfitta, seduto insieme alla sua Malinche sotto a un'immensa ceiba. Vado a letto presto, sfiorata dal fugace dubbio che forse avevano ragione i miei conterranei a scegliere di viaggiare in compagnia.

Nostra Signora di Guadalupe
Che cosa bella gli orari! Gli orari sono fatti di un tempo speciale che non appartiene al Tempo con la maiuscola, appartiene a un tempo stretto, contabile, che entra nella pagina di un'agenda. Si fanno i calcoli: prendendo l'autobus delle quattro del mattino arrivo ad Oaxaca alle sette del pomeriggio. La cerimonia degli stregoni zapotechi sulle colline è alle ventuno, se l'autobus non ritarda ce la dovrei fare. Questo lunedì. Per martedì poi si vede.
(Antonio Tabucchi, “Viaggi e altri viaggi”)

Il giorno di Natale mi sveglio afflitta: ho sprecato una giornata di viaggio ed è di nuovo l'alba. Addento un'orrenda merendina che ho provvidenzialmente portato in camera e attendo il giorno. Quindi mi reco alla stazione degli autobus TAPO, determinata ad andarmene al più presto; purtroppo nel gran putiferio mi comunicano che la prima corriera disponibile diretta a Oaxaca sarebbe partita ben tre ore dopo.
Uscita all'aria aperta, per passare il tempo mi metto a chiacchierare con dei tassisti molto cordiali, seppur dotati di un umorismo piuttosto crasso, i quali mi propongono una gitarella per arrotondare il loro (magro, sostengono) stipendio. Per quanto la cifra richiesta non mi sembri bassissima, e nonostante nutra i miei dubbi che si tratti davvero di conducenti di un taxi turistico, alla fine, tra un frizzo e un lazzo, mi lascio convincere.
La meta prescelta è la basilica di Nostra Signora di Guadalupe. In effetti su quella piazza, situata un po' in altura, di chiese ce ne sono due: in quella nuova, riconoscibile dall'inconfondibile stile anni Settanta, è tuttora conservato il miracoloso mantello di Juan Diego, l'azteco convertito a cui comparve la vergine nel lontano 1531, proprio su questa collina. Su questo pezzo di stoffa, detto tilma, è impressa l'immagine della cosiddetta Virgen morenita (trattasi infatti di una fanciulla india dalla pelle scura): secondo la Chiesa cattolica è tuttora inspiegabile sia il modo in cui è stata realizzata l'immagine, sia il fatto che il tessuto sia giunto perfettamente integro fino a noi. I tassisti mi informano inoltre che nelle pupille della vergine appare l'immagine di Juan Diego che incontra il vescovo Juan de Zumárraga e che il mantello e il vetro che lo proteggeva rimasero intatti durante un attentato che danneggiò la basilica. Dopo quella mitica apparizione, il culto per la madonna di Guadalupe è cresciuto smisuratamente in tutto il Sudamerica; la sua festa cade il 12 dicembre ma anche il 25 dicembre la basilica è  gremita, infatti di lì a poco è iniziata la solenne messa, officiata da decine e decine di preti e chierichetti in un profluvio di mazzi di stelle di Natale.
È allora che capisco che il tour era solo una scusa per partecipare alla messa di Natale (visto che tutti e tre i tassisti sono devoti della vergine), oltre che per mettersi nel contempo qualche peso extra in tasca. Poi mi lasciano, pronti per raggiungere le famiglie a tavola e addentare il classico pavo natalizio.

México, D.F. reprise

Il Museo delle Belle Arti (ubicato in un magnifico palazzo di marmo bianco che risalta nell'ampia avenida Làzaro Càrdenas), in extremis, sono riuscita a visitarlo. L'ultimo giorno sono tornata apposta a Città del Messico con qualche ora in anticipo. Purtroppo è domenica, giorno in cui l'ingresso è gratuito, dunque una folla indescrivibile sciama tra gli interni in stile art decó in marmo nero, ottone e legno che virano nel kitsch, adatti alle manie di grandezza primonovecentesca del Presidente Porfirio Díaz. Un'ora tonda tonda la passo in fila al bagno delle signore, mentre nelle sale adibite alla mostra dedicata a “Octavio Paz y el arte” c'è così da sgomitare che non riesco a vedere nemmeno un'opera. Per fortuna i murales di Rivera, Orozco e Siqueiros sono così grandi che si riescono ad ammirare anche nella calca.

Oaxaca, uno stato a forma di pesce

"Sono stato a Oaxaca. Ricordi Oaxaca?"
"...Oaxaca?"
"...Oaxaca."
La parola era come un cuore che si schianta, era come un improvviso squillar di campane soffocate in una rapina di vento, le ultime sillabe di uno che muore di sete nel deserto.

(Malcolm Lowry, “Sotto il vulcano”)

La corriera per Oaxaca parte dopo i consueti, maniacali controlli di sicurezza; continuo a non capire se siano procedure abituali oppure sia accaduto qualcosa di grave. Lasciata la capitale, il paesaggio si dispiega in variegate combinazioni da cartolina e compaiono piante succulente e cactacee, verdi sentinelle ombreggiate a tratti da nuvoloni grigi e poi bianchissimi. Costeggiando la città di Puebla, mi rammarico di non poterla visitare ma non importa poi così tanto: procedo trionfalmente verso sud.

Arrivo in città al colmo dell'entusiasmo: è così caldo che mi tolgo tutti gli abiti invernali. Mi faccio portare subito in Calle de la Noche triste, dove si trova l'hostal che ho prenotato. Helene e Ivan si affacciano inaspettatamente alla reception mentre faccio il check-in: mi avevano detto che sarebbero partiti quel pomeriggio e invece hanno rimandato la partenza al giorno dopo. Insieme a loro, trascorro la serata in una scoppiettante compagnia multiculturale, nel cortile della casa di Daniel, al centro del quale spuntano un albero e un'amaca. C'è anche un gatto sul bancone di un bar in disuso, del vino rosso, una ricca insalata, una caffettiera da dodici tazze, una bottiglia di tequila e una chitarra che emette sonorità vagamente portoghesi. In definitiva, una noche tutt'altro che triste, che mi fa completamente dimenticare le paturnie del Defe.
Lo Stato dell'Oaxaca, come la Romania, ha la forma di un pesce. A nord c'è la fertile regione della Cañada, che ho attraversato in autobus, a sud le regioni costiere dove sorgono celebri destinazioni balnear-fricchettone come Puerto Escondido e Mazunte (sovraffollate durante le vacanze natalizie), a nord est le montagne e a oriente, in corrispondenza della coda, l'umida regione dell'Istmo, che avrei attraversato per andare in Chiapas.

Oaxaca De Juárez, il capoluogo, sorge alla confluenza delle valli centrali. Nonostante si trovi a sud del Tropico del Cancro (grossomodo sul diciassettesimo parallelo), l'altitudine superiore ai 1500 metri rende il suo clima non troppo afoso, gradevolissimo.
Per addentrarmi nella Valle di Tlacolula, opto subito per una gita organizzata (muy barata). Queste escursioni sono un'ottima possibilità per conoscere gente nuova ma allo stesso tempo sono un azzardo: non sai mai con chi dovrai trascorrere la giornata e i ritmi potrebbero essere troppo serrati, ma a quanto pare è l'unica maniera per raggiungere Hierve el Agua. Alle nove sono già in agenzia e vengo inserita in un gruppo abbastanza grande, da smistare in due auto. Sin da subito noto che avremmo avuto il tempo di fare tutto con molto agio, godendoci pienamente la giornata in un bel gruppo di persone affabili e felici, tra cui eleggo da subito due vice-genitori di Monterrey.
Imbocchiamo allegramente la Carretera 190 o Panamericana, porzione del sistema di strade che attraversa quasi tutto il continente, dall'Alaska al Cile. Il paesaggio è assolato e arido, punteggiato da fichi d'India, agavi, cereus e jacaranda. La prima tappa è El Tule, uno degli alberi più grandi del pianeta. Questo cipresso di Montezuma, oltre ad essere enorme (in confronto la chiesa che gli sta accanto sembra un modellino), è anche molto antico e – a giudicare dal casino di gente – molto visitato; tutte le guide indicano indefesse i diversi punti del suo tronco dove (con molta immaginazione) pare di vedere animali e oggetti scolpiti nel legno. Certo, la visita a El Gigante non mi scatena la stessa straordinaria ammirazione che produsse nel neurologo e scrittore britannico Oliver Sacks e, prima ancora, nel naturalista, esploratore e botanico tedesco Alexander von Humboldt, ma in ogni caso fa decisamente impressione pensare che “lui” era già là minimo da mille anni quando arrivarono gli spagnoli.

Subito dopo, attraverso una strada sterrata lunga e tortuosa, ci direzioniamo lentamente verso Hierve el Agua. Oltre al biglietto d'ingresso ufficiale, siamo obbligati a pagare un pedaggio agli abitanti dei villaggi di San Lorenzo Albarradas e San Isidro Roaguia: l'autista ci spiega che ciò accade perché lo stato dell'Oaxaca non investe i soldi sborsati dai turisti per migliorare le condizioni di vita degli abitanti della zona, che restano tuttora misere. In questa remota regione arida l'attrazione turistica consiste in due speroni di roccia che si innalzano sopra alla valle: grazie ai sedimenti lasciati dall'acqua ricca di minerali, si sono modellati nei secoli a forma di cascate, come prodigiose stalattiti. L'acqua sgorgata dalle sorgenti, prima di scivolare via, forma delle piscine naturali turchesi nelle quali molte persone stanno spensieratamente sguazzando, sperando nei promessi effetti curativi. Non vi fate ingannare dal nome: l'acqua non "hierve" ("bolle") veramente e dunque non è propriamente calda.
Il luogo è molto affascinante e il panorama suggestivo; dicono che anche dalla cascata più grande (che si vede in lontananza, raggiungibile tramite un sentiero) si goda una spettacolare vista, ma io non lo saprò mai perché i miei vice-genitori hanno pensato bene di offrirmi una birra. Comunque se mai ci tornerò lo spettacolo sarà ancora più bello perché il processo di deposito continua incessantemente e le cascate pietrificate diventeranno sempre più imponenti.

A questo punto ci aspetta Mitla, un sito archeologico zapoteco noto per i mosaici ancora ben conservati. Queste piccole pietre incastonate insieme compongono complessi disegni geometrici, che ricordarono a Oliver Sacks quelle allucinazioni che possono colpire gli uomini “durante gli stati di assideramento, di perdita dei sensi, d'intossicazione oppure di emicrania”. In occasione della sua visita a Mitla, il noto neurologo e divulgatore si chiese se queste cosiddette “costanti formali allucinatorie universali” (magari indotte dal consumo di funghi allucinogeni) potessero aver influenzato le forme d'arte geometriche di questa come di altre culture. Dell'antico centro religioso sopravvivono ancora due gruppi principali di edifici e altri piccoli resti sparsi, mentre una buona parte di ciò che è stato distrutto nel 1500 dagli spagnoli è stato usato per costruire l'adiacente chiesa di San Pablo.
E quindi tutti al ristorante a mangiare tortillas, enchiladas, tacos e affini, accompagnati da abbondante birra Negra Modelo, con una calma serafica, come se non fossero già le cinque di pomeriggio e non dovessimo visitare ancora i laboratori di tappeti di Teotitlán del Valle e la fabbrica di mezcal.
Stavolta sono io ad avere fretta, perché avevo prenotato un biglietto per lo spettacolo di Guelaguetza all'hotel Camino Real alle 9. Inutile dire che alle 10, dopo aver appreso le antichissime tecniche zapoteche per la tintura naturale dei tappeti fatti a mano (in particolare quella ottenuta dalla cocciniglia) e dopo aver seguito tutti i passaggi del tradizionale processo di produzione del mezcal (assaggiando persino un pezzo di agave putrefatto), stiamo beatamente bevendo il diciassettesimo cicchetto (a quel punto eravamo passati dal mezcal puro a quello aromatizzato alla frutta) e sgranocchiando cavallette fritte piccanti; e che allo spettacolo di balli tradizionali non ci sono mai andata, visto che siamo tornati verso le 11, abbastanza borrachos e con circa quattro ore di ritardo sulla tabella di marcia.

L'aria di Oaxaca
Dopo aver vagato per un paio d'anni, ha deciso di fermarsi a Oaxaca, chissà per quanto tempo ancora. E quando gli ho chiesto perché proprio in questa città, lui ha risposto semplicemente: «Ma l'hai respirata bene, l'aria?»
Ho intuito cosa volesse dire.
E poi ha fatto un gesto strano, come di abbracciare quell'aria sapendo di non aver bisogno di nient'altro, che non fossero le pietre delle stradine che portano al mercato, la nube di polvere che si leva al passaggio di una vecchia corriera rumorosa, la risata acuta di una donna che lo saluta da una bottega di formaggi, le note dell'orchestrina al centro della piazza, il cielo striato di rosso dietro le mura di Nuestra Señora de la Soledad...
 
(Pino Cacucci, “La polvere del Messico”)

Cos'è la felicità? Ad esempio, avere un'intera giornata da trascorrere a Oaxaca, senza nessuno a cui dover dare conto e senza alcun impegno o appuntamento. Passeggiando sulla calle Alcalá di prima mattina la luce purissima accende le facciate dipinte e gli edifici coloniali. L'andador turistico – lo dice la parola stessa – è fatto per me, perché io vada e lo percorra tutto, ma anche perché io mi fermi e per esempio entri nei negozi e nelle gallerie d'arte o nelle agenzie che organizzano escursioni, o addirittura nelle chiese e nei bar, a bere un caffè o una cioccolata.

Naturalmente, faccio subito il mio ingresso nel templo de Santo Domingo: esternamente lineare e solido, dalle spesse mura di pietra, ma dentro invaso da un sorprendente barocco dorato con migliaia di piccole statue. L'ex-convento, di cui la chiesa faceva parte, dopo il restauro è stato trasformato nel bellissimo museo de las culturas, che percorro accuratamente e con molta curiosità seguendo le tappe della storia dell'Oaxaca, ammirando dalle finestre l'antico giardino, oggi orto etnobotanico.

Quando esco dal museo, di fronte all'entrata principale della chiesa mi imbatto in una figura femminile ambigua: troppo giovane e colorata per essere una sposa, troppo vecchia per essere una bambina in età da prima comunione, troppo reale per essere una principessa delle favole, troppo fuori stagione per essere una maschera di carnevale. Non riuscendo a darmi pace, chiedo lumi a una passante, la quale mi svela che si tratta di una "quinceañera": qui è usanza che le ragazze festeggino i quindici anni in maniera molto coreografica, con tanto di messa seguita da un banchetto. Questa ragazza ad esempio sfoggia una pomposa gonna di tulle azzurra e uno scialle molto scintillante, un'elaborata pettinatura e il trucco pesante, mentre il bouquet è dello stesso colore della gonna e della cravatta indossata dai suoi "ciambellani" (ragazzotti impomatati in abito scuro che le camminano intorno in un fiero manipolo difensivo).

L'andador turistico a un certo punto sbuca sullo Zocalo, quadrato e circondato tutto intorno dai portici, sotto i quali sono presenti diversi caffè: all'inizio della giornata tutti siedono ai tavoli al sole, poi transumano all'ombra nelle ore centrali. Come accade sovente, è in atto una protesta. I dissidenti sono accampati nelle tende nel giardino centrale e decine di manifestini colorati attirano l'attenzione sul tragico fatto di cronaca avvenuto a settembre: quarantatré studenti sono scomparsi in un agguato nello stato di Guerrero. Su fogli colorati e sotto alle foto degli studenti le accuse stanno scritte a pennarello: “Ayotzinapa crimine di Stato”, “Sono una maestra e mi manca un gruppo di 43”, “Governo oppressore che uccide gli studenti”, “Basta bugie”. Oaxaca è una città combattiva e ribelle, che pretende justicia per questo come per altri crimini. Non molti anni fa, tra il 2006 e il 2007, ci furono manifestazioni e scioperi, seguiti da violenti scontri tra l'autoritario governo dello stato e le forze d'opposizione; gli insegnanti in lotta alla fine ottennero un aumento di stipendio ma a prezzo di feriti, arresti e persino dei morti. Anche se nel centro di Oaxaca è difficile notarlo, ancora oggi questo è uno degli Stati più poveri del Messico.

In un angolo della piazza è situato il museo del palacio, dove c'è un'esposizione interattiva molto interessante intitolata "Espacio de la Diversidad" e dove è possibile ammirare l'enorme murale di Arturo García Bustos che illustra gli episodi salienti della città, terra di origine del politico più amato dai messicani (Benito Juárez) e del più odiato (Porfirio Díaz). Anche il museo Rufino Tamayo è da non perdere, con le sue statuette preispaniche di una bellezza mozzafiato, stagliate su sfondi di colore intenso come i muri degli edifici, a farne risaltare meglio i dettagli, i sorrisi e i gesti, le collane e gli orecchini, le unghie e le costole, gli occhi e i denti. Però la cosa più bella da fare a Oaxaca è addentrarsi nei mercati e perdersi tra le piramidi di peperoncini di ogni varietà (chile mulato, huacle negro) e di cavallette (“35 años de experiencia de venta de chapulines”), di mole rojo e coloradito; tra le cataste di frutta e gli ordinati bicchieri di aguas frescas y nieves, tra le colorate piñatas (ripiene di dolci e caramelle, da rompere con un bastone, bendati), i vasi e le statuette di terracotta, i tappeti, i sombreri, le amache, gli oggetti di latta che imitano gli ex-voto, gli alebrijes (sculture variopinte che rappresentano creature fantastiche e animali immaginari).
Con tutti questi colori negli occhi lascio Oaxaca, di sera, a bordo di un autobus ADO, con il rimpianto di non aver visitato il sito di Monte Albán. Mentre prendo sonno sul sedile reclinato dell'autobus, penso che gli spagnoli — dopo meno di un anno da quella epica notte triste — riuscirono a conquistarla Tenochtitlan, la distrussero quasi del tutto ed è da lì che tutto cominciò: la noche buena, le cattedrali metropolitane, la Virgen de Guadalupe, San Juda, i Gesù crocifissi così afflitti, il morbillo e la scarlattina, la ruota, il metallo, i cavalli, e tutta quella mezcla che oggi, nonostante tutto, ci affascina tanto.
Ben coperta per combattere l'aria condizionata, mi faccio una indimenticabile dormita, mentre la strada scende verso la pianura, dove la notte dell'Istmo è calda e umida. Sto andando finalmente in Chiapas.

Oaxaca reprise

Al sito di Monte Albán poi ci sono andata: mi ci sono fermata apposta, sulla strada da San Cristobal a Puebla, accompagnata dalle suggestioni del racconto “Sotto il sole giaguaro”. Sono arrivata sull'altopiano quando il sito aveva appena aperto, cercando come Calvino di immaginare “il sangue caldo zampillante dai petti squarciati dalle lame di pietra dei sacerdoti”. Nella luce del primo mattino il panorama giallastro galleggiava nella nebbiolina e le ombre delle acacie erano ancora molto lunghe. A quell'ora i turisti erano pochissimi.

Chiapas: otro mundo es posible

È ancora buio quando l'autobus parcheggia nel terminal di Tuxtla Gutiérrez. Attendo l'alba bevendo un tè bollente e poi con un combi raggiungo Chiapa de Corzo, base di partenza per le gite nel Canyon Del Sumidero.
Nonostante l'orario, all'imbarcadero già c'è un imponente nugolo di turisti, muniti di giubbotto arancione e pronti a prendere posto sulle lance. Una volta sistemati tutti, si accendono i motori. L'imbarcazione si introduce nella gola per farci ammirare alcune bizzarrie della natura: una stalattite a forma di caballito de mar, una grotta striata di colori differenti, una formazione rocciosa che ricorda un albero di Natale. A debita distanza, vengono inoltre avvistati: un'iguana dorata tra il fogliame, delle scimmiette sui rami e alcuni coccodrilli nel fiume. Nei momenti di accelerazione si levano urla stridule assolutamente immotivate, quindi la barca fa inversione di fronte alla grande diga, ci fermiamo in un tratto pieno di spazzatura a comprare cibarie dalle barche a ciò adibite, ci godiamo pochi minuti di sole e poi torniamo indietro, questa volta a grande velocità, senza effettuare più soste.
Visto che quasi tutto il viaggio si svolge all'ombra, fa un freddo cane; è il mio destino compiere queste gite in barca sempre a un livello di gelo insopportabile, che poi resta la cosa che meglio mi ricordo, più delle balene nel San Lorenzo, più dei bei panorami architettonici baltici, più delle pareti scoscese dei canyon di ogni latitudine.

Amore a prima vista
«Sai, Camila, che cosa rischi fermandoti qui? Rischi d’innamorarti di questa città. Non è un luogo casuale, non è uno dei tanti nell’immensa geografia del nostro continente. È un posto ricco di conflitti, tradizioni, costumi. Sembra destinato a essere lo spazio da cui sfidare il mondo unico e globalizzato della vita postmoderna.»
(Marcela Serrano, “Quel che c'è nel mio cuore”)

San Cristóbal de las Casas è una di quelle città di cui ci si può innamorare a prima vista. Al mio arrivo, sembra che sia stata appena lavata e stesa ad asciugare. Gli edifici colorati (apparentemente pitturati di recente) risplendono al sole, le bandierine traforate di papel picado sventolano allegramente, il cielo si impone su tutto con il suo irresistibile “azzurro Messico”, la luce dei duemila metri ha qualcosa di magnetico che mi invita a restare. Entro trionfalmente nel ristorante che avrei poi frequentato ogni giorno, con le tovaglie di plastica a quadrettini bianchi e blu e un arioso patio. Qualunque cosa si ordini ha quell'ormai familiare sapore di mais, ma è buono e la birra fresca. Che bella la vita!

E poi eccomi a passeggio per le vie a scacchiera del centro con un sorriso beato rivolto a tutti quelli che passeggiano. Ecco la cattedrale giallo senape contro il fondale blu, l'albero di Natale altissimo lì di fronte e la pista di pattinaggio, così fuori luogo nel sole del primo pomeriggio. Ed eccomi al tramonto (troppo presto) dopo aver salito i gradini della iglesia de Guadalupe, a guardare tutta la città ai miei piedi.
Raggiunto lo Zocalo, mi siedo su una panchina in ferro battuto di fronte al neoclassico Palacio Municipal; ma poi, quando partono le prime note dell'orchestrina e il palazzo comincia a diventare di tutti i colori – dal rosso al bianco, dal verde al giallo –, le temperature precipitano e corro ad indossare qualcosa di molto pesante.

Dovunque vado mi piace trovare un posto in cui mi sento a casa, dove riposarmi, mangiare e bere. A San Cristóbal ho naturalmente eletto il café de la Revolucion a mia casa, dove trascorrere le serate ascoltando musica dal vivo. Qui ho conosciuto le due allegre ragazze argentine e la coppia di romani che si davano un sacco di arie; ho trascorso uno spumeggiante fine serata con un certo Juan, che era stato piantato dalla moglie ma ha continuato a bere tequila con me come se niente fosse; ho dato l'addio all'anno 2014 ascoltando un gruppo di musica cubana e a mezzanotte sono uscita ad accendere le stelle filanti nell'umido gelo della notte, insieme a tre giovanotti toscani e a due fanciulle berlinesi.
Nei miei giorni a San Cristóbal, molte ore ho passato su e giù per la Real de Guadalupe e per calle Madero, nei saliscendi delle strade variopinte, tra le coloratissime bancarelle. Ho girovagato a lungo nel mercato alimentare, dove molti quadri caravaggeschi si compongono sotto il tendone: uomini col sombrero, donne con le trecce e i bambini appesi al collo, tutti a vendere o comprare pannocchie, polli, pomodori, ananas, fagioli, avocado, nopales, tra barbieri, madonnine e una miriade di tacchini vivi. Ho visitato il templo de Santo Domingo e molte altre deliziose chiese coloniali rosse, gialle, bianche, azzurre, piene di statue di santi, nastri colorati e gesucristi in croce vestiti e infiocchettati. Ho salito la scalinata della chiesa di San Cristobalito dall'alto della quale si vede tutta la città, circondata dalle montagne della Sierra Madre. Insomma, non ci è voluto molto per capire come mai San Cristóbal è stata inserita nella lista mondiale delle “Città Magiche”.
Il primo gennaio mi sveglio con un gran mal di stomaco, probabilmente una reazione alle forti escursioni termiche. Alle 10 sono costretta a lasciare l'hotel con la prospettiva di dover riempire diverse ore fino al tardo pomeriggio, quando sarebbe partito il mio autobus. La città, colpita da una perturbazione, è diventata nuvolosa e fredda, gli allegri colori di San Cristóbal si sono spenti e le strade luccicano di pioggia. Anche qui, a causa delle festività di Capodanno, tutti i musei sono chiusi — e meno male che il giorno prima ero riuscita a visitare l'incantevole museo di Na Bolom. Non posso fare altro che far passare il tempo. Seduta a un tavolino davanti a un caldo de gallina bollente, guardo la gente e aspetto che i crampi cessino presto, ma questa volta non mi sento triste e non invidio affatto i miei connazionali che partono in gruppo; d'altra parte anche il ragazzo toscano con cui ho acceso le stelle filanti è in camera sua a vomitare.

I tzotzil del Chiapas
L’aria viziata, buia e imperscrutabile del tempio, quella enigmatica e stravagante messa in scena, l’aspra intensità che si sprigionava dai pianti associati alle preghiere e alle voci, la solennità con cui le indigene calpestavano il suolo sacro e l’immagine del gallo morto fra le mani del curandero presero il sopravvento sulla razionalità e dovetti scappare fuori di lì.
“In fin dei conti, il responsabile di tutto questo è la Chiesa cattolica” disse Luciano all’uscita, mentre osservavo la magnifica facciata del tempio, tutta bianca, con le modanature verdi e azzurre. “I preti hanno conquistato spiritualmente popoli che erano già sconfitti dal punto di vista spirituale, mi spiego? Hanno introdotto la nozione di soggetto, l’unico su cui può ricadere la colpa, un’idea che tra l’altro sta alla base del rapporto tra gli occidentali e la divinità.” Pensai alla colpa. 
(Marcela Serrano, “Quel che c'è nel mio cuore”)

Quante probabilità ci sono che tu possa incontrare, in un paese lontano migliaia di chilometri dall'Italia, qualcuno che conosci, almeno di vista? È un caso se nella chiesa di San Juan De Chamula, piena come un uovo, buia, sinistra e annebbiata dall'incenso, mi sia ritrovata gomito a gomito con Tiziano, abitante della stessa cittadina dove ho vissuto tre anni e partito insieme ad un mio ex collega che in quel momento si trovava, per la precisione, a Playa del Carmen, insieme alla moglie e alla suocera? Devo trovare una giustificazione nel fatto che a San Cristóbal de Las Casas c'erano molte altre persone che avrei potuto conoscere, visto che nel periodo natalizio il Chiapas è una meta molto gettonata? Devo pensare che io e Tiziano ci siamo rivolti la parola perché in qualche modo ci siamo riconosciuti?

Fatto sta che sono andata proprio a quell'ora nella chiesa sincretica di San Juan, quindi calpestando gli aghi di pino di cui il pavimento è ricoperto e cercando di evitare le centinaia di candele poggiate per terra, mi sono messa ad ascoltare lo stesso indigeno tzotzil ubriaco con cui sta parlando Tiziano e insieme abbiamo accettato un bicchiere di posh, l'acquavite locale che cura tutte le malattie. In quel momento già c'erano troppe cose che non quadravano: il pulviscolo nelle lame di luce che provenivano dalle finestre in alto, le girandole di neon con la musica, i sonori rutti al gusto di cocacola, le statue di santi con uno specchio al collo, la curandera che tirava il collo al gallo per guarire un bambino malato. E non ho avuto nemmeno il tempo di sorprendermi che il posh ha trasferito la realtà ai confini del sogno.
Fuori, sotto il sole, le gonne e i gilet di lana a ciuffi paiono fuori luogo e i cappelli con i nastri colorati indossati dai nuovi encargos fanno un po' ridere. La chiesa di San Juan si staglia bianca contro il cielo bluissimo, con i suoi bordi dipinti di verde e i bassorilievi a forma di fiori. 

All'ingresso del vicino villaggio di San Lorenzo Zinacantan, una bambina ci conduce nella sua casa-atelier dove sono in vendita tessuti e abiti; la mamma ci mostra come funziona il telaio a mano, poi accettiamo le tortillas cotte su una piastra e la birra Corona e infine lasciamo loro alcuni spiccioli.
Da lì ci spostiamo verso la chiesa: a quanto pare, pure a Zinacantan i riti religiosi sono una scusa per bere l'impossibile. Chi si è portato avanti col lavoro già dorme sulle panche, altri tracannano il posh (anche io e Tiziano abbiamo accettato un altro bicchierino), altri ancora ballano: qui indossano tutti la stessa camicia ricamata a fiori di colori sgargianti, mentre i pezzi grossi sono intabarrati in pesanti sai neri e in testa portano dei turbantini rossi. Nel frattempo hanno iniziato a suonare (tromba, trombone, percussioni), e sono arrivati altri turisti che si sono uniti alla festa.
Mentre i maschi se la spassano a modo loro, le donne (anch'esse con scialletti dello stesso identico allegro tessuto fiorato) siedono pazientemente fuori dalla chiesa accanto ai thermos e alle ceste piene del cibo che attende di essere mangiato, e i bambini e le bambine (vestiti con le stesse camicie e gli stessi scialletti) corrono e giocano per le strade. Quando lasciamo il villaggio, gli uomini si stanno divertendo un mondo a far scoppiare micidiali mortaretti.

Sotto il sole giaguaro
Discesi, risalii alla luce del sole-giaguaro, nel mare di linfa verde delle foglie. Il mondo vorticò, precipitavo sgozzato dal coltello del re-sacerdote giù dagli alti gradini sulla selva di turisti con le cineprese e gli usurpati sombreros a larghe tese, l’energia solare scorreva per reti fittissime di sangue e clorofilla, io vivevo e morivo in tutte le fibre di ciò che viene masticato e digerito e in tutte le fibre che s’appropriano del sole mangiando e digerendo.
(Italo Calvino, “Sotto il sole giaguaro”)

Alle cinque di mattina è ancora notte fonda mentre aspetto il minibus che mi avrebbe condotto a Palenque. Dopo pochi minuti, vengo raggiunta da Andrea, un ragazzo emiliano che come me avrebbe visitato il celebre sito archeologico maya. Arrivano altri giovani di varie nazionalità e partiamo incontro al giorno, scendendo dalle montagne verso l'umida pianura del Chiapas. La strada è tortuosa e tempestata di temibili topes, quei dossi che obbligano a rallentare così tanto che a volte ci costringono a procedere a passo d'uomo, facendoci alla fine impiegare quasi cinque ore per percorrere poco più di duecento chilometri. L'altra complicazione consiste nei bambini piazzati con una corda tesa da un lato all’altro della strada, che fermano le macchine cercando di vendere qualcosa o chiedendo l'elemosina. Man mano che procediamo, la giungla diventa sempre più fitta e il clima più umido e afoso.

Vicino all'entrata delle cascate di Agua Azul veniamo fermati ad un posto di blocco da alcune persone con il volto coperto da passamontagna o bandane: il loro volantino mi informa che dal 2011 il “mal governo” li ha spogliati della terra ("patrimonio dei nostri antenati") e ha realizzato, senza il consenso del "pueblo", questo sito turistico che attraversa il loro appezzamento demaniale di San Sebastian Bachalon. La nostra “integridad fisica” è fortunatamente garantita, aggiungono: possiamo visitare il centro tranquillamente. Dopo aver mostrato il dovuto "respeto" all'autonomia zapatista e a quella dei "pueblos indigenas" pagandogli un pedaggio, entriamo in questo luogo ameno. Si tratta di una serie di cascate bianche e spumose che cadono in un'acqua color turchese, il tutto avvolto dalla foresta tropicale e circondato da bancarelle di ogni genere. Ora, il posto è di grande bellezza ma, a parte che il cielo nuvoloso smorza di molto la magnificenza dello spettacolo, bisogna tener presente che durante le vacanze natalizie c'è tanta di quella gente che bisogna fare la fila non solo per camminare lungo i sentieri, ma anche per farsi i selfie nei punti più panoramici.
Gran parte della gente che stava ad Agua Azul poi ha fatto, come noi, un salto a Misol-Ha, una cascata sola ma alta più di trenta metri, che precipita dentro ad un lago rotondo. Camminando dietro la cascata grande si può entrare in una grotta buia e lì ammirarne da vicino un'altra più piccola, però in questo caso si perde più tempo e bisogna tornare al van di corsa, sgomitando tra la folla, per evitare che l'autista si incazzi.

L'ultima tappa è Palenque. Qua va detto che quei tirchi fricchettoni dei miei compagni di viaggio si sono rifiutati di dividere il prezzo di una guida con me e dunque ho dovuto cavarmela da sola. Per prima cosa la mia attenzione viene catturata dal tempio delle Iscrizioni, mausoleo del re Pakal il Grande, che governò per moltissimi anni durante il Seicento (l'epoca di maggior sviluppo di questa città). La storia più interessante relativa a Palenque riguarda proprio il sarcofago di Pakal, scoperto negli anni Cinquanta; in particolare è il bassorilievo istoriato sul coperchio (una lastra di cinque tonnellate) che ha creato scalpore. Il cartello presente nel sito dice che vi è rappresentato il re Pakal che emerge dalla terra nelle sembianze di una manifestazione del dio maya del mais; egli cresce, invecchia, muore e va nell'inframondo dove rinasce ciclicamente. Ma già poco dopo la sua scoperta, un'altra interpretazione, ben più affascinante, si fece strada, ossia che sulla lastra tombale fosse raffigurato Pakal dentro una specie di antica astronave, con le mani che manovrano dei comandi, un respiratore nel naso, e addirittura delle fiamme di un reattore a propulsione. Ovviamente ciò ha messo in fibrillazione tutta una serie di appassionati di fanta-archeologia e di paleoastronautica mondiali, i quali hanno trovato nel reperto la conferma della presenza di forme di vita extraterrestre sulla Terra. La visita della cripta è interdetta da più di dieci anni, ma una copia della controversa tomba è presente al Museo di Antropologia di Città del Messico insieme ai preziosi ornamenti. Anche nei bassorilievi presenti nei tre templi del Gruppo delle croci (che commemorano questa volta l'ascesa al trono del successore di Pakal) si riconosce facilmente l'albero della creazione, ossia la stessa immagine allegorica, scambiata per un'astronave dai fanta-archeologi, che sta sul sarcofago di Pakal.
In ogni caso, secondo le stime, meno del 10% della superficie totale che raggiunse la città è stata portata alla luce, e dunque la maggior parte degli edifici sono tuttora nascosti nella foresta, tra l'altro molto lussureggiante e piena di stupendi ficus, liane e rampicanti. Nonostante tutte le interessanti scoperte, alla fine della giornata non vedo l'ora di tornare alla limpidità, ai colori decisi e alla qualità dell'aria che si respira a San Cristóbal. E anche se mi aspettano altre cinque ore di topes, mi complimento con me stessa per aver cambiato i miei piani e non dover restare a dormire a Palenque.

PUEBLA L'EROICA

Il fatto di viaggiare da solo mi parve un vantaggio. Le nostre reazioni al mondo esterno subiscono l'influenza decisiva di chi ci sta vicino, e spesso moderiamo la nostra curiosità per adattarci alle aspettative altrui. Magari i nostri compagni di viaggio hanno una visione precisa di noi e impediscono così ad alcune parti di emergere. "Non ti avrei mai creduto un appassionato di ponti" potrebbe commentare qualcuno, intimidendoci, e il sentirci osservati da vicino potrebbe analogamente inibire la nostra osservazione degli altri, costringendoci a sintonizzarci sulle domande e i commenti di chi abbiamo accanto e ad apparire più normali di quanto la nostra curiosità non vorrebbe.
(Alain de Botton, “L'arte di viaggiare”)

Puebla l'ho inserita nel programma di viaggio all'ultimo momento ed è la mia ultima tappa prima del rientro a Città del Messico, da cui dista poco più di cento chilometri. La cosa bella di viaggiare da soli è che puoi cambiare i tuoi piani senza che nessuno ti faccia il muso per ore, anche se decidi di ripercorrere la stessa strada già compiuta e finanche di dormire un'altra notte in autobus: l'itinerario circolare via Palenque e Veracruz che avevo programmato inizialmente si è infatti trasformato in un tragitto lineare, ricalcato una seconda volta per consentirmi di visitare il sito di Monte Albàn e fare una sosta a Puebla.

Arrivata nel pomeriggio al Centro de Autobuses, mi inserisco in una fila lunga ma ben organizzata per prendere il taxi; il mio colorato ostello è in pieno centro, a due passi dallo Zocalo. Quando esco per una passeggiata esplorativa, la cattedrale e i leggiadri palazzi vicini si sono già illuminati, nella piazza principale la folla delle vacanze di Natale brulica sotto un cielo di stelle a neon oppure riempie ciarliera i caffè presenti uno accanto all'altro sotto i portici, mentre i bambini giocano con la neve artificiale in un piccolo parco giochi. Non sembra proprio una città di un milione e mezzo di abitanti, ma c'è piuttosto un'atmosfera da paesone. 

Al mattino mi metto in marcia, baldanzosa e piena di energia, per questa penultima giornata di Messico, guidata da una toponomastica estremamente funzionale: all'altezza dello Zocalo si incrociano le due direttrici principali (Calle 16 de Septiembre e Avenida Reforma); a partire da questo incrocio, le Calles o Avenidas parallele sono seguite da numeri pari o dispari a seconda della direzione, e si distinguono in Ponente e Oriente da una parte e in Sur o Norte dall'altra.
Il nome completo di questa metropoli è Heroica Puebla de Zaragoza, in ricordo del generale al comando dell'esercito che il 5 maggio 1862 respinse i 6000 francesi mandati da Napoleone III a invadere il Messico per imporre come imperatore Massimiliano d'Asburgo. Non importa che i francesi sconfitti erano in preda alla diarrea e che un anno dopo vinsero, tenendo la città fino al 1867: quella vittoria viene tuttora sontuosamente celebrata, soprattutto negli USA.
Una cinquantina di anni dopo, qui mosse i primi passi la rivoluzione contro Porfirio Díaz, che fa da sfondo alla storia narrata da Ángeles Mastretta nel romanzo Male d'amore (era questo il motivo principale per cui ci tenevo a visitare Puebla). Seguendo l'invito a prendere le armi lanciato da Francisco Madero (che aveva dichiarato nulle le elezioni dalle quali era uscito sconfitto), nel novembre del 1910 Aquiles Serdán, i suoi fratelli e i loro seguaci antirreeleccionistas stavano organizzando la rivolta contro l'odioso dittatore, quando nella casa di calle 6 Oriente giunse la milizia con un mandato di perquisizione; ingaggiarono dunque una battaglia all'ultimo sangue, al termine della quale morirono quasi tutti, compreso Aquiles (il quale si era nascosto per quattordici ore in un buco nel pavimento, ma fu poi tradito da un colpo di tosse). Oggi questa casa, che ancora mostra i fori dei proiettili, sia sul muro esterno sia in una delle stanze ancora arredate come all'epoca, è stata trasformata in un interessante Museo de la revoluciòn.

L'eroica città è stata inserita nel patrimonio UNESCO grazie agli stili architettonici dei mille edifici coloniali decorati con azulejos e delle decine e decine di chiese barocche che ricordano i bei tempi di quando questo era un importante centro del cattolicesimo conservatore. Girando per la città non si fa fatica a notare le imponenti testimonianze religiose: la cattedrale ha le torri più alte del Messico ed è raffigurata sulla banconota da 500 pesos, il templo de Santo Domingo contiene l'incredibile Capilla del Rosario, decorata con stucco dorato e sculture di pietra, nella iglesia di San Cristóbal c'è uno sconsolatissimo Cristo seduto con i capelli veri e la corona di spine, circondato da bellissimi azulejos. Molto belle anche la più periferica chiesa della ormai nota Virgen de Guadalupe, ricoperta di piastrelle colorate, la chiesa dell'Angelo Custode, vicina al jardin de Analco, e l'iglesia de la Compañía o del Espíritu Santo, dalla consistenza di meringa. Anche qui a Puebla c'è l'usanza dei listones, quei nastri colorati, in vendita nelle chiese stesse, sui quali si scrivono le richieste di miracoli; i colori sono diversi a seconda del tipo di petizione: ad esempio blu e rosa per i miracoli afferenti la salute, rosso per quelli relativi all'amore e all'amicizia eccetera.

Passeggiare per Puebla mi mette di buonumore, con quelle facciate variopinte o ricoperte di piastrelle e tutta quella messicanità esposta nelle botteghe e nelle bancarelle di artigianato. Nei negozi di magia bianca — mayoreo o menudeo (all'ingrosso e al dettaglio) — si vendono essenze, lozioni, amuleti, saponi, talismani e si offrono incantesimi e amarres de amor, che servono a far tornare a sé l'amore perduto. Le attività dei mariachi sono pubblicizzate a grandi lettere, scritte a mano sui muri degli edifici dai colori pastello che pullulano ad esempio in Avenida 12 Ponente. Visitando i mercati de artesanias si deduce che qui ferve la produzione di ceramiche: si tratta della Talavera, pregevole maiolica realizzata sin dall'antichità con l'argilla locale sui toni del blu.
E naturalmente anche qui, l'immagine onnipresente nei negozi è quella dello scheletro, che prende spunto dalla Calavera Catrina, il personaggio inventato circa un secolo fa dal disegnatore e caricaturista Jose Guadalupe Posada (un teschio vestito elegantemente con un grande cappello). La Calavera inizialmente non era catrina, bensì garbancera, venditrice di ceci: l'intento di Posada era infatti quello di criticare quei messicani poveri — venditori di ceci, appunto — che rinnegavano le loro origini indigene e fingevano di essere europei. Poi arrivò il solito Diego Rivera che gli diede l'aspetto e il nome che ha oggi, con la sua stola di piume, quando la raffigurò nel suo murale “Sueño de una tarde dominical en la Alameda Central”. La Catrina, impegnata in attività di ogni genere e accompagnata da scheletri maschi, oggi è il soggetto prediletto di disegni e tele, sculture di legno, cartapesta, maiolica, argilla eccetera.

La X di Mexico
C’era una sfida nell’aria, in quest’aria secca e fine dei duemila metri: l’antica sfida tra le civiltà d’America e di Spagna nell’arte d’incantare i sensi con seduzioni allucinanti, e dall’architettura questa sfida s’estendeva alla cucina, dove le due civiltà s’erano fuse, o forse dove quella dei vinti aveva trionfato, forte dei condimenti nati dal suo suolo. Attraverso bianche mani di novizie e mani brune di converse, la cucina della nuova civiltà ispano-india s’era fatta anch’essa campo di battaglia tra la ferinità aggressiva degli antichi dèi dell’altopiano e la sovrabbondanza sinuosa della religione barocca…
(Italo Calvino, “Sotto il sole giaguaro”)

A Puebla c'è un museo meraviglioso che si chiama Amparo, dedicato all'arte in tutte le sue forme. È situato in un bellissimo edificio di grande ricchezza storica, trasformato in uno spazio culturale muy contemporaneo, con una bella terrazza dotata di bar da cui si gode una stupefacente vista sulle torri e la cupola della cattedrale. Gran parte della sua collezione è dedicata all'arte preispanica e all'arte coloniale fino all'Ottocento, e inoltre offre un'ampia agenda di esposizioni temporanee.  
È qui che conosco l'opera dell'artista argentino Ramiro Chaves, che in questi giorni espone il suo lavoro sulla lettera X e in particolare sui modi in cui essa è stata usata nell'architettura messicana. All'epoca della conquista spagnola, infatti, si discuteva se il nome della colonia dovesse scriversi “Mexico” oppure “Mejico”. Scegliendo ufficialmente la prima versione, la X diventò un simbolo dell'incrocio culturale tra la tradizione preispanica e la nuova identità meticcia, un'icona della nascita del moderno stato messicano, ed è su questo che gli oggetti, i disegni e le foto proposte fanno riflettere. La sera stessa, mi chiedo se abbia analogo significato la gigantesca ics tutta di lucine rosse piazzata sull'ingresso del Teatro Principal in occasione delle feste natalizie.

Un altro campo in cui “le civiltà d’America e di Spagna” si incontrano e si sfidano per sedurre i sensi è, come dice Calvino, la cucina, il grande orgoglio di Puebla e dei suoi abitanti. La tradizione gastronomica poblana, che parte dagli ingredienti della sua terra ma ha fatto tesoro delle ricette nate nei conventi, va fiera del suo classico piatto di chiles en nogada (peperoni ripieni di picadillo e ricoperti di salsa alle noci e melograno) e soprattutto del mole poblano, una salsa cremosa — che accompagna di solito tacchino o pollo — a base di cacao, tre tipi di peperoncino, frutta secca e varie spezie. Oltre a diversi tipi di dolci e allo street food, essa propone, per i più ardimentosi, eccentriche specialità stagionali come le larve di formica saltate nel burro, i vermi dell'agave (gusanos) fritti in una salsa al peperoncino, il fungo del mais e le chapulines (cavallette essiccate). Purtroppo a causa del mio mal di stomaco mi sono alimentata esclusivamente di brodo di pollo e dunque non ho assaggiato assolutamente nulla di tutto questo ben di Dio.
Per l'ultima serata in Messico mi reco in una zona molto animata della città, il barrio del artista. Mentre mi avvicino all'unico tavolino libero di uno dei locali in cui suonano la trova, Ricardo, che sta cercando un posto dove sedersi con la sua amica, mi propone con un sorriso smagliante di condividerlo. Impossibile dire di no: Ricardo, così giovane da poter essere mio figlio, parla un ottimo inglese ed ha un carisma incredibile, che si rafforza quando sale sul palco per cantare una canzone (oltre a un fantastico sorriso ha anche una bella voce). Già da subito, approfittando della breve assenza della ragazza magra e timida con cui è uscito, mi  confessa che gli piace, ma ancora non si è dichiarato. E mentre lui canta, lei pure mi fa capire che non le dispiace, Ricardo. Mi raccontano che Tiziano Ferro era molto amato fino a che non ha detto in televisione che le donne messicane hanno i baffi, e questo ha fatto incazzare a morte molti suoi fan, e infatti (non so se è un caso) nessuna sua canzone viene proposta, mentre ad esempio Gianluca Grignani va alla grande. Poi mi salutano: abitano molto lontano dal centro e l'ultimo autobus sarebbe partito dopo poco. Io bevo l'ultima cervecita, a un prezzo che loro a malapena possono permettersi, augurandomi che il bruno Ricardo e la sua ragazza dalla pelle bianchissima si fidanzino presto.

La leggenda dei vulcani

Si abbandonò nella poltrona. L'Ixtaccihuati e il Popocatepetl, quest'immagine del matrimonio perfetto, spiccavano ora chiari e belli all'orizzonte sotto un cielo mattutino quasi puro. Altissime sopra il suo capo alcune nuvole bianche correvano perdutamente all'inseguimento di una pallida luna gibbosa. Bevi per tutta la mattina, gli dicevano, bevi per tutto il giorno. Questo è vivere!
(Malcolm Lowry, “Sotto il vulcano”)

Pochi minuti dopo aver lasciato Puebla, nel finestrino dell'autobus appaiono due maestose montagne: una delle quali, indiscutibilmente, un vulcano a punta. Sarà sicuramente il Popocatepetl, penso, la montaña humeante. E la conferma la ho dalla donna seduta accanto a me, la quale aggiunge che l'altro pure è un vulcano: l'Iztaccíhuatl, confidenzialmente chiamato la mujer dormida. Mi sorprendo moltissimo di non averli notati affatto nel viaggio di andata e questo mi conferma che ho fatto bene a ripercorrere la stessa strada.
Ho appreso in seguito la leggenda, secondo la quale Iztaccíhuatl era una principessa innamorata del guerriero Popocatepetl; questi compì grandi imprese per amore della fanciulla, la quale però purtroppo morì. Allora il suo corpo fu trasportato dal suo amato sopra un monte e gli dei la trasformarono in un vulcano attivo; anche il guerriero diventò un vulcano, per sempre di guardia alla principessa Iztaccíhuatl.
Ed eccomi a Città del Messico, nel tardo pomeriggio, sotto l'angelo dell'indipendenza, che spicca dorato, lucidissimo contro il cielo blu. Sono seduta su una panchina con Raul e sono stremata. Sto provando a descrivergli il mio viaggio in un misto di italiano, spagnolo e quel poco di inglese decente che ancora riesco a parlare. Gli racconto l'itinerario non più circolare ma lineare e il fatto che non ho più seguito il suo consiglio di andare a Tlacotalpàn. Gli parlo della pioggia a Teotihuacan e della tristezza della “Nochebuena”, della divertente gita intorno a Oaxaca, delle proteste e della polizia, del Canyon del Sumidero e dei colori di San Cristóbal, dell'incredibile incontro nella chiesa sincretica di San Juan e del caldo di Palenque, della luce perfetta di Monte Albàn, degli azulejos di Puebla e dei due vulcani.
E infine gli dico della lettera X e dell'incrocio delle “civiltà d’America e di Spagna” e lui mi sorride con quella bella faccia mestiza che si apre in un sorriso aperto mentre mi dice: «Me alegra mucho que hayas disfrutado de mi tierra».

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