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AFRICA IN POLVERE

Esplorando l'Etiopia del Nord

Bahar Dar - Gondar - Monti Simien - Aksum - Makallè - Lalibela - Addis Abeba - Immagini - Piccolo Me


L'irrequietudine diventa di me padrona, non sono più io che decido di partire, è una forza misteriosa che mi ci spinge, sono i due poli di forza elettrica che irresistibilmente si attraggono, il fascino dell'Africa, la forza misteriosa che mi domina.
(Pippo Vigoni, “Abissinia. Giornale di un viaggio” - 1881)

È notte fonda all'aeroporto di Addis Abeba. L'avifauna etiope ci dà il benvenuto da un grande poster. Due inservienti in divisa dormono beatamente sdraiati sulle sedie della sala d'aspetto.
All'ufficio di cambio trecento euro vengono lentamente trasformati in un malloppo maleodorante di Birr. Ancora non sapevo che quel gruzzolo puzzolente si sarebbe sì assottigliato, ma mai estinto, e che dieci giorni dopo, nello stesso aeroporto deserto alle 2 di notte, sarebbe stata un'impresa trasformarne la parte restante in euro, dollari, bounty, mars, calzini e marlboro lights.

IL PAZZO MONDO DELLA CHIESA ETIOPE

La chiesa è originale: la croce che sta sul tetto porta agli estremi delle sue braccia delle uova di struzzo; la circonda il cimitero racchiuso da una cinta: la costruzione circolare; sul davanti la porta d'entrata: il muro esterno alto circa due metri, e concentrico a questo un altro muro, lasciando così un anello di spazio, largo un paio di metri, pel pubblico. All'interno poi, ancora in muratura, un dado di forse quattro metri di lato, riservato ai preti: le pareti tutte dipinte come si può dipingere dove l'arte è meno ancora che bambina: sulla porta l'Angelo della Giustizia, ai due lati la Vergine, san Giorgio, ornati e putti.
(Pippo Vigoni, “Abissinia. Giornale di un viaggio” - 1881)

Un breve volo interno ci deposita a Bahar Dar, tappa iniziale dell'itinerario che attraverserà le regioni montuose degli Amara e del Tigrai, a nord dell'Etiopia. Fuori dal piccolo aeroscalo, di prima mattina fervono già i lavori in corso. Sono soprattutto le donne quelle che si fanno il culo, certi scriccioli minuscoli che sollevano pietre o maneggiano pesanti attrezzi in ferro.
Partiamo senza indugio per una gita sul lago Tana, il più vasto dell'Etiopia. Le acque del lago non sono azzurre come vuole dare a bere l'autore della Lonely Planet, bensì più tendenti al grigio; ma va detto per inciso che l'inglese Stuart, che ha curato la sezione "Etiopia settentrionale" della celebre guida, non è né spiritoso come vorrebbe, né accurato come converrebbe (anche se la lettura delle sue pagine ha creato vari momenti di ilarità). Sul lago il trasporto del legname è affidato a queste canoe di papiro che scivolano in fila; ai remi uomini con uno straccio in testa sollevano gocce che scintillano.

Sbarcati sulla penisola di Zege, sul lago Tana, con una passeggiata tra limoni, banani e piante di caffè raggiungiamo i tipici monasteri a pianta circolare con il tetto di paglia. Ci togliamo le scarpe per entrare, da due porte diverse a seconda del sesso, ma dentro ci ritroviamo sullo stesso tappeto rosso stinto e pulcioso. Attraverso le scene dipinte sulle pareti esterne e interne, entriamo nel lisergico mondo della chiesa ortodossa etiope (da non confondere con quella copta egiziana, sebbene siano in qualche modo imparentate).
Salta subito all'occhio l'onnipresenza di "Sainty Mary", che qui è oggetto di un culto senza pari. La leggenda cardine riguarda la fuga in Egitto, durante la quale la sacra famiglia pensò bene di effettuare una sosta ristoratrice in Etiopia. Visto che la tappa non era propriamente di strada (a occhio e croce aveva comportato una deviazione di alcune migliaia di chilometri), la Madonna si stancò molto, così Gesù decise di ricompensarla regalandole il feudo d’Etiopia, premiando allo stesso tempo il fantastico popolo abissino, che li aveva accolti con squisita ospitalità. Un altro personaggio ricorrente è il patrono San Giorgio, che conficcando la sua lancia nel corpo del drago vuole dimostrare l'avvenuta vittoria del cristianesimo. Per rendere comprensibile ai poveri etiopi analfabeti in cosa consisteva il vecchio paganesimo sconfitto, abbondano le immagini splatter di uomini infilzati, teste e arti tagliati, sacrifici umani. E se qualcuno ancora non lo avesse capito, le facce dei cattivi sono sempre di profilo, mentre quelle dei buoni hanno entrambi gli occhi visibili.

Dal Lago Tana nasce il Nilo Azzurro, che poi nei pressi di Khartoum si unirà a quello Bianco. Ci indicano il punto dove il lago finisce e comincia il fiume, ma sembra tutto lago. Qualche chilometro più avanti esso si getta da una parete dando vita alla fumante cascata di Tis Isat. Nonostante abbia perso gran parte della sua imponenza dopo la costruzione del vicino impianto idroelettrico, la fotografiamo da sopra, da sotto, da un lato e dall'altro. La cascata è circondata da un parco meraviglioso in cui passeggiare baciati dal sole che tramonta. Alcuni abitanti suonano il flauto o vendono scialli o cercano di offrirti i loro servigi in qualche altro modo; altri conducono asinelli recalcitranti sul ponte portoghese, trasportano taniche giganti o tornano da scuola indossando le divise.
La sera, mentre confronto la qualità delle birre Dashen e St. George, rivedo la prima giornata in Africa sul monitor: la cascata non è per niente fotogenica, "Sainty Mary" invece sta sempre benissimo.

GONDAR

Gondar, la vecchia capitale imperiale, è una tappa obbligatoria del circuito storico per le sue pittoresche rovine nell'area della cittadella reale, fondata dal re Fasilide nel 1600. Qui ammiriamo il castello merlato, le mura, il palazzo restaurato dagli italiani con stucco veneziano giallo, ma anche i cattivi restauri in cemento presenti nelle stalle, i puntelli antiestetici voluti dall'UNESCO e le jacaranda e poinsezie che impressionano gli abitanti dei climi temperati («Qui è tutto uguale, ma più grande!»).

Ci sono anche degli hotel come quello dove abbiamo alloggiato noi, che è stato costruito di recente grazie all'impiego degli abitanti dei villaggi, alcuni dei quali sono poi entrati nello staff (la direzione si scusa per iscritto se alcuni di loro sono ancora un po' grezzi). Il giardino è pieno di fiori, la terrazza riceve le visite di numerosi uccelli e anche gli arredi vogliono creare quell'atmosfera colonial-chic che poi viene immediatamente smontata da acqua calda inesistente, porte che non si chiudono, cuscini marchiati Servizi Ospedalieri Italiani.
Nelle vicinanze della città si trovano i bagni di Fasilide, che ogni anno vengono aperti ai fedeli in occasione della più importante festa ortodossa in Etiopia, il Timkat, che commemora il battesimo di Gesù Cristo nel Giordano. Anche se la vasca è vuota la fotografiamo lo stesso, invidiando però tantissimo quelli che la potranno fotografare, piena, durante le celebrazioni, quando l'acqua verrà benedetta, partirà la gara di gavettoni ortodossi e alla fine tutti si tufferanno in un enorme baccanale purificatorio (qualcuno avrà anche la fortuna di immortalare uno di quelli che ogni anno vengono stritolati dalla folla).

Presso la chiesa di Debre Berhan Selassie, sul soffitto della quale sono allineati un centinaio di angeli naif dalla faccia tonda e piatta, apprendiamo alcuni rudimenti della ritualità etiopica, come l'uso del grosso tamburo e del bastone; quest'ultimo ha molteplici usi, ad esempio serve da pratica stampella durante le messe, che possono essere molto lunghe (e non ci sono sedili), o ci si appoggiano le braccia quando è portato sulle spalle (centinaia di spaventapasseri in cammino).
Passeggiando nel centro di Gondar si potrebbe provare l'impressione di essere a Latina: l'architettura della città infatti deve molto al razionalismo portato dagli italiani alla fine degli anni Trenta. Nella piazza principale, di fronte al bar dei generali (oggi trasformato in grand hotel), si trova quello dei soldati, dove ci accomodiamo insieme a una undicenne che si mantiene agli studi vendendo chewing gum e fazzoletti (categorie merceologiche che, per qualche insondabile motivo, sono sempre accoppiate).

La cena resterà indimenticabile grazie alle quattro sorelle, tutte bellissime giovinette abbigliate secondo la tradizione, che gestiscono il ristorante omonimo. Dopo il ricco buffet, anche qui abbiamo modo di assistere alla cerimonia del caffè, che presenta una coreografia molto fotogenica: fili d'erba fresca sul pavimento, un tavolino basso pieno di tazzine di ceramica senza manico, un contenitore artigianale per l'incenso che brucia, dei granelli di caffè messi in padella a tostare; una esotica signorina che pesta a dovere il caffè e prepara il bricco fino all'ebollizione. E infine le sorelle, insieme a tutto il personale del ristorante, danno vita al balletto tipico: gli uomini suonano esotici strumenti, mentre le donne danzano facendo sobbalzare le tette e lanciando quegli urli più animaleschi che umani.
Mentre attraverso il giardino tropicale per andare in camera, medito sulla vita notturna di Gondar, sui noiosi postulanti e sui fagotti umani che dormono lungo i marciapiedi.

LE DOLOMITI IMPAZZITE

E le attuali condizioni di questo paese sono come visibili nell'astratta quiete della natura, nell'immoto riposo degli abitanti, negli aspetti usuali della vita di questi pastori, addossati ai tronchi dei sicomori, degli eucalipti, delle euforbie, come i Greci d'oggi alle colonne dei loro templi in rovina.
(Curzio Malaparte, "Le Dolomiti d'Etiopia", 1939)

Per raggiungere Debark, la base del parco dei monti Simien, impieghiamo una mezza mattinata di bus. Le immagini più ambite sono quelle del continuo movimento ai margini della strada: asini carichi di sacchi, uomini carichi di paglia, donne cariche di taniche d'acqua. Un vero peccato la pervasiva presenza dei poco esotici eucalipti che banalizza alquanto il quadretto.

Giunti a destinazione, riscontriamo che la via principale è in preda ai lavori in corso stradali, che qui come altrove sembrerebbero gestiti dai cinesi. Gli scavi ai lati della carreggiata sollevano molta polvere, i più fotografati dai gruppi fermi in attesa che il proprio tour leader compri i biglietti sono i bimbi di pochi anni al lavoro.
Per la visita al parco è d'obbligo essere accompagnati da scout in tenuta mimetica armati di kalashnikov e da una guida, che nel nostro caso è un ragazzo esile ed elegante come un uccello. La strada si inerpica in un trionfo campestre color paglia da macchiaioli, poco fotografabile a causa dei sobbalzi dell'autobus. Il prospettato trekking si àncora di fronte alle centinaia di babbuini gelada che si spulciano e alle decine di bambini dei villaggi che vendono poggia-pentola e cappelli realizzati con paglia e fili colorati (nella foto con i bimbi ho lo stesso sorriso regale di Angelina Jolie quando va in Africa per missioni umanitarie). Il paesaggio, ornato da erica, timo selvatico e cespugli di rosa abyssinica, è nondimeno grandioso. Quando sembra finalmente giunto il momento di camminare, scatta la pausa pranzo sul ciglio della scarpata (grossi avvoltoi planano dalle montagne).

«Mother father dead», si presentano i ragazzini fuori dall'hotel. Poi tirano fuori il quaderno di scuola. Dicono, sbattendo le ciglia: «Hai visto come sono bravo. La mia materia preferita è: Inglese». Dicono: «Dammi la penna». Tu non la hai. «Dammi i soldi». Fai la gnorri. «Allora dammi la maglietta».
Il pomeriggio a Debark il sole cala velocemente e le temperature scendono con altrettanta rapidità: cala sui lavori in corso, sui venditori di gomme da masticare e fazzoletti di carta, sulle case di lamiera e su quelle di mattoni, sui cavalli e sugli asini, sui peperoncini stesi ad asciugare, sulle macchine da cucire a pedale, sulle caffettiere; cala su tutti i camminatori che cominciano a rinsaccarsi in coperte e grandi scialli bianchi. Cala anche sulla scuola elementare, sulla prima A con la porta verde scrostata, sui banchi scassati che ospitano cinquanta-sessanta bambini al giorno, sulla lavagna piena di crepe, sul preside sorridente che ci mostra le strutture. Cala sul forcone e sull'orzo, cala sui contadini che mangiano l'injera seduti sulla paglia. Cala su di me che assaggio un boccone della loro cena.
Durante la notte gelida, mentre giunge l'eco di incessanti e monotoni canti rituali, cancello almeno duecento inutili foto di babbuini.

AFRICA IN POLVERE

Il Tigrai soltanto sembra insensibile a questo miracolo. [...] Ha sentito penetrargli nel fianco la punta aguzza del piccone italiano che, implacabile e monotono, lo martella dall'alba al tramonto, ma non se ne fa. Pensa che i picconi si smussano, che i muscoli s'afflosciano, che i nervi si logorano. Forse pensa che noi non si potrà nulla contro questa granitica maestà.
(Indro Montanelli, "XX Battaglione Eritreo", 1936)

Grande orgoglio di patria oggi: percorriamo la Strada degli italiani, scavata faticosamente nella montagna etiope dai nostri eroici antenati ai tempi dell'Africa Orientale Italiana. Il tragitto costeggia inizialmente le suggestive silhouette dei Simien, poi scende in picchiata per più di 1500 metri fino a raggiungere la valle del Tacazzè (che non è una parolaccia, ma un fiume) correndo parallela ai campi profughi eritrei (nel frattempo siamo entrati nella regione di confine del Tigrai).
Il bello di questa strada è che è interamente sterrata, priva di qualsiasi tipo di protezione e punteggiata da lavori in corso (a un certo punto la strada non c'è più: una montagna di terra ci sbarra la strada, prontamente liberata da una ruspa gialla). La temperatura frizzantina dei Simien diviene via via sempre più elevata man mano che si scende, fino a diventare afosa sulle rive del fiume: non a caso cominciano ad apparire i baobab su uno sfondo sempre più bianco di polvere e desolazione.
L'Africa scorre dietro i vetri. Se apriamo i finestrini, entrano chili di polvere. Se li teniamo chiusi, la polvere entra lo stesso e non serve a niente legarsi una sciarpa intorno alla faccia o addirittura mettersi una maschera sugli occhi: la polvere ricopre tutto. Apriamo un po' per farla uscire. Quando arriviamo a Shire, lo sterrato è terminato, i polmoni sono intasati, gli ammortizzatori irrimediabilmente compromessi.

IL REGNO DI AKSUM

Gli Abissinesi, non potendosi spiegare con quali mezzi siansi potuti innalzare pezzi così grandi e pesanti, ne attribuiscono il merito al diavolo che voleva costruire una gran torre per dare la scalata al cielo. Il nostro bravo Zaccaria, che fra i suoi è certo il più istrutto, non può credere a questo lavoro diabolico, ma non sa neppur immaginare che vi abbiano riuscito uomini come lui, e pretende che a quei tempi si sapesse sciogliere poi rimpastare il granito, e con questo sistema si costruissero gli obelischi a pezzo a pezzo. L'ingenuità è per lo meno ingegnosa.
(Pippo Vigoni, “Abissinia. Giornale di un viaggio” - 1881)

Aksum fu la capitale di un vasto e potente impero che nacque già prima di Cristo e durò probabilmente un millennio, ma è conosciuta in Italia soprattutto per la stele che Mussolini fece portare a Roma nel 1937 e che è rimasta davanti al palazzo della F.A.O. fino al 2005; dopo di allora è stata riportata in Etiopia (con colpevole ritardo) e oggi, dopo averne rincollato i pezzi, è stata rimessa in piedi e campeggia insieme alle sue compagne nel Parco delle stele. Ognuno degli obelischi (tranne quello che è caduto circa 1600 anni fa e giace in pezzi esattamente nello stesso posto) dovrebbe indicare che sottoterra ci sono delle tombe. In realtà, i soldi scarseggiano, le scelte vengono demandate all'Unesco e le visite dei ladri sono state frequenti, pertanto la percentuale di scavi effettuata è ridottissima e il sito archeologico è quasi totalmente virtuale. Il mistero avvolge quasi tutto: per esempio, ci si chiede come sono stati realizzati e poi spostati questi monoliti di granito di dimensioni tanto impressionanti. Se teniamo fede agli etiopi, dobbiamo prendere atto che i blocchi di pietra siano stati condotti qui e innalzati direttamente dalle forze celesti dell'Arca dell'Alleanza, o forse da Dio in persona (al massimo aiutato da alcuni elefanti).

Ad Aksum troviamo anche i bagni e i resti del palazzo della Regina di Saba, una figura biblica che gli etiopi chiamano Machedà. La cosa incredibile non è solo che questa donna probabilmente non è mai esistita, ma soprattutto che, secondo gli archeologi, i ruderi risalgono a circa un millennio e mezzo dopo la morte della presunta regina. Bisogna sapere che la regina di Saba è una figura centrale nella storia del Paese, perché dal rapporto occasionale che ebbe con Salomone (biblico re d'Israele del decimo secolo a. C.) nacque Menelik I, capostipite della dinastia imperiale (sorvoliamo sul fatto che questa incauta avventura di una notte sia avvenuta a migliaia di chilometri dall'Etiopia). In questo modo non solo si stabilisce una parentela tra Menelik e la madre di Gesù (entrambi discendono dal Re Davide), ma si spiega anche come mai la mitica Arca dell'Alleanza si trovi proprio in Etiopia.
Questa cassa di legno rivestita d'oro che contiene le Tavole della Legge (ossia i veri e propri dieci comandamenti scritti da Dio in persona e consegnati a Mosè sul monte Sinai) secondo gli etiopi fu regalata da Salomone a suo figlio Menelik, che la portò in Etiopia. Fu proprio Gesù a promettere l'arca a sua madre, all'epoca della loro gita in Etiopia, anche se nessuno è in grado di spiegare come mai questa promessa fu fatta circa un migliaio di anni dopo il regno di Salomone. Nonostante queste lievissime incongruenze, tutti sono fermamente convinti che il sacro tabernacolo si trovi oggi ad Aksum, nella chiesa di Maryam Sion; a guardia perenne viene designato un monaco che non può mai abbandonare la chiesa, se non alla sua morte. Al momento del decesso, viene nominato un fortunato successore, prescelto in quanto apparso in sogno non si è ben capito a chi. Ovviamente l'arca, quando nelle occasioni speciali viene condotta in processione per tutta la città, è coperta da un provvidenziale telo che impedisce ai fedeli di vederla.

Nella lunga passeggiata fino all'hotel Africa, veniamo avvicinati dai ragazzini e bambini di Aksum. «Salam». Salam. «Come ti chiami Quanti anni hai Di dove sei Che lavoro fai Quando sei arrivato Quando te ne vai». Rispondiamo diligentemente a tutte le domande. Una femmina annuncia: «Non ho la divisa per la scuola». Un maschio adolescente chiosa: «Education is the future of our country» (aggiunge altre frasi da anziano pedagogo). «Comunque la mia amica non ha la divisa per la scuola». OK. «Vai domani mattina in direzione e paga 350 Birr per la divisa». Comincio a pensare che se trovano uno che gli dà 15 euro ogni tanto, anche i bambini poveri impareranno a considerare la scuola una gran rottura di palle come i bambini ricchi.

Ciò che più mi ha deliziato ad Aksum è stato il mercato, un condensato di tutti i cliché esotici possibili: i sacchetti colorati pieni di spezie per terra, il sarto che lavora con la sua vetusta macchina da cucire a mobiletto, le bilance di mille anni fa, il cammello che sbadiglia, i cumuli di patate, cipolle, trecce d'aglio, canne da zucchero, pomodori, le taniche gialle, gli asini, i turbanti, gli ombrelli, i fazzoletti, gli scialli, i sacchi, il caos, la folla, i colori.
Non abbiamo molto tempo per rielaborare le informazioni perché dobbiamo ripartire: il viaggio indietro nel tempo deve proseguire (non a caso siamo nella culla dell'umanità). La strada passa da Adua, ma il driver non si ferma, forse per non farci ricordare una delle peggiori sconfitte dell'Italia nella storia, e prosegue per Yeha, che sembra un grido di giubilo, ma in realtà è il luogo dove è ancora in piedi il più antico edificio in terra d'Etiopia, risalente tipo al 700 a. C. e realizzato in stile sabeo (lo stesso degli edifici di Marib, nel vicino Yemen). Il tempio oggi è interamente ingabbiato da impalcature in ferro prodotte da un'impresa italiana, dunque poco fotogenico. Il villaggio e le attrazioni storiche si trovano in una valle circondata da bellissime montagne, tra cui quella a forma di leone.
Nel museo il monaco ci mostra le reliquie: libri che risalgono minimo a quattro secoli fa, se non addirittura più di otto. Il dubbio che se fossero realmente del 1200 sarebbero quanto meno sbriciolati viene a molti, ma facciamo finta di niente (vi ricordo che stiamo parlando dello stesso popolo che crede che Menelik I sia figlio di una regina inesistente e di un re strettamente imparentato con la Madonna che viveva a migliaia di chilometri di distanza dall'Etiopia).

I PITTORESCHI MONACI ETIOPI

L'Abissinia poi è il paese delle fiabe, e dove non si può mai sapere nulla di vero. Credo assolutamente che la verità vi sia ignota o proibita.
Qualunque cosa domandate al primo che vi capita fra piedi, mai questi vi risponderà: non so o dubito, ma sempre con tutta fermezza, e quello che non sa, inventa.
La mancanza di interesse a quanto si passa nella vita e l'ignoranza di qualunque strumento od osservazione che possa dar idea di misura e di tempo, fanno poi che i giudizii sono differentissimi e impossibile vi riesce avere informazioni, non precise, ma tali almeno da raccapezzarne qualche cosa. Domandate, per esempio, la distanza di un villaggio dove volete andare; chi ve la dirà di poche ore, chi di parecchie giornate, e tutta gente che ha percorso quel cammino o che abita quei dintorni. Ne abbiamo fatta esperienza nel nostro viaggio, che non una sola volta ci è riuscito di farci un giusto criterio di quello che si doveva fare l'indomani, o della durata di un dato tragitto.
(Pippo Vigoni, “Abissinia. Giornale di un viaggio” - 1881)

Il monastero di Debre Damo è costruito sopra ad una amba (una montagna dalla cima piatta) ed è riservato ai soli maschi; e quando parlo di maschi, mi riferisco anche agli animali, non sia mai che i monaci che ci vivono possano cadere in tentazione. Per salire bisogna imbracarsi con una pelle di capra legata a una corda robusta, issata da un monaco addetto all'accoglienza: questo è l'unico modo per scalare la parete. Se qualcuno si chiede come fece il fondatore del monastero − un predicatore del V secolo − a salirci per la prima volta, c'è una risposta come al solito logica e credibile: fu aiutato da un serpente mandato da Dio in persona. Per fortuna anche senza scalare si può godere la magnificenza della vallata: le montagne piatte sullo sfondo, le grandiose euforbie disseminate qua e là, il tutto dorato dalla luce pomeridiana.

Per andare alla scoperta delle chiese del Tigrai ci addentriamo in uno scenario da Far West. La prima tappa ci porta nel gruppo del Gheralta, di cui fanno parte le infrattatissime chiesette di Mariam Korkor e Daniel Korkor. Per raggiungerle bisogna affrontare un trekking lungo e abbastanza faticoso, ripagato da uno scenario tra i più belli dell'Etiopia. La salita è organizzata perfettamente da un nutrito gruppo di guide molto attente e sempre presenti nei momenti di maggiore difficoltà, che alla fine dell'incarico si guadagnano una lauta mancia più un prezioso regalino personale da parte dei trekker meno abili.
La chiesa successiva si chiama Abraha Atsbeha ed è molto più agevole da raggiungere: il bus può parcheggiare a pochi passi dall'ingresso. Qui però si presenta un altro ostacolo: il monaco ha perso le chiavi e solo dopo una lunga e infruttuosa ricerca si convince a tagliare il lucchetto con un taglierino. La chiesa è interamente scavata nella montagna e al suo interno si possono ammirare affreschi vecchi di alcuni secoli. Su uno dei muri inoltre ci sono delle fessure dalle quali ogni 4 di ottobre sgorga dell'acqua miracolosa: ne bastano poche gocce per rendere immediatamente gravide le donne che da anni non riescono ad avere figli (la guida può testimoniare direttamente perché è successo a una sua amica).

Per raggiungere la chiesa di Chirkos siamo accompagnati da un plotone di bambini che, sussurrandoci le dolci parole Faranji e Fuck you e mostrandoci la linguaccia (atteggiamenti che riterrei di meritare se avessero luogo soltanto nei confronti degli italiani, ma non credo), ci accompagnano all'ingresso. La chiesa è costituita da un unico pezzo di arenaria, unito alla montagna solo per uno dei quattro lati. Dentro, per quanto si può capire nell'assenza di luce, sia gli affreschi sia il monaco sembrano piuttosto decrepiti, ma riescono a comunicare ancora qualcosa (lui per esempio biascica qualche parola di italiano). Quando usciamo abbiamo la sorpresa di poter assistere a una messa, fatto piuttosto inusuale visto che di norma le funzioni hanno luogo all'alba.
Ora vorrei spendere qualche parola a proposito di queste chiese del Tigrai. Prima di tutto l'ingresso ad ogni chiesa costa circa sei euro e già questo vuol dire che un gruppo di 15 persone gli lascia a occhio e croce più di un terzo del PIL pro capite annuale dell'Etiopia. In merito ai monaci etiopi poi, quello che ho trovato poco ortodosso è stato l'eccesso di zelo nella richiesta della mancia, il fatto che se ne stessero interi quarti d'ora a contare e ricontare le banconote puzzolenti che gli avevi dato, e soprattutto la reazione poco cristiana se non gli davi niente, come ad esempio a Debre Damos che ti fanno lo scherzetto di non reggerti più tanto bene l'imbracatura e farti scivolare a terra.
Mentre bevo una birra Amber al bar dell'hotel, considero che questi monaci sono tutti personaggi pittoreschi oltre ogni dire che avrebbero fatto la gioia di Delacroix, con i loro visi pieni di rughe, le barbe, i turbanti e gli abiti dai colori vivaci tutti pieghe rilucenti al sole tropicale; però, quando cerco di fotografarli, loro si mettono apposta nel posto più buio della chiesa.

IL CAPODANNO CHE NON C'È

Finalmente Lalibela. Lalibela è una delle otto meraviglie del mondo e se non lo è, dovrebbe esserlo. Ma raggiungerla è un problema: nella stagione delle piogge non ci si arriva con nessun mezzo e anche in quella asciutta giungere qui è molto difficoltoso. 
(Ryszard Kapuscinski, "Ebano")

L'hotel di Makallè mi ha fatto una tenerezza incredibile. Lo sforzo che facevano per essere all'altezza era enorme, glielo dobbiamo riconoscere. E non è tutta colpa loro se l'acqua calda non sempre arriva o se in alcune camere non c'è proprio l'acqua. Al ristorante sono stati molto precisi: hanno chiesto le ordinazioni e poi sono ripassati altre due volte a chiedere conferma. Al bar se vedevano una donna fumare proprio non ce la facevano a non ridacchiare e a non darsi di gomito. Il manager si è sforzato di scambiare qualche parola con noi in inglese, ma poi abbiamo realizzato che mirava soltanto a conoscere i nostri indirizzi per accelerare molto utopistiche pratiche di emigrazione in Italia.

La scena madre però si è svolta la mattina quando era programmata una colazione alle 6. All'orario convenuto gli italiani erano fuori dal ristorante chiuso. Alle 6 e 15 si è presentato il primo cameriere ad aprire la porta (sui tavoli era rimasto tutto come lo avevamo lasciato la sera prima). Alle 6 e mezza l'autista, che aveva fretta di partire perché lo aspettavano 12 ore di guida, è entrato inferocito nella cucina e ha fatto una lavata di capo memorabile allo chef, il quale ha piegato la testa senza dire una parola. Solo mezz'ora dopo sono arrivati i caffè.
Lalibela è distante ore di macchina da qualsiasi altro luogo abitato e la strada per raggiungerla effettivamente è molto lunga. Con il passare delle ore l'altitudine cresce: i tetti di lamiera diventano più spioventi, i tucul sempre più numerosi, il freddo più pungente, il giallo più intenso, gli scenari più arditi. Anche qui, naturalmente, ad ogni sosta per sgranchirsi le gambe in pochi secondi si materializzano decine e decine di persone, soprattutto bambini e ragazzi. Spesso scendono correndo dalle scarpate, a volte chiedono qualcosa, a volte fanno le linguacce o gridano You You, il più delle volte stanno immobili e ci fissano. Noi, in genere, li fotografiamo; in alcuni casi sono curiosi di guardare l'immagine scattata, in altri no. A volte, se i miei compagni di viaggio gli danno qualche regalo, possono nascere delle risse tra loro. Adesso però i regali li hanno finiti.
Quando sono al buio in una camera dell'hotel di Lalibela, penso quanto sia stato assurdo tirare faticosamente fino alla mezzanotte per farci gli auguri di buon anno: in Italia sono ancora le 22, mentre in Etiopia sono le 6 di sera del 22 aprile del 2005 e mancano più di otto mesi al Capodanno.

LALIBELA, LA GERUSALEMME D'ETIOPIA

A un certo punto mi sentii afferrare per la mano. Pensai che Tadesse volesse chiedermi qualcosa. Mi stava trattenendo dal cadere in un precipizio. Guardai giù: ai miei piedi si ergeva una chiesa scavata nella roccia. [...] Gli amara, che erano (e tuttora sono) cristiani di rito orientale, costruirono le chiese all'interno della montagna in modo che i musulmani che invadevano queste terre non potessero vederle da lontano. Ma anche se le avessero viste non avrebbero potuto distruggerle né intaccarle, dato che esse sono parte integrante della montagna.
(Ryszard Kapuscinski, "Ebano")

Non è un caso se le chiese scavate nella roccia, che fanno di Lalibela il centro religioso più importante del Paese, furono realizzate proprio in questa località sperduta nel vasto altopiano. Fu infatti per la sua posizione, più facilmente difendibile dalle incursioni arabe, che l'imperatore Lalibela nel XIII secolo scelse come nuova sede imperiale il villaggio di Roha (come si chiamava prima). Lalibela era un omone alto tipo due metri, che da subito dimostrò di essere un predestinato: ancora neonato fu ricoperto da uno sciame di api, ma rimase miracolosamente illeso. Poiché questo episodio annunciava senza ombra di dubbio che sarebbe diventato re, il fratello maggiore, piuttosto geloso, decise di vendicarsi e lo avvelenò. Lalibela, invece di morire, cadde in preda alle allucinazioni, fu condotto temporaneamente in paradiso, e lì visualizzò delle meravigliose chiese rupestri. Non appena tornato sulla terra e salito al trono, contattò immediatamente delle squadre di angeli muratori molto efficienti, che scavarono nella roccia ben dodici chiese in una sola notte: ecco qui la Gerusalemme d'Etiopia.

La visita alle chiese rupestri di Lalibela presenta subito delle difficoltà per il turista-fotografo: egli deve infatti evitare di far entrare nell'inquadratura sia le orrende e pervasive coperture protettive installate dall'UNESCO (grosse tettoie mantenute da giganteschi pali d'acciaio), sia le relative ombre che la luce del sole stampa dappertutto.
Anche il turista non fotografo incontra degli ostacoli: i tappeti su cui camminerà dentro le chiese sono pieni di pulci ed è obbligato a togliersi le scarpe prima di entrare; inoltre durante la visita deve fare i conti con una folla lacera di centinaia e centinaia di pellegrini, accorsi da ogni dove e accampati in ogni angolo del villaggio. Il visitatore, mentre percorre il dedalo di gallerie, passaggi e cunicoli che collegano tra loro gli edifici, è circondato da fedeli che pregano, leggono, battono le mani, dipanano matasse, ridono; mentre attraversa le trincee per andare da una chiesa all'altra, sente un canto sommesso echeggiare tra la folla e ogni tanto gli acutissimi urli di esultanza (lo zagharid tipico dei Paesi arabi) lanciati dalle donne. Il visitatore non comprende tutto quello che vede e sente.

A Lalibela, il giorno di san Giorgio, il turista-fotografo rischia di scattare un migliaio di foto, di cui una buona parte alla chiesa di San Giorgio (che oltretutto è priva di coperture UNESCO). La Chiesa di San Giorgio è scavata nella roccia. Ma non è scavata in orizzontale; la chiesa di San Giorgio è una voragine nel terreno riempita di una chiesa con la pianta a forma di croce. Mentre il turista-fotografo si avvicina alla chiesa di San Giorgio vede una croce di pietra gigantesca, circondata da un buco: quella croce è la chiesa. Ma non è la chiesa che fa impazzire il turista-fotografo: è il buco, ripieno di centinaia e centinaia di pellegrini. Essi sono vestiti esattamente come nella Bibbia: tuniche e turbanti e bastoni di legno nelle mani rugose e libri delle preghiere vecchi mille anni nelle mani. Non solo: alcuni hanno tamburi e sistri e scacciamosche di crine di cavallo e ombrelli di velluto gialli rossi verdi blu e dorati. Il turista-fotografo dovunque rivolge l'obiettivo vede la foto perfetta. E tutti questi soggetti lo pregano addirittura di fotografarli.
L'unico dettaglio che al turista-fotografo non torna sono le scarpe: scarpe di plastica giallina a forma di sandalo, a forma di scarpa da ginnastica nike, a forma di mocassino, a forma di ciabatta. A forma. Ma di plastica giallina. Il turista-fotografo, per non rovinare l'incantesimo, cerca di fotografare solo quelli scalzi (che comunque sono la maggioranza).

Passeggio da sola tra le strade di Lalibela. Tutti mi fissano e bisbigliano qualcosa. Tutti vogliono sapere: «Where you go. What you want
I giovanissimi del luogo si presentano al solito modo accattivante: «Mother father dead.» Tirano fuori il quaderno dei compiti. Dicono: «Io sono molto bravo. La mia materia preferita è: Matematica.» Aggiungono: «In Etiopia i libri costano molto.» Aha. «Non tutti i ragazzi hanno i libri per la scuola.» Aha. «Dammi i soldi per comprare i libri. No? Allora una penna. Colleziono monete.»
Mi affaccio a curiosare in alcuni negozietti di souvenir tutti uguali. Faccio l'errore di interessarmi qualche secondo più del dovuto a degli immettibili orecchini. Tempo cinque minuti, tutta la popolazione di Lalibela sa che voglio degli orecchini. Almeno dieci persone vogliono vendermi degli orecchini identici a quelli immettibili di prima.
Quanto costa questo oggetto? «Trecento, però se vieni a cena con me stasera te lo regalo.»
Nel negozio di parrucchiere ci sono tre ragazze che spettegolano. Mi affaccio a guardare con un sorriso. Mi vogliono spinzettare le sopracciglia. Rifiuto cortesemente con un sorriso. Tre mani tese: «Money, food, t-shirt
Compro un oggetto in legno dipinto. La titolare non è affabile e si rifiuta del tutto di contrattare.
Negoziante coi dread: «Stasera ci divertiamo, abbiamo relax insieme, tu piacere uomini di qua.»
La sera, mentre sto precariamente seduta su una tavoletta del cesso rotta, mi ricordo che il biglietto di ingresso alle chiese rupestri l'ho pagato 50 dollari (pari a un settimo del PIL pro capite annuale dell'Etiopia) e quindi che cavolo mi aspettavo.

In mancanza di posti sul volo diretto Lalibela-Addis Abeba, dobbiamo salire su un piccolo aereo che farà scalo prima ad Aksum e poi a Gondar. Osservando dall'alto l'altopiano faticosamente attraversato via terra, possiamo effettuare un ripasso di quanto studiato finora: scarpate, cucuzzoli, colline, valli, massicci, campi terrazzati, terra rossa e gialla, spruzzi di verde, villaggi, capanne, lamiere argentate, covoni di fieno, muretti, strade, tralicci, eucalipti, acacie e sicomori, letti di fiume asciutti, il Tacazzè, campi verdi, il lago Tana.

ADDIS ABEBA È UN'INJERA

La città, se città può dirsi questo grande gruppo di borgate di paglia, è disseminata sopra una superficie irregolare che a percorrerla da levante ad occidente e da settentrione a mezzogiorno, sono cinque buoni chilometri di cammino.
(Lincoln De Castro, "La terra dei Negus, pagine raccolte in Abissinia", 1915)

L'injera è il piatto base della cucina etiope. Si tratta di una specie di piadina morbida, verdastra e di consistenza spugnosa, preparata con la farina di tef, il cereale più piccolo del mondo (infatti il suo nome vuole dire "facile da perdere"). Questo cereale è molto resistente alla siccità, privo di glutine e dona all'injera il suo inconfondibile gusto acidulo. In un paese povero di tutto come l'Etiopia l'injera è un'idea geniale: sostituisce infatti il piatto, le posate e volendo si può usare come strofinaccio o tovagliolo (o addirittura come scialle). Solitamente infatti il companatico (pezzetti di carne al sugo o pappette di legumi, non di rado piccantissimi) viene versato sopra a questo disco verdastro e viene poi mangiato con pezzi della stessa usati come presine.
Stuart, il già citato autore della Lonely Planet sull'Etiopia del Nord, paragona Addis Abeba ad una injera, per lo stesso motivo, suppongo, per cui paragonerebbe Napoli a una pizza: nessuno. Lui si sforza inutilmente di spiegare la metafora elencando le variegate offerte della caotica capitale mentre, per quanto mi riguarda, il tempo a disposizione è stato troppo limitato perché potessi farmi un'idea qualunque della città. Al museo etnografico, ad esempio, non ci sono andata: già tutto l'altopiano settentrionale mi era sembrato un immenso museo (e pure se teche e bacheche non c'erano, in un certo senso a me è sembrato che ci fossero).

In ogni caso ho visto: bambini che sniffano la colla sotto al monumento comunista, dipinti a tema politico-storico sui soffitti dell'altare della cattedrale della Santissima Trinità, un taxi dagli interni interamente ricoperti di peluche rosso fuoco, un incredibile numero di venditori di carte geografiche dell'Etiopia e dell'Africa in inglese, degradate baraccopoli a pochi passi dal centro cittadino, una cassiera del supermercato che si è dimenticata di non aver dato il resto, un quartiere che si chiama Piazza, numerosi caffè dotati di sedie schierate lungo il marciapiede, souvenir che a casa si sono sbriciolati, l'hotel più antico della città oggi usato anche come hotel a ore.
In un accogliente bar ho bevuto una birra e condiviso l'injera con dei ragazzi del posto. Per tutto il tempo mi sono aspettata che alla fine mi avrebbero chiesto qualcosa, ma non mi hanno chiesto niente, se non di spedirgli via e-mail le foto che ci siamo scattati insieme.
Alle 4 e mezza di notte, un attimo prima di addormentarmi sull'aereo, mi è venuto in mente quel ragazzo che − durante una sosta lungo la Strada degli italiani − mi ha puntato il telefonino sul viso e ha scattato foto a ripetizione per cinque minuti. Ciao ragazzo sorridente, che probabilmente conosci la mia faccia a memoria, ti dedico questo reportage. L'incontro con te un po' mi consola di tutti gli altri incontri mancati.

Gallerie fotografiche

Etiopia del Nord:

Lalibela:

Film e libri

Francesco Filippi, "Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie" (2021)
Marco Aime, “L'incontro mancato, turisti, nativi, immagini” (2005)
Angelo Del Boca, "Italiani, brava gente?" (2005)
Angelo Del Boca, "La nostra Africa. Nel racconto di cinquanta italiani che l'hanno percorsa, esplorata e amata" (2003)
Ennio Flaiano, "Tempo di uccidere" (1947)
Pippo Vigoni, “Abissinia. Giornale di un viaggio” (1881)