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NEL CUORE DEI BALCANI

Bosnia-Erzegovina in solitaria

Durante l'estate la compagnia aerea Mistral Air, del gruppo Poste Italiane, effettua ogni settimana un volo da Bari a Mostar, ideato appositamente per condurre intere famiglie numerose pugliesi e lucane in pellegrinaggio a Medjugorje. Devo dunque essere molto grata ai fan delle apparizioni mariane se posso raggiungere la Bosnia in meno di un'ora, invece di trascorrere una lunga notte nel traghetto per Dubrovnik.
Sbarcati nel minuscolo aeroporto, solo io e uno studente barlettano siamo rimasti in attesa di un mezzo di locomozione: tutti gli altri sono stati ingoiati da un torpedone con l'aria condizionata e sono spariti dalla nostra vista in un batter d'occhio.
Io sono salita su questa vecchia Opel pensando di scroccare un passaggio, che invece mi è stato fatto pagare, e non poco. Sara ai tempi della guerra viveva in provincia di Benevento, e ora è quello l'accento che sfoggia mentre parla senza sosta seduta sul sedile posteriore, guardandosi in giro con quegli occhi nerissimi contornati da un forte segno di matita.
Erano anni che ci giravo intorno: sapevo che la Bosnia fosse il cuore e avevo paura di scottarmi. Ed ora eccomi qui: i muri della stradina che mi conduce alla pensione mostrano ancora i segni dei colpi di arma da fuoco. Miran mi accoglie in casa con quei modi un po' bruschi tipici dei timidi, ma con gli occhi azzurri buoni. Un grappino alle undici di mattina, sulla strada 35 gradi di fuoco. Benvenuta in Bosnia-Erzegovina.

DON'T FORGET MOSTAR

Via Braće Fejića. Ventun'anni dopo la strage di Srebrenica, un'enorme scritta sul muro grida in bosniaco che non bisogna né dimenticare né perdonare. Il murale rosso e nero è firmato dai Red Army, i supporter della squadra di calcio Velež Mostar, tifoseria multietnica prima della guerra, oggi costituita soprattutto da bosgnacchi. Che non tutti loro siano ancora a loro agio con il concetto di perdono lo dimostrano gli screzi − se non i veri e propri scontri − con i rivali del Zrinjski Mostar, in maggioranza di etnia croata.
Mi incammino senza indugi verso il leggendario ponte. Lungo la strada un pannello steso in orizzontale, al contrario di quanto affermano i Red Army, suggerisce in inglese di non dimenticare ma di perdonare, sempre. Due pietre gemelle, ai due lati del ponte, intimano di non dimenticare, “Don't forget”, e basta, senza sbilanciarsi sulla spinosa questione del perdono. E chi dimentica? Sono qui apposta.
Ed eccolo qui lo Stari most, capolavoro ottomano del sedicesimo secolo. Nel 1992 il ponte era diroccato e trasformato in trincea: si attraversava di corsa, quasi strisciando, per evitare di essere colpiti da una pallottola. Il 9 novembre 1993 venne bombardato dai croato-bosniaci e completamente distrutto: i pezzi della "mezzaluna di pietra" precipitarono nella Neretva, la popolazione lo pianse come se fosse un parente. Nel 1994 al suo posto c'era un ponte tibetano, e intanto i tuffatori continuavano a tuffarsi, anche quando non c'era nessuno ad applaudirli. Anche quando persino il ponte non c'era più.

Oggi il ponte è di nuovo al suo posto; e anche il pubblico c'è, eccome. I turisti camminano con prudenza per non rischiare di scivolare sui lastroni bianchissimi e sui ciottoli, tondi e lisci come grosse biglie, che pavimentano le viuzze limitrofe, mentre il clan dei tuffatori è intento a raccogliere i soldi: al termine della questua apparirà un giovane in mezza muta che si tufferà da più di 20 metri di altezza nella gelida Neretva. Tutti applaudiranno, sia chi sta affacciato sul parapetto, sia chi sta seduto sulla riva, in basso: i turisti venuti da Dubrovnik o da Medjugorje per una gita di un giorno, i viaggiatori di tutti i continenti che passano un giorno a Mostar, uno o due a Sarajevo, e poi proseguono in Croazia o in Montenegro, i visitatori dei Paesi del Golfo con gadget tecnologici di ultima generazione, ma mogli tutte vestite di nero. E poi continueranno a passeggiare in questa piccola Istanbul bosniaca, osservando e magari acquistando nelle botteghe le lampade, le scatole di lokum, le ciotoline di ceramica smaltate identiche a quelle in vendita nel gran Bazar, oppure si siederanno sui cuscini ottomani in uno dei bar e ristoranti del centro storico, dove gli verrà servito il caffè nei servizi di rame e la stucchevole baklava (ma qui, a differenza della Turchia, si può pagare anche in euro: un marco bosniaco vale mezzo euro).

Il ponte affollato si vede anche dalla finestra della torre fortificata di Tara, posta ad una delle due estremità, dove è allestita una mostra di foto in bianco e nero di Wade Goddard a uso e consumo di noi turisti di guerra. Edifici in rovina, donne che trasportano assi di legno, bambini magri, auto distrutte, foulard, scritte sui muri, macerie, soldati, padelle. Quando esco, una zingarella si allontana dalla mamma e viene verso di me con la mano aperta, fa il faccino tenero per rimediare qualche moneta. Il fratellino corre impugnando un mitra giocattolo, ci raggiunge e mi colpisce la mano con l'arma di plastica. Mi vengono in mente tutte le scene viste in foto, ma poi mi guardo intorno e le bancarelle intorno a me continuano ad esporre ordinatamente sacchetti di lavanda e bottiglie di acquavite (al melograno, ai fichi, alle prugne).
Nel tardo pomeriggio i turisti di un solo giorno hanno levato le tende e le stradine acciottolate si sono svuotate. I ristoranti affacciati sul fiume hanno molti tavoli liberi. Mentre aspetto che mi servano uno stufato bosniaco, inizia il concerto dei muezzin. Il sole tramonta sulla Neretva color smeraldo, i palazzi intorno si illuminano contro il cielo ormai nero, il ponte si accende di giallo.

Salendo sul minareto della moschea Koski Mehmed Pasha o della moschea Karadozbeg e girando intorno sul minuscolo balconcino, si può osservare in un unico colpo d'occhio tutta questa città, martoriata e piena di cicatrici, divisa in due dal fiume: a est la parte vecchia con le cupole grigie e i minareti sottili, dall'altra parte il quartiere nuovo costruito dagli Asburgo e da Tito. Qui svetta il brutto campanile della chiesa francescana, ricostruito molto più alto dopo la guerra, mentre in fondo, tra le montagne che circondano tutta la città, c’è la collina Hum, sulla cui sommità si erige una croce bianca alta più di 30 metri.
Ai tempi di Tito la città era un meraviglioso esempio della convivenza jugoslava: nessuna delle varie etnie prevaleva sulle altre e la percentuale di matrimoni misti era tra le più alte del Paese. Poi la guerra. In un primo tempo, croato-bosniaci e bosgnacchi, uniti, riescono ad avere la meglio sui serbo-bosniaci, ma poi l’alleanza si spezza e i croati iniziano ad attaccare i musulmani: decine di migliaia di costoro si trasferiscono all'estero (molti definitivamente), lasciando i loro appartamenti di Mostar ovest ai profughi croati venuti da fuori, mentre i musulmani rimasti sono costretti a spostarsi nella parte est. Oggi non c'è un gruppo nazionale che costituisce la maggioranza assoluta della popolazione, ma le suddivisioni etniche sono molto più nette: i cattolici per lo più vivono nella parte più recente, i musulmani nel centro storico oggi restaurato, mentre il numero di serbi è crollato. A quanto pare la maggior parte dei giovani croati dell'ovest, nella parte est non ha mai messo piede.

In realtà, non è il fiume a dividere le due Mostar, bensì più esattamente il bulevar Narodne Revolucije, una strada a quattro corsie che all'epoca costituiva la linea del fronte. L'edificio che subito attira l'attenzione è il Ginnasio, un grande palazzo arancione brillante risalente al periodo austroungarico, restaurato di recente. Il Gimnazija ospita lo United World College (una scuola privata per il baccalaureato internazionale, frequentata da studenti di tutto il mondo) e due scuole pubbliche: una per musulmani, l'altra per cattolici. Questo è l’unico edificio della città in cui i ragazzi bosgnacchi e quelli croati studiano sotto lo stesso tetto, benché in classi separate. Uno degli strascichi più pesanti della guerra riguarda infatti proprio l'istruzione: in tutta la Federazione croato-bosniaca la maggior parte degli alunni sono separati per etnie, mentre nella Republika Srpska ci sono solo scuole serbe (come dire "ortodosse"). I lavori di restauro hanno interessato anche l'adiacente Spanski Trg, la piazza di Spagna di Mostar, chiamata così in ricordo dei 22 soldati spagnoli che hanno perso la vita nei vent'anni di impegno militare in questo Paese.

Nonostante le belle parole spese in occasione delle inaugurazioni (incontro, unità, pace), è ancora presto per parlare di un reale collegamento tra le due parti di Mostar. Lungo il Bulevar, sono ancora tanti gli scheletri degli edifici sventrati rimasti tutt'ora come erano vent'anni fa; quello che fa più impressione è la carcassa triangolare a nove piani di quella che era un tempo la Ljubljanska Banka, usata dai cecchini proprio per la sua altezza. Ma i segnali negativi non finiscono qui: di fronte alla piazza c'è una Federazione di caccia che si chiama "Herceg-Bosne", come l'entità autonoma dei croati estremisti di Bosnia esistita di fatto negli anni della guerra, mentre sotto al municipio c’è una stele a forma di giglio in memoria dei combattenti dell’armata di Bosnia-Erzegovina, distrutta da qualche vandalo e in pezzi chissà da quanto. Senza considerare che la croce bianca sulla collina – da cui i croati sparavano con i mortai verso la parte orientale della città – è sempre ben visibile e di notte si illumina.
In questi vent'anni moltissimi edifici sono stati ricostruiti, ma c'è ancora molto lavoro da fare. Non solo gli interi palazzi in rovina fanno una certa impressione al visitatore, ma anche le facciate bucherellate di colpi, gli avvolgibili crivellati, i muri sbrecciati e i cimiteri musulmani, pieni di stele bianche su cui è incisa una mezzaluna dorata e la data di morte che inizia per 199 (ben lugubre prefisso).

La seconda guerra di Mostar è stata particolarmente intensa: dalla parte bosgnacca scarseggiavano armi, munizioni e rifornimenti, mentre il Consiglio di difesa croato (l'HVO) era sostenuto dalla Croazia. Mostar est veniva bombardata giorno e notte e alla fine fu quasi rasa al suolo. «Like Hiroshima», chiosa lapidario Amir mentre mi accompagna al monumento funebre dei tre giornalisti triestini (Ota, D’Angelo e Luchetta) uccisi nel 1994 durante la realizzazione di un servizio sui bambini di Mostar. Amir durante la guerra era nell'esercito: avrei tante domande da fargli ma non so da dove iniziare e sto zitta. «Noi non potevamo scappare da nessuna parte. Non c'erano vie d'uscita e poi... non potevamo fare altro che difendere la nostra città.» Cerca di spiegarmi. «Una mia vicina di casa ha perso due figli. Uno dei due, diciottenne, si è esposto al fuoco per salvare il fratello. Ecco. Questa è una delle cose che non dimenticherò mai.» L'eredità fisica della guerra sono invece i dolori alla schiena che lo fanno soffrire quando fa freddo: «Per me è una benedizione quando ci sono 35 gradi come in questi giorni» mi confessa mentre andiamo a sederci ad un tavolo del suo bar. «Qui nel centro storico abitano dei croati e anche dei serbi, io non odio nessuno, però, insomma, con alcuni non ci prenderei un caffè. Buongiorno e buonasera, ma non siamo real friends.» Brindiamo con una Sarajevsko ghiacciata a un mondo diverso, dove la religione non verrà usata come scusa per mettere le persone una contro l'altra. «Ma ci vorrà molto tempo».
«Sai qual è il soprannome di questo bar?» fa per cambiare discorso. «Wimbledon. Perché quando passano le belle ragazze muoviamo la testa proprio come chi assiste a una partita di tennis.» Se è per questo, caro Amir, tutti i bar di Mostar meriterebbero di essere definiti così.

ERZEGOVINA, LA TERRA DEL DUCA

Per visitare le altre principali attrazioni dell'Erzegovina ho prenotato un'escursione organizzata di un giorno. Alla guida c'è Dario, un pacioccone di circa quarant'anni che non sta zitto un momento. Poco dopo aver lasciato Mostar, ci comunica che tutte quelle bandiere con lo scacchiere che vediamo in giro sono del popolo croato in BiH e ci dovrebbero suggerire che attualmente esso rappresenta il gruppo etnico maggioritario da queste parti. La bandiera effettivamente è l'unica cosa – insieme alla Chiesa cattolica – che è rimasta ai croati dell'Erzegovina, dopo che gli hanno tolto la kuna, le targhe automobilistiche con lo scacchiere e prima ancora, naturalmente, l'annessione stessa alla Croazia.
Mentre procediamo verso sud, la nostra guida ci offre qualche delucidazione storica sull'Erzegovina, informandoci che inizialmente era abitata da popolazioni illiriche, poi fece parte della Dalmazia sotto i Romani, quindi fu slavizzata da tribù croate e successivamente soggetta ai principi di Serbia, finché nel 1377 non fu sottomessa definitivamente al dominio del re di Bosnia Stefan Tvrtko I Kotromanic. Dario trova molto divertente scherzare sull'impronunciabilità del nome di questo re, il quale combatté a lungo contro l'invasione dell'Impero Ottomano e addirittura partecipò alla storica battaglia della Piana dei Merli. Quando passa a parlare di suo figlio, Tvrtko II Tvrtković, ci sfida a ripetere correttamente queste due parole piene di consonanti, ma né io, né il ragazzo uruguayano, né la canadese di Toronto, né tanto meno la neozelandese che vive a Londra ci riusciamo, facendo salire alle stelle l'ilarità di Dario.

Il nome della regione – ci svela Dario quando siamo ormai giunti a Blagaj – deriva dal nobile Stjepan Vukčić, che in un documento ufficiale si autodefinì Herzog (“duca d'armata”, in alto tedesco antico) di San Sava: in cima alla collina rocciosa che vediamo dal parcheggio è situata la sua antica fortezza. Nel 1482 suo figlio fu sconfitto dalle truppe dell'impero turco e quindi l'Erzegovina diventò una provincia ottomana nello stato della Bosnia. Uno dei capolavori dell'architettura di cui da queste parti vanno più fieri è appunto il Tekija di Blagaj, un monastero derviscio in legno e muratura costruito nel sedicesimo secolo nei pressi della sorgente del fiume Buna. Il posto fu scelto dal sultano per la straordinaria bellezza dello scenario fluviale e ancora oggi le alte pareti rocciose, lo smeraldo del Buna e la grotta fanno da fresca e piacevole cornice a questo luogo mistico, che continua ad essere un importante luogo di pellegrinaggio. Qui possiamo entrare solo se ci togliamo le scarpe e ci copriamo i capelli con un fazzoletto, per ammirare le tombe di due importanti dervisci, il salotto affacciato sulla sorgente, l'hammam, la camera della preghiera con i soffitti di legno intarsiato.

Ci dirigiamo verso la tappa successiva: il monastero ortodosso di Žitomislići, risalente anch'esso al sedicesimo secolo. Mentre intorno a noi scorrono ordinati filari di vigneti e frutteti, Dario ci racconta che durante la guerra tutta la sua famiglia (mamma serba e papà croato) era sfollata in un piccolo villaggio, dove lui veniva picchiato a causa del suo cognome. Oggi suo padre è morto e, anche se lui è ateo, appartiene al gruppo dei serbi-ortodossi. Apprendiamo che nel 1941 il Monastero fu saccheggiato e incendiato dagli Ustascia, mentre cinquant'anni dopo la storia sembrò ripetersi quando i croati dell'Erzeg-Bosnia si dedicarono alacremente alla missione di distruggerlo una volta per tutte, massacrando tutti i monaci. Per fortuna oggi non si nota alcuna traccia né dei saccheggi né degli eccidi, poiché il monastero è stato perfettamente restaurato.
Segue, immancabile, la sosta alla città-fortezza di Počitelj, che domina la valle della Neretva. Giunti lì il programma solitamente prevede che ci si arrampichi fino al castello medievale per ammirarne l'eccezionale integrità giunta fino a noi, tuttavia – vista l'afa insostenibile – preferisco restare all'ombra di un gazebo ad assaporare la frutta fresca per cui la località è famosa (che mi viene, ahimè, venduta a prezzi finlandesi).
E infine il pezzo forte, la “perla” dell'Erzegovina tour, che ci attende dopo aver imboccato la strada verso occidente: le cascate di Kravice, una meraviglia della natura creata dal fiume Trebižat. Mentre ci incamminiamo dal parcheggio, dall'alto appare inaspettato questo anfiteatro d'acqua di 120 metri, circondato dalla vegetazione rigogliosa. Qui possiamo coraggiosamente tentare un bagno nelle gelide acque o una doccia refrigerante sotto ai muri d'acqua, sorseggiare qualche bibita sotto l'ombrellone e farci i selfie come tutti gli altri turisti.

Sulla via del ritorno passiamo vicino alla celebre Medjugorje, che completa il quadro multireligioso dell'area. Poiché non è compresa nel nostro tour, Dario vi fa soltanto un rapido cenno, ricordandoci che l'apparizione della vergine Maria nel 1981 ha trasformato un piccolo e anonimo villaggio in una più che fiorente località turistica, visitata ogni anno da più di un milione di pellegrini da tutto il mondo.
All'epoca Tito era morto solo da un anno, il nazionalismo stava riprendendo piede nel Paese e il capo dei Francescani locali fu bravissimo a sfruttare il simbolismo di questo santuario in evidente contrasto con il governo della Jugoslavia comunista. Durante la guerra, Medjugorje entrò a far parte dell'Erzeg-Bosnia, continuando ad ospitare sia i pellegrini sia i membri della comunità internazionale. L'ordine francescano permetteva alla milizia locale di usare la collina delle apparizioni (di sua proprietà) per testare i lanciagranate e questa simpatia per l'esercito della Repubblica Croata dell'Erzeg-Bosnia era affettuosamente ricambiata, visto che i combattenti dell'HVO – tra una bastonata e uno stupro all'interno dei vicini campi di concentramento – venivano qui a pregare.
Dietro la collina di Medjugorje, nei pressi di Šurmanci, c'è la foiba dove nel 1941 gli uomini di Ante Pavelić trucidarono e gettarono più di cinquecento civili serbi, ma Dario – probabilmente per non rovinare la pacifica e gioiosa atmosfera multiculturale – non la menziona, così come non ci parla dei cinque campi di detenzione operanti qui dal 1993, dove prigionieri serbi e bosniaci furono tenuti in condizioni disumane, torturati e uccisi, secondo il piano di pulizia etnica voluto dall'HVO. Il campo di Heliodrom, ad esempio, si trovava a Rodoč (qualche chilometro a sud di Mostar), quello di Dretelj era a pochi passi da Počitelj e gli altri (i campi di Ljubuški, Gabela e Vojno) erano tutti non molto lontani dal nostro itinerario odierno.

SARAJEVO: MEETING OF CULTURES

Sarajevo era una città splendida per camminare. Perdersi era impossibile. Se non sapevi dov'eri, bastava che andassi in discesa fino al fiume, e da lì era tutto chiaro. Se eri stanco, potevi fermarti in un bar a bere il caffè, o in un ristorante, se avevi fame, a mangiare un pasticcio di carne. La gente era felice. La vita era bella.
(Steven Galloway, "Il violoncellista di Sarajevo")

Al telegiornale, negli anni Novanta, tutti correvano a Sarajevo: avevano le giacche con le spalline e la permanente come noi. I jeans a vita alta gli andavano larghi e spesso dovevano tenerseli su con una cintura o una corda di fortuna, a volte con dei brutti maglioni di lana infilati dentro. Nelle strade c'erano carcasse di tram, auto, cassonetti usati come ripari dalle granate e tutti questi cittadini casualmente capitati nelle riprese, atterriti e col fiatone, trasportavano qualcosa. Nelle case al posto delle finestre tenevano dei fogli di plastica trasparente con su scritto UN e quasi tutti i palazzi erano pieni di buchi. Ma gli abitanti della città erano un esempio per tutti noi poiché si sforzavano di restare umani, coltivavano le piante, facevano i concorsi di bellezza e andavano ai concerti e al cinema, anche se nessuno li aiutava. Qualche importante politico ogni tanto faceva la parte, appariva in televisione, a Sarajevo, con il giubbotto antiproiettile, e poi se ne tornava comodamente a casa e li lasciava là sotto le bombe, in fila per l'acqua, bersagli mobili con la permanente e le spalline come noi.

Vent'anni dopo sono arrivata a Sarajevo a bordo di un autobus che proveniva da Mostar: sono apparse delle concessionarie di auto tedesche e dei brutti condomini alla moda socialista. Alcuni portavano ancora incise le ingiurie della guerra, ma non la scintillante moschea del quartiere di Mojmilo, regalo della famiglia reale saudita.
Vicino alla stazione mi sono fermata a mangiare una pita di carne, che in Bosnia si chiama burek. La pita è una sottilissima sfoglia ripiena a forma di tubo, che poi viene avvolta per formare una spirale nella teglia. Come ci aveva riferito Dario a Blagaj, era molto importante nella cultura musulmana tradizionale che le donne sapessero fare una perfetta sfoglia, larga e sottile.
Costeggiando la Miljacka, un taxi mi ha portata all'ingresso della Baščaršija, il vecchio mercato ottomano del XV secolo, con i cortili dei caravanserragli e le classiche casette in legno e calce, la maggior parte delle quali oggi trasformate in ristoranti, bar e botteghe di souvenir in purissimo stile ottomano. Come a Mostar, anche a Sarajevo i turchi hanno lasciato moschee e madrase, bazar e bagni, ma a quell'epoca risalgono anche la vecchia chiesa ortodossa e la vecchia sinagoga (i primi ebrei sefarditi, scacciati dalla Spagna, arrivarono già alla fine del Quattrocento). Se l'intera Bosnia rappresenta il punto di incontro fra Oriente e Occidente, la città vecchia di Sarajevo ne è proprio il cuore: quando via Sarači si allarga e prende il nome di Ferhadija (elegante via pedonale molto frequentata per i negozi e i caffè) si passa dal quartiere ottomano-islamico a quello di epoca asburgica, dove sorgono anche le più recenti chiese cattoliche e ortodosse.

Vicino alla cattedrale del Sacro Cuore una grande insegna nera attira la mia attenzione. La "Galerija 11/07/95. Srebrenica exhibition" è il primo memoriale del Paese, fondato per non dimenticare quello che è stato definito "il più spaventoso massacro in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale". Guardando il Memorial Video torniamo a quei giorni di luglio del 1995 in cui, dopo la resa di Srebrenica, circa ottomila maschi musulmani furono portati via e massacrati dalle truppe speciali del futuro criminale di guerra Ratko Mladić. Le terrificanti foto in bianco e nero di Tarik Samarah si concentrano sul dopo (fosse comuni, riesumazioni di cadaveri, campi profughi), il montaggio serratissimo di foto in bianco e nero di Paul Lowe (con la “Summer Overture” di Mansell che attorciglia le budella in sottofondo) è dedicato all'assedio di Sarajevo e molte altre testimonianze esplorano il lato oscuro degli anni Novanta al di là dell'Adriatico.

Oggi, le sere estive nella Baščaršija sono allegre e adatte a tutti i palati: gli avventori si suddividono equamente tra chi beve alcolici e ascolta musica da discoteca e chi beve tè, fuma la shisha e ascolta musica tradizionale. I veli e le bevande analcoliche, a quanto pare, sono diventati di moda, anche perché tra i clienti si mescolano sempre più turisti mediorientali. In particolare la meta è molto gettonata tra i popoli del Golfo, attratti dalla cucina Halal e dalla natura molto più verde e rigogliosa delle loro lande desertiche. Per la precisione il quartier generale di kuwaitiani, qatarini, emiratini è il sobborgo di Ilidža, vicino alla sorgente del fiume Bosna, dove sorgono hotel abbastanza lussuosi da rispondere ai loro elevati standard.
Sarajevo si sviluppa oblunga e compatta nella valle del fiume Miljacka ed è circondata interamente da rilievi. Dentro questo catino – come cantava Giovanni Lindo Ferretti – ci sono case dai tetti rossi, minareti alti e sottili, campanili, alberi, tram colorati, muri rattoppati, palazzi di vetro, condomini di cemento, ampi viali austroungarici, centinaia di caffè, immensi cimiteri musulmani bianchi di lapidi. Oltre il fumo di ćevapčići, il cielo è opaco.

Presso il bastione bianco, uno dei punti panoramici più belli della città, un ex poliziotto, oggi riconvertito in guida turistica, ci illustra chiaramente – come su una carta geografica – la situazione della città durante i quattro anni di assedio. «Sarajevo era completamente isolata. Le strade erano interrotte, i rifornimenti di viveri e medicine bloccati. Acqua, elettricità, telefono e riscaldamento tagliati. I soldati delle forze serbo-bosniache circondavano la città e la bombardavano dai bunker situati nelle montagne.»
Ad essere colpiti dalle granate o dai proiettili dei cecchini, e a patire il freddo e la fame, erano cittadini di tutte le etnie (tra i circa 12.000 morti, secondo qualcuno, almeno un quarto era serbo o aveva parenti serbi). Dopo la guerra il numero di residenti serbi e croati è crollato e circa l'ottanta per cento della popolazione oggi è costituita da bosgnacchi, ma il pacifico miscuglio di popoli per cui Sarajevo è stata sempre famosa non è del tutto scomparso: il condominio dell'ex poliziotto ne è un esempio, visto che sullo stesso pianerottolo ci abita una famiglia serba, una croata e una bosgnacca.
La visita guidata "Times of misfortune" prosegue in direzione centro città. «Alla vostra destra Pijaca Markale, dove avvennero due terribili stragi durante l'assedio. Qui, nel Veliki park, potete notare il monumento in ricordo dei bambini scomparsi durante la guerra. Laggiù sul marciapiede fiorisce una delle cosiddette "rose di Sarajevo": come potete vedere, l'impronta lasciata da una granata è stata dipinta di rosso.» Anche qui una delle strade principali si chiama Maršala Tita. «C'è ancora chi rimpiange il vecchio Josip Broz?» «Beh, quello che vi posso dire è che ai tempi di Tito c'era una classe media, oggi non più. Pensate che lo stipendio medio ammonta a 300 euro, il doppio per gli impiegati pubblici.»

L'ex poliziotto ci porta dunque a Koševo. Il simbolo delle Olimpiadi Invernali del 1984 è ancora in cima a una vecchia torre di cemento, arancione con i cinque cerchi colorati, ma sterminati cimiteri hanno invaso tutta la zona. In fondo svetta la silhouette della torre della televisione, arrugginita. «Era la prima volta che i giochi olimpici invernali si tenevano in un paese comunista e tra le motivazioni della scelta ci fu – ironia della sorte – la multietnicità della città. In quel periodo stavamo vivendo un momento di grande sviluppo, e invece sappiamo com'è andata a finire: sulle montagne dove si svolsero le gare, durante l'assedio stavano appostati i cecchini serbi.»
Attraversiamo la galleria e sbuchiamo su via Zmaja od Bosne (un tempo chiamata "Sniper Alley"), che attraversa tutta la città. Passiamo davanti ai due musei più importanti di Sarajevo (ennesimi manichini ottomani e mobilio fisso nelle case turche ricostruite, fotografie e oggetti di Sarajevo sotto l'assedio), dirimpettai dell'inconfondibile sagoma gialla dell'hotel Holiday Inn («Uno dei pochi alberghi al mondo in cui le stanze più care erano quelle senza vista»). Ad Alipašino Polje siamo invitati ad osservare la sede dello storico giornale "Oslobođenje", e infine arriviamo a Butmir, il quartiere dell'aeroporto. Al tunnel di Sarajevo si accedeva da questa casa lasciata appositamente al suo posto con tutti suoi muri crivellati di squarci. A partire dal 1993 ogni giorno tre o quattromila persone attraversavano questo claustrofobico cunicolo di 800 metri per rifornire la città di viveri e medicinali, recapitati dai voli dell'ONU o dei soccorsi umanitari, oppure per scappare. Pare che nessuno degli assedianti, pur sapendo della sua esistenza, abbia mai scoperto esattamente dove si trovasse. Una piccola sezione del tunnel originale è percorribile da noi turisti di guerra, mentre il resto dell'area è stato trasformato in museo. «Ci sono passato circa due volte alla settimana per anni, da qua» ricorda l'ex poliziotto. «Hai una foto di te all'epoca?» «Unfortunately, non possedevo una macchina fotografica».

Per tornare in centro è inevitabile percorrere nuovamente la stessa arteria principale, ma l'ex poliziotto ci propone una piccola deviazione per addentrarci nel quartiere di Grbavica, il più martoriato di Sarajevo perché si trovava sotto il diretto controllo dei serbi. Se proseguissimo dritto, dopo circa un chilometro entreremmo nella Republika Srpska, ma non abbiamo alcun motivo per farlo. Torniamo indietro passando sul ponte Vrbanja, che oggi si chiama "Suada e Olga" in ricordo delle prime due vittime dell'assedio. «Il ponte è noto anche per la straziante storia del Romeo serbo e della Giulietta musulmana, i fidanzatini che furono uccisi mentre cercavano di attraversarlo per scappare» e per la morte dell'italiano Don Gabriele Moreno Locatelli, che pochi mesi dopo manifestava insieme ad altri quattro pacifisti. Segue il ponte "Festina lente" dal disegno postmoderno, creato da tre studenti dell'accademia delle belle arti, e poi il più famoso di tutti: il ponte latino, dove il 28 giugno del 1914 il celeberrimo Gavrilo Princip assassinò l'erede al trono dell'impero austro-ungarico, Franz Ferdinand, insieme a sua moglie Sofia.
Il tour termina davanti al monumento più simbolico della città, la Viječnica, la ex biblioteca di epoca asburgica oggi scintillante nei gialli e rossi moreschi restaurati. Una targa ricorda che la notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 i criminali serbi hanno incendiato la biblioteca nazionale e universitaria della Bosnia-Erzegovina e che più di due milioni di libri, periodici e documenti sono svaniti nelle fiamme. "Do not forget, remember and warn!", è l'apostrofe finale. Qui non si fa riferimento al perdono ma in compenso si ordina di stare in guardia, che mi sembra un'attitudine molto più utile.

All'ingresso della Baščaršija, in corrispondenza del Ponte latino – in quello che viene definito "the street corner that started the 20th century" – è stato allestito il Muzej Sarajevo 1878-1918. Al suo interno un video ricostruisce l'ultima giornata dell'arciduca tra le vie della città, scampato a due tentativi prima di essere ammazzato dal più estemporaneo degli assassini (Princip infatti ormai aveva rinunciato all'impresa, quando casualmente si ritrovò l'auto proprio davanti al caffè dove si era rifugiato). In una teca sono esposti gli abiti e le armi del killer, mentre in un angolo campeggiano i pupazzi della coppia assassinata. I pannelli nel museo ricordano che l'Austria-Ungheria ebbe il mandato di occupare la Bosnia Erzegovina al congresso di Berlino, nel 1878, e che già da prima a Sarajevo era stata organizzata una fiera resistenza, di cui a quanto pare i bosniaci sono stati orgogliosi molto a lungo, se è vero che all'epoca della Jugoslavia il ponte si chiamava "Principov most".

Al numero 7 di Ferhadija c'è un altro museo nuovo di zecca, aperto soltanto da 5 giorni. "Museum of crimes against humanity and genocide 1992-1995" c'è scritto nel cartello pubblicitario sulla strada. Le indicazioni sono chiare: entrare in un cortile, suonare al citofono e salire al primo piano.
«Ti ho vista ieri sera sulla Miljacka», mi dice un tizio sui quarant'anni alla reception. Gli ho fatto una domanda sul museo, ma lui non capisce bene l'inglese. «Sono stato prigioniero in un detention camp in Republika Srpska, devi aver sentito parlare di Žepa vero? Lì mi hanno torturato.» Suda, anche se non fa molto caldo. Io non so cosa dire e gli tocco leggermente il braccio. Il museo è un pugno nello stomaco: contributi di vario genere illustrano i crimini commessi in Bosnia durante la guerra, soprattutto nei campi di detenzione, e una sezione è dedicata al lavoro del Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia. Osservando le fotografie dei prigionieri pelle e ossa, le fruste e i manganelli esposti nelle bacheche, i brutti maglioni insanguinati dei manichini, io penso in continuazione al tizio della reception e mi dispiace tantissimo che ieri non mi abbia fermata quando mi ha vista che camminavo da sola sulla Miljacka.

C'è molta gente sul bastione giallo ad aspettare il tramonto. Siamo tutti affacciati sul catino di Sarajevo, con il suo fiume e i suoi ponti, i suoi cimiteri e i suoi minareti, aspettando che il sole compaia almeno un secondo nel cielo opaco prima di sparire definitivamente dietro le montagne olimpiche. Mi sembra di stare nella scena finale del film "Benvenuti a Sarajevo", dove centinaia di cittadini salgono alla fortezza per partecipare ad una manifestazione per la pace – manca solo il violoncellista che suona l'Adagio di Albinoni.
Il sole si degna di apparire quando ormai ho perso le speranze e sto camminando in discesa tra le lapidi a perdita d'occhio. È un sole gigante tagliato a metà da una nuvola invisibile. Due semicerchi color sangue accanto alla torre della televisione.

BELLA CIAO

Dai Balcani ci viene un insegnamento: ciò che ci trasforma in carne da cannone è palesemente lo stesso imbonimento che ci fa comprare questo o quel detersivo o votare questo o quel partito. I veleni che generarono lo sterminio degli ebrei sono gli stessi che hanno corroso Bosnia, Serbia e Croazia. Per verificare l'universalità di certi meccanismi, nessuna generazione come quella dei nostri figli ha avuto a portata di mano una guerra così vicina e trasparente. Eppure, nessuno come loro mi sembra cieco di fronte agli eventi. Quando mi capita di spiegare ai giovani i trucchi di cui si serve il virus della guerra per aggredire gli individui, vedo invariabilmente dipingersi nei loro occhi lo stesso inerme stupore del vecchio Gojko Petrovic. E ho paura.
[Paolo Rumiz, "Maschere per un massacro"]

Per tornare a Mostar non posso evitare di prendere lo stesso autobus dell'andata, ma – seguendo il consiglio di Nera – ho deciso di fare un'inedita tappa a Konjic, situata sulla linea immaginaria che divide la Bosnia dall'Erzegovina. «Tutti i gruppi di turisti ci si fermano,» mi aveva detto la padrona del bed & breakfast «c'è il bunker di Tito, un bellissimo ponte, un museo... giusto un paio di ore».
A Konjic non esiste una stazione dell'autobus, ma si scende in mezzo alla strada. Il tempo di raggiungere a piedi il centro e di trovare un'agenzia turistica e scopro che la visita al bunker segreto di Tito si può fare soltanto prima delle 14, passate – ahimè! – da un quarto d'ora. È un peccato non poterlo visitare: avevo letto che ci avevano messo 26 anni per costruire questa città sotterranea di 6.500 metri quadrati, fornita di tutti i comfort, ma che Tito, il governo e i comandi militari per fortuna non hanno mai avuto la necessità di andarci a vivere, visto che dopo la Seconda Guerra Mondiale non è scoppiato alcun conflitto armato – fino alla morte del Maresciallo, almeno.
Ripiego sul ponte ottomano a sei archi: questo fratello minore del ponte di Višegrad, distrutto alla fine della Seconda Guerra Mondiale, a quanto pare è stato recentemente restaurato e la sua bellezza oggi si specchia nella Neretva. Effettivamente, il centro di Konjic non presenta altre attrattive, se escludiamo il museo etnografico, con i soliti bellissimi arredi in legno intarsiato, manichini ottomani e servizi di caffè di rame, ma nessuno che lo presiede o che riscuote i 2 marchi di biglietto. Così mi avvio mestamente verso la fermata dell'autobus, sperando di arrivare in tempo a Mostar per il tour "The death of Yugoslavia".

Mentre arranco con il mio trolley, incontro dei ragazzi francesi che escono da uno stanzone pieno di foto. «What's that?» «A sort of memorial of the war», mi risponde un moretto in vena di socializzare. Mi racconta infatti che sono di ritorno dal rafting nelle gole a nord di Konjic, poi mi intervista brevemente e, scoperto che non sono totalmente ignorante sulla recente storia della Bosnia, mi propone un patto: «Io ti offro un tè alla menta e tu mi fai una breve lezione di storia della guerra di Bosnia».
Poco dopo essere risalita sull'autobus passiamo per Čelebići, sede di un altro famigerato campo usato per la detenzione di serbo-bosniaci prigionieri di guerra (tra i pochi processati bosgnacchi al tribunale internazionale dell'Aia ci sono anche i tre comandanti del campo); quindi costeggiamo il lago Jablaničko e proseguiamo seguendo il corso della Neretva. A causa dell'incontro fortuito con i tre francesi (solo uno dei quali – a dire il vero – interessato alla lezione di storia, mentre gli altri due erano più presi dalla loro accanita partita di dama), arriverò troppo tardi per la prevista visita guidata. Dovrò rimandare a data da destinarsi la visita al cimitero partigiano di Mostar, che si trova nella parte croata e che, da quanto ho capito, non a caso giace in condizioni di completo abbandono.

Dopo una romantica cena lungo la piccola diramazione della Neretva nei pressi del Ponte Storto, penso sia giusto solennizzare con un cicchetto di rakija questa ultima sera in Bosnia. Al bar socializzo con un gruppo di musicisti folk italiani che mi invitano ad unirmi ad una piccola comitiva multiculturale che nel frattempo si è creata, per andare a suonare sulla spiaggetta sotto il ponte. Tra un brano e l'altro il fisarmonicista mi confessa di saperne troppo poco delle guerre jugoslave e mi prega di parlargliene. Ed è già il secondo giovane viaggiatore che mi fa la stessa richiesta oggi. «Avrei voluto un'insegnante come te» afferma al termine del racconto questo ventenne di Brescia con gli occhi lucidi, prima di provare a mettermi la lingua in bocca.
Delle ragazze dell'Est chiedono "Bandiera rossa", ma non viene eseguita, e invece i tre lombardi attaccano una versione di "Bella ciao" per fisarmonica, clarinetto, chitarra e rakija, che tutti cantiamo a squarciagola, nel cuore della notte, ai piedi del ponte di Mostar illuminato di giallo. Praticamente, la conclusione tipo di un film di Kusturica.

L'indomani un tassista mi accompagna all'aeroporto di Mostar per 8 marchi, ossia circa 4 euro. La donna con gli occhi truccati di nero e dal forte accento campano ce ne aveva chiesti 10, di euro, per portarci dall'aeroporto al centro. Lo dicevo io che c'era qualcosa di ambiguo in lei.
All'aeroporto ritrovo le allegre famiglie numerose per cui questo volo è stato creato, appesantite rispetto al viaggio di andata da un elevato numero di ingombranti madonnine avvolte nella carta di giornale, acquistate a Medjugorje. «Il turismo religioso è quello più redditizio», mi aveva detto Dario durante la visita dell'Erzegovina, «i turisti normali quasi sempre visitano un posto soltanto una volta, nei luoghi di pellegrinaggio si torna più volte.» Non sempre è così, caro Dario. Io per esempio qui ci tornerò. E non per il santuario.

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