- Categoria: Racconti in Medio Oriente
Trebisonda - Erzurum - Mardin - Immagini - "Kebab a colazione" (2015)
Pide e tulipani
Primavera in Anatolia orientale
A furia di parlare di attentati, bombe, curdi, terroristi, derive autoritarie, finti golpe, presunta islamizzazione, rifugiati siriani, a molti è passata la voglia di viaggiare in Turchia. E invece è un paese ricco di meraviglie naturali, con una storia affascinante e un popolo accogliente che conquista facilmente il cuore del visitatore.
Il nostro itinerario tocca tre destinazioni molto diverse tra loro, situate nella parte più orientale del paese: Trabzon, vivace città portuale sul mar Nero; Erzurum, roccaforte conservatrice con un passato selgiuchide e un presente di stazione sciistica; Mardin, una specie di Matera affacciata sulla sconfinata pianura mesopotamica del Kurdistan.
Trebisonda: Da non perdere
In fase di atterraggio l’aereo della Pegasus trafigge la coltre di nuvole e finalmente appare il Ponto, la storica regione della Turchia affacciata sul Mar Nero. A ridosso del “mare ospitale”, come lo chiamavano i greci, i rilievi brillano in diversi toni di verde, tra gli sbuffi di nebbia bassa. In secondo piano le cime innevate più alte del paese.
Un cortese passante siriano ci guida per le strade della mitica Trebisonda verso la ridente Ataturk Meydani, gremita da una folla dall’aspetto vacanziero. La sede del nuovissimo İyi Parti, il “Buon partito” di orientamento conservatore e laico, è annunciata da un grande ritratto del Padre dei Turchi e da lunghi filari di palloncini gialli e celesti. Quella più consolidata del partito rivale, l’AKP del Grande Presidente, occupa più sobriamente il palazzo accanto con la sua manageriale lampadina stilizzata. Osserviamo un po’ di alberghi uno accanto all’altro prima di propendere per l’ultimo di essi, ubicato poco prima della strada statale che separa Trabzon dalla spiaggia. L’hotel ha l’aria signorile per viaggiatori di commercio, nondimeno una camera doppia non costa più di trenta euro, a conferma del fatto che la Lira Turca è in caduta libera.
"Perdere la Trebisonda" significa essere disorientati ma anche inquietarsi, spazientirsi: il suo faro infatti, anticamente, costituiva un importantissimo punto di riferimento per le navi che percorrevano quelle rotte infide. D'altra parte, dopo essere stata per due secoli un regno crociato, fu l’ultima città ad essere conquistata dagli Ottomani: forse fu in quel momento che la locuzione iniziò ad entrare in voga, visto che perdere Trebisonda ebbe (letteralmente) pesanti conseguenze economiche e politiche per tutto l’Occidente. Ancora oggi è il porto più grande della Turchia sul Mar Nero, situato in una posizione strategica tra Europa e Medio Oriente.
Non so se sono qui più per amore dei giochi di parole, o perché vi fece tappa Marco Polo lungo la Via della Seta, oppure perché è così vicina al confine con la Georgia. Fatto sta che poco tempo dopo sono seduta su un minuscolo sgabello di fronte a una çorba di legumi, ricambiando il sorriso di uomini e donne che sorbiscono il tè ai tavolini adiacenti. L’unico avventore che parla qualche parola di inglese è ansioso di darci il benvenuto: ci tiene subito a dire che egli non bada affatto alla provenienza o alla religione delle persone, ma ama tutto il genere umano. Indistintamente. Tranne gli arabi. “Avete mai notato che in tutti i Paesi arabi ci sono sempre guerre?” Ecco.
L’attuale Trabzon si presenta come una città cosmopolita, indaffarata e aperta come tutti i porti di mare. Le sue mercanzie sono generosamente esposte nei negozi e nelle bancarelle del bazar: retine colme delle celebri nocciole locali (findik), colorati pacchi di tè di cui la regione è grande produttrice, gioielli lavorati come all'uncinetto. E poi le impeccabili pasticcerie, le solide chiese bizantine convertite in moschee, i minareti, il vecchio ponte di legno di Zagnos affacciato sull’omonimo Valley Park, l’antica fortezza, l’immancabile statua di Ataturk, le eleganti dimore colore pastello sulle pendici delle alture, i giardini pieni di fiori colorati.
Ed eccoci su un promontorio affacciato sul mare al cospetto di Hagia Sophia, uno dei migliori esempi di architettura tardo bizantina della regione. L’edificio, costruito come chiesa dai Comneni all'epoca di massimo splendore dell’impero, è prima diventato una moschea e in seguito un museo, quando negli anni Sessanta vennero riportati alla luce alcuni affreschi bizantini che, in nome dell’iconoclastia, erano stati ricoperti di calce dagli ottomani. Il colpo di scena è che dal 2013 è tornato parzialmente ad essere un luogo di culto musulmano, non senza polemiche riguardo il presunto cambio di corso rispetto alla notoria secolarizzazione della Repubblica turca. E infatti sono visibili soltanto gli affreschi sulle pareti dei portici esterni, visto che il cuore dell’edificio è chiuso ai visitatori.
A cena ci approcciamo alla cucina tipica del Mar Nero gustando alici fritte, polpette di carne e pane di granturco, in un ristorante elegante (ma a buon mercato come tutto il resto), gestito in modo squisitamente gentile. Quindi veniamo condotte da uno studente altrettanto cerimonioso in un pub collocato all'ultimo piano di un edificio. La terrazza si affaccia sulla sagoma di Ataturk e sul nome Trabzon scritto a grandi lettere, entrambi ben illuminati sulla collina, accanto alla bandiera turca. Il giovane universitario commenta sarcasticamente l’onnipresenza del Padre dei Turchi mettendosi la mano sul cuore: “He is everywhere”. Ci tiene a farci sapere inoltre che non ha particolarmente gradito la recente visita elettorale del Grande Presidente e che comunque, appena ottenuta la laurea in giornalismo, raggiungerà la sua fidanzata in Inghilterra.
Per l'affitto dell'auto ci siamo rivolte al receptionist dell’hotel, il quale ci ha consigliato un’agenzia che non avevo mai sentito nominare. Il fatto che non avessero una sede fisica avrebbe dovuto insospettirci, ma che non avremmo dovuto fidarci lo capiamo soltanto quando a 200 metri dall’hotel la Fiat Linea resta inchiodata al centro di un vicoletto e non ne vuole sapere di rimettersi in moto. La discutibile politica di questa agenzia infatti è quella di fornire l’auto con il serbatoio pressoché a zero, ma nel nostro caso di carburante non ce n’era proprio. Al telefono, il titolare ci ha accusate di averlo consumato tutto e a nulla è valso spiegargli che eravamo a pochi passi dall’hotel e che solitamente non beviamo benzina a colazione: poteva mandarcene un po’ ma solo con un sovrapprezzo. A quel punto anche gli altri presenti, che si erano immediatamente materializzati per prestarci aiuto, si passano il telefono di mano in mano per inveire a turno contro il titolare.
Nell’attesa che un amico dei convenuti venga a portarci una tanica di diesel, parliamo del più e del meno con i nostri benefattori, dai quali apprendiamo che Trabzon è molto affollata perché questa è la settimana del Nawrūz, la ricorrenza tradizionale persiana che celebra il nuovo anno e l’inizio della primavera. Molti turisti iraniani hanno scelto questa meta per passare le vacanze, anche se ormai si tratta di una festa considerata propria anche in Turchia, mentre fino al 2000 era vietato celebrarla perché molto sentita dai curdi e dunque troppo intrisa di riferimenti politici.
Si commenta anche l’altro evento del week-end: il comizio del Grande Presidente che, “unfortunately” (come commenta uno di loro), ha avuto luogo due giorni fa. “He is not normal”, aggiunge l’altro, picchiettando l’indice contro la tempia. E pensare che siamo in una delle provincie in cui il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo ha preso circa il 60% dei voti.
Il programma odierno è stato completamente rivoluzionato una volta saputo che il monastero di Sumela (uno dei motivi per cui siamo venute qui) è chiuso per lavori. Così, versato il carburante nel serbatoio (la metà che non è finita per terra, per essere precisi), ci avviamo sulla strada costiera in direzione ovest. La litoranea da Trabzon a Ordu (177 km) è stata costruita esattamente sulla linea di costa ed è tappezzata di bandiere della Turchia e di foto del Grande Presidente, che pubblicizzano i comizi appena tenuti a Giresun e a Ordu. “Continua la marcia benedetta” annunziano con entusiasmo a grosse lettere rosse. Un’infinità di ponti collegano le città al mare, separate dalla strada statale come se fossero due mondi diversi: il centro cittadino e la natura. Sulla strada le rivendite di pane del mar Nero sono annunciate da una finta pagnotta gigante applicata su pali, che la notte si illumina; e per il resto è una lunga sequela di ristoranti di pesce e polpette (balik & kofte), moschee ed ex chiese bizantine, chioschi a forma di nocciola, monumenti alla nocciola, rivendite di nocciole. Giunti a Giresun (l’antica Cerasunte) la strada costeggia la città vecchia e decidiamo di scendere per pranzare. Ed ecco scoperto da dove prende il nome in molte lingue e dialetti europei la ciliegia – prodotto tipico del luogo, che da qui fu importata in Italia. Molta gente affolla la piazza approfittando del sole, i tulipani traboccano nelle aiuole, un buon pesce fresco ci viene servito ad un tavolino vista mare. A Ordu si è alzato un vento tale che non ci sembra una buona idea usufruire della teleferica, quindi – visto che anche il museo etnografico ha appena chiuso i battenti – non ci resta che aggirarci mestamente per il quartiere vecchio.
Erzurum, la porta dell'Anatolia orientale
La Grande Erminia è una grande provincia; e nel cominciamento è una città ch’à nome Arzinga, ove si fa lo migliore bucherame del mondo, ov’è la piú bella bambagia del mondo e la migliore. Quivi à molte cittadi e castella, e la piú nobile è Arzinga, e àe arcivescovo; l’altr[e] sono Arziron ed Arzici. Ell’è molto grande provinci[a]: quivi dimorano la state tutto il bestiame de’ Tartari del Levante per lo buono pasco che v’è; di verno non vi stanno per lo grande freddo, ché non camperebbono le loro bestie.
(Marco Polo, “Il Milione”)
Recapitate le lenzuola pulite all'hotel, il ragazzo della lavanderia si offre di accompagnarci alla stazione degli autobus di Trabzon. Non pago di averci regalato due snack al cioccolato, ci porta i bagagli fino al banco della compagnia degli autobus, ci aiuta ad acquistare il biglietto e rifiuta categoricamente una mancia. L’impiegato della compagnia ci offre il çay, quindi ci facciamo preparare velocemente delle gustose pide dal fornaio e infine prendiamo posto sull'autobus, dotato di schermi personali con film, musica, giochi, nonché di un servizio gratuito di bevande calde e fredde.
Partiamo allegramente alla volta di Erzurum, altro luogo dal nome estremamente evocativo. Mentre ci arrampichiamo fino al Passo di Zigana, penso che dietro la montagna si abbarbica il monastero di Sumela che, insieme alle piantagioni di tè di Rize, ci siamo lasciate alle spalle senza rimpianto. Affrontiamo il Passo del monte Kop, a quasi 2500 metri di altitudine, in un fiabesco tragitto tra le montagne innevate; lungo la strada fervono i lavori per la costruzione di un tunnel che prima o poi renderà più agevole questo itinerario.
Giunte alla otogar di Erzurum, ci infiliamo nel taxi con la consapevolezza di recarci in una delle città più religiose e nazionaliste del paese. A pochi chilometri da qui nacque e mosse i primi passi Fethullah Gülen, il principale ricercato dalla giustizia turca, ritenuto più pericoloso di Bin Laden. Fondatore dell’influente movimento di ispirazione musulmana “Hizmet”, vive da circa vent’anni in esilio negli Stati Uniti: su di lui pesano le accuse di terrorismo nonché di essere la mente del fallito golpe militare del luglio 2016.
Erzurum sorge a un’altitudine di quasi 1800 metri sul livello del mare ed è una località dalle temperature notoriamente rigide, ma per fortuna in questi giorni il meteo prevede un clima assai mite. Nella piazza principale troneggia la Yakutiye Medrese, un’imponente scuola teologica mongola che risale al 1310 e che oggi ospita il Museo di Arte ed Etnografia Turco-Islamica. L'entrata è decorata con disegni geometrici e motivi di piante e animali, mentre l’unico minareto sopravvissuto sfoggia uno straordinario mosaico di maioliche che non stonerebbe a Samarcanda.
Ma il vero tuffo al cuore lo si ha di fronte alla scuola coranica dei Minareti Gemelli, l’edificio simbolo di Erzurum. La Çifte Minareli Medrese è una delle più antiche università dell’Anatolia, risale infatti all’epoca in cui questa era una ricca città selgiuchide. Nella viuzza accanto, da cui sono ben visibili i tre mausolei duecenteschi dai tetti a cono, appaiono i primi negozietti di souvenir incontrati finora, anche se vuoti. Un negoziante curdo ci prega nervosamente di entrare e solo dopo aver chiuso bene la porta (il suo vicino potrebbe denunciarlo) inizia il suo sfogo antigovernativo in un anglo-tedesco di ardua decifrazione. “Di turisti prima ne venivano tanti, da Francia, Cermania, Italia… ma atesso non più, da quanto abbiamo un tittatore al coverno! (Cvardare tappeti fatti a mano) Non siamo più liberi di esprimere le nostre opinioni e migliaia di giornalisti, avvocati e insegnanti vengono messi in carcere senza alcun motivo. (Comprare sciarpe? Costare poco)”. E in effetti nello stato di emergenza (che tra l’altro è ancora in vigore) seguito al fallito golpe, è partita una campagna di epurazione e condanne serratissima, che ha preso di mira soprattutto i sospetti (soldati, giudici, insegnanti, giornalisti) legati in un modo o nell’altro al leader del FETÖ, l’organizzazione terroristica che secondo il governo turco è guidata da Gülen. Grazie al negoziante curdo è passato il tempo necessario a far illuminare la medresa a festa: sullo sfondo di un cielo così blu e l’ornamento della luna e delle montagne innevate sullo sfondo, questa resterà una delle immagini indimenticabili della Turchia.
Superiamo la Ulu Cami e finalmente ci rechiamo per cena in questa fantastica antica abitazione in legno, già adocchiata nel pomeriggio, traboccante di splendidi oggetti antichi: un immenso museo pieno di alcove dove cenare spaparanzati sui cuscini come dei pascià, di fronte a straordinari vassoi ottomani. Senza contare che il cibo è squisito e non costa nulla e che nella sala grande è in corso un concerto. L’unico aspetto antipatico di tutti questi meravigliosi ristoranti turchi è che non vengono serviti alcolici, costringendo il visitatore europeo a cercare un bar dove bere una birra fresca come se fosse un luogo di peccato.
Siamo in Turchia da pochi giorni e sappiamo già che bisogna sempre guardare in alto, e non per forza a livello strada, per scoprire i più interessanti luoghi di aggregazione. Ed eccoci qui, sedute tra gli scaffali di una libreria al secondo piano, a bere il çay insieme ad un gruppo di studenti universitari. Comunicare non è facile visto che l’inglese lo masticano in pochi e l’utilizzo di Google traduttore non sempre facilita le cose. Alcuni di loro provengono da città lontane e sono qui per frequentare alcune delle rinomate facoltà di Erzurum. “Vi sembra che ci sia la dittatura qui? Stiamo parlando di politica da mezz'ora!” “Sì, ma voi non state esprimendo critiche. Ci andresti nel bar più affollato della città a dire ad alta voce il tuo dissenso?” “Certo che ci andrei. Non c’è alcun problema!”. Il grande Presidente qui lo hanno votato tutti e secondo loro sta lavorando molto bene per il suo popolo, nonostante il piccolo problema dei siriani. “Non solo rubano e sono sporchi, ma vengono spesi troppi soldi per loro, senza contare che l’Unione Europea di tutti quelli promessi ne ha dati finora solo la metà”. Per quanto riguarda la presunta opera di islamizzazione dell’attuale governo, sgranano gli occhi dallo stupore: indossare il velo, bere alcolici, convivere prima del matrimonio o vivere in appartamenti per donne sono scelte libere e personali (glielo ha insegnato Ataturk sin dalla più tenera età, d’altra parte).
Sulla strada che ci riporta all'hotel, dai soliti piani alti provengono le note di una chitarra turca. All'ingresso del portone ci avvisano che lassù si serve alcol: una parte della cittadinanza potrebbe ritenere due donne sole che bevono birra delle prede facili con cui flirtare. E infatti, al quarto piano del palazzo, due improbabili dongiovanni muniti di Google traduttore provano con scarsi risultati a fare i galanti, prima nella sala adibita a discoteca e poi in quella del concerto. A quanto pare non tutti gli studenti passano le loro serate a bere il tè nelle librerie.
L’indomani, l’impiegato dell’ufficio del turismo di Erzurum è molto lieto di conoscerci e rendersi utile. “I popoli del Mediterraneo sono simili” afferma con entusiasmo. Prima di tutto, dobbiamo sapere che siamo giunte in un'importantissima destinazione sciistica e che non possiamo assolutamente mancare l'impianto del Monte Palandöken. Poi ci racconta con orgoglio che la Federazione per i campionati mondiali invernali, di cui lui modestamente fa parte, sta lavorando per ospitare qui le olimpiadi del 2026. "Il turismo è una delle maggiori fonti di reddito della zona, insieme all'edilizia e al commercio, mentre di industrie quasi non ce ne sono. Certo questo è un periodo di crisi, anche perché dopo il tentato colpo di stato la Lira si è dimezzata..." Negli ultimi tre anni si è verificato un considerevole calo di presenze turistiche con perdite economiche ingentissime, benché a sentire il nostro alacre manager di turisti europei fin qua anche prima non ne venivano tanti; a parte i turchi, infatti, i visitatori provengono soprattutto dalla Polonia, dall'Azerbaijan e dall'Iran. Si meraviglia assai quando gli diciamo che molti italiani non vengono più in Turchia perché lo considerano un paese non democratico. “Ma che dite! In Iran sì che c’è la dittatura e io avrei paura ad andarci, ma qui non ci sono questi problemi.” E come la mettiamo con Afrin? L’operazione militare Ramoscello d'Ulivo in Siria, dove la Turchia e l'Esercito siriano libero hanno appena preso il controllo della città di Afrin, “era un’operazione necessaria per proteggere il confine ed impedire l’ingresso di terroristi; è stata compiuta cercando di fare meno vittime possibile e comunque il Grande Presidente non ucciderebbe mai nemmeno un bambino, ne sono certo.” In effetti non è il primo a farci notare che, per quanto possibile, l’operazione è stata compiuta “con i guanti di gomma”.
Poco dopo siamo in un centralissimo bar in stile occidentale, sedute ad uno dei tavoli della luminosa terrazza insieme a un giovane impiegato pubblico dotato di bellissimi baffi. Ha vissuto a lungo in Europa, parla tre lingue oltre il turco, indossa abiti di ottima fattura e ci sta dicendo che il Grande Presidente non gli piace affatto, che ha votato il CHP (il partito di centro-sinistra) e che la Turchia non è propriamente uno stato democratico. (“D’altra parte, quale stato lo è veramente?”) Sebbene la città sia troppo conservatrice per lui, anche in merito alla supposta islamizzazione conferma quanto dicevano gli studenti, facendosi una grassa risata e invitandoci a guardarci intorno. Inoltre, nonostante le sue preferenze politiche, deve ammettere che il paese è migliorato negli ultimi anni e anche la mentalità è cambiata; insomma, non è incomprensibile il motivo per cui il Grande Presidente riscuota tutto questo successo. “Considerate che ci troviamo in una regione e in un periodo difficile, non solo per le conseguenze del tentato golpe, ma soprattutto per l’emergenza umanitaria. Il nostro governo ha accolto quasi 4 milioni di siriani… in Europa non vi rendete conto di cosa significa! La popolazione turca in linea di massima non è razzista e comunque i campi profughi sono tutti di standard molto elevato.” E in effetti avendo visitato quello di Kilis non posso che confermare. “Il vero problema è che l’Europa ci sta prendendo in giro sulla questione del visto gratuito, che è ciò che preme a tutti noi. Sapete che per andare in Europa non solo dobbiamo pagare un visto di 70 euro ma dobbiamo anche recarci personalmente all'ambasciata di Ankara, dimostrando di rispondere a una serie di requisiti relativi al conto in banca e all'assicurazione sanitaria? Sappiamo benissimo che il nostro ingresso nell'Unione Europea è indesiderato. Abbiamo rispettato tutti i parametri richiesti eppure la Bulgaria e la Romania sono entrate e noi no. Secondo voi perché? Perché l’occidente ha paura di una Turchia forte e soprattutto perché è musulmana! Ne hanno dette di tutti i colori: che non siamo democratici, che abbiamo la pena di morte (anche se è stata abolita da anni), addirittura tirano fuori la questione del genocidio degli armeni! Senza che nessuno dica che anche gli armeni hanno ucciso un milione di turchi. Se venite al mio villaggio di origine vi mostro un museo dedicato proprio a questo... Si tratta in parte di un mito alimentato dalla diaspora in combutta con i paesi occidentali. Sotto sotto, il sogno di una grande Armenia non si è mai sopito.”
Come niente si è fatta l’ora di pranzo e dunque salutiamo il nostro nuovo amico (“Grazie del caffè e ‘ojala’, come direbbero in Spagna”) e ci dedichiamo alla facilissima impresa di assaporare la specialità culinaria di Erzurum, il Cag Kebab. I localini turchi hanno fatto definitivamente breccia nel nostro cuore con i loro deliziosi arredi e la grazia nel servire, ad esempio, questi succosi pezzi di carne ovina nel sottilissimo pane bianco.
Per ammirare il miglior panorama di Erzurum, tutti consigliano di salire sulla torre dell'orologio, ubicata nella cittadella eretta dall'imperatore Teodosio. Purtroppo la “kale” è attualmente in fase di restauro e dunque dobbiamo trovare un'alternativa per ammirare dall'alto questa bellissima città. Niente di più semplice: basta raggiungere un caffè sui tetti, possibilmente dotato di una grande vetrata dalla quale dare un ultimo sguardo a Erzurum. Dopo la pioggia continua della giornata, al tramonto il cielo si è schiarito e le montagne innevate si stagliano nitide dietro gli impressionanti minareti. E per quanto riguarda la casa di Ataturk (cittadino onorario di Erzurum, questo storico bastione alle porte dell'Anatolia orientale), sarà per un’altra volta.
Mardin, il balcone sulla Mesopotamia
Mardin non appartiene alla terra; è aggrappata al cielo. Precipita a Sud con torri, minareti e campanili, bombardata di luce bianca come la scogliera di un mare caraibico, arroccata sul precipizio - lungo centinaia di chilometri - che separa l’altopiano anatolico dalla piana dei babilonesi. Mardin, confine tra lo spazio totalitario dei nomadi-soldati (e delle donne infagottate) e la cultura degli agricoltori, città-sentinella che si affaccia sulle terre di Abramo. Da qui Gerusalemme è improvvisamente vicina; inizia un spazio più dolce, flemmatico, quasi mediterraneo, il mondo dei siriaci.
(Paolo Rumiz, “Gerusalemme perduta”)
Per una complessa serie di ragioni, alle 4 di mattina ci troviamo alla periferia di Mardin, presso la nuova stazione degli autobus. Chiusa. Per fortuna la luna piena rischiara il piazzale e la stazione vera e propria, entrambi deserti se non fosse per molti volatili urlanti e per un unico essere umano, che ci chiama un taxi. E meno male che ci siamo svegliate in tempo, altrimenti l’autobus ci avrebbe fatto scendere direttamente al capolinea: Cizre, l’ultima città del Kurdistan turco prima del confine con la Siria. Un anno fa l’avremmo trovata in preda alle devastazioni orchestrate dal governo contro i terroristi del PKK, ma adesso l’intera regione vive un periodo di tregua – ciò non toglie che, durante la notte, l’autobus sia stato fermato più volte agli inquietanti posti di blocco disseminati sulla strada.
Sebbene sia la settimana di Pasqua, c’è una camera libera in questo suggestivo hotel, ricavato da una residenza del 1200, nel centro storico di Mardin. Trattare con il receptionist è come al solito un’esperienza surreale, poiché ignora persino quel minimo di inglese utile a dare un nome a quello che sarebbe il suo pane quotidiano (camera, letti, colazione, prezzo). D’altra parte è un anno che quasi tutti i siti di prenotazione alberghiera sono bloccati nel paese, dopo che l’associazione delle agenzie di viaggi turche ha fatto loro causa per concorrenza sleale. Per inciso, anche wikipedia non funziona, mentre gli altri siti inaccessibili a ridosso del tentato golpe sono di nuovo disponibili.
In tarda mattinata i meravigliosi palazzi color miele di Mardin risplendono al sole con i loro merletti di pietra. Deliziosi localini e negozietti tappezzano la via principale, e sembra addirittura che ci siano altri turisti. I minareti e i campanili fanno capolino dal tortuoso labirinto di stradine, le case in pietra si ammassano a gradoni lungo il fianco della collina e poi, se si imboccano i vicoli laterali o si sale sulle terrazze, lo sguardo è libero di spaziare sulla sconfinata, verdissima pianura mesopotamica che ci circonda.
La sede del Museo di Mardin è un pregevole edificio di fine Ottocento ottimamente restaurato ed espone una collezione piccola ma ben allestita, che riguarda alcune civiltà tra le più antiche del mondo. Si organizzano molti laboratori per bambini e infatti una classe sta giusto uscendo quando noi arriviamo: ogni scolaro tiene bene in vista uno stendardo appena dipinto per farlo asciugare.
Nella via parallela a quella principale, tra i portici in pietra, si dipana il bazar. Un anziano signore, il cui viso meriterebbe molto più di questa semplice cronaca, ci invita a sedere su uno sgabello di fortuna e a bere il tè di fronte alla sua bottega, tra i sacchi di tabacco e varia chincaglieria. “Qui tutti i popoli convivono pacificamente: curdi, yazidi, turchi, cristiani, arabi." Si sforza di affermare in inglese suo figlio. "I love Isa (Gesù)” aggiunge, prima di regalarci un opuscolo in inglese sull'Islam, scovato chissà dove. Sulle pareti all'interno, le foto antiche del padre e del fratello, con bellissimi baffi ottomani. Mi sembra di essere in Siria: la stessa dolcezza dei sorrisi, gli stessi occhi buoni, le scritte in arabo, la curiosità di conoscere l’altro anche se non se ne condivide la lingua.
A Erzurum ci avevano detto che i curdi continuano a rompere le scatole, ma non ne avrebbero più motivo: ormai da anni hanno gli stessi diritti dei turchi, senza contare che l’ex presidente del consiglio era curdo e che molti sono parlamentari. “E poi non è vero che vogliono uno stato tutto per sé – aveva eccepito qualcuno – anzi, questo è il desiderio delle grandi potenze, che così avrebbero a che fare con un paese molto più debole da cui prendere il petrolio.”
Qui nel Kurdistan la musica è molto diversa: “Io vorrei parlare, vorrei scrivere ma non posso” ci sta dicendo questo agiato ed elegante commerciante. Stiamo bevendo l’ennesimo çay in una delle meravigliose terrazze di Mardin, affacciati sul verdissimo oceano mesopotamico, e ci sta illustrando la composizione etnica e religiosa dei villaggi vicini. “Qui la maggior parte dei voti li prende il Partito democratico dei popoli, che si batte per i diritti della minoranza curda, ma i sindaci di molti comuni adesso sono del partito del Grande Presidente - ci racconta - perché i legittimi vincitori delle elezioni sono stati ritenuti terroristi e rimossi dall’incarico. Anche io faccio parte dell’HDP, ma se lo dico posso passare i guai. Anzi a dire il vero sono già stato in galera per aver protestato, ai tempi in cui studiavo all’università sulla costa occidentale.” Da un paio di anni infatti la campagna del governo contro i curdi si è intensificata, da quando l’HDP, prendendo molti voti alle elezioni, ha superato l’elevata soglia di sbarramento necessaria per entrare in parlamento e ha sottratto molti consensi al partito del Grande Presidente. Per ottenere l'approvazione dei nazionalisti la potente propaganda governativa ha preso di mira tutti i curdi, praticamente raggruppati in un unico calderone di “terroristi” e nemici dello Stato: non solo il Pkk e il Tak (i Falchi della libertà del Kurdistan, autori di diversi recenti attentati), ma anche i curdi siriani del PYD-YPG e infine l'HDP stesso. Sono dunque partite indagini non solo contro i parlamentari, i funzionari, i sindaci, ma anche contro i semplici attivisti dell'HDP, accusati di avere rapporti con il PKK. “La Turchia non è una democrazia – sintetizza il nostro nuovo amico – e neanche gli insegnanti possono esprimersi liberamente contro il governo, se no perdono il lavoro”.
In questo storico hamam che risale all'epoca romana, a quanto pare dopo le 5 di pomeriggio l’utenza è mista. E infatti siamo le uniche donne nel locale, compresi lavoranti, massaggiatori e clienti. Nonostante quello che possa pensare la prestigiosa rivista americana “Forbes”, che ritiene la Turchia un paese pericoloso per le donne che viaggiano sole (alle quali consiglia di frequentare gli hamam soltanto durante l’orario a loro dedicato), nulla in questa esperienza ci fa sentire fuori posto. I due massaggiatori gemelli conducono in modo più che professionale lo scrub e il massaggio, che sono al contempo vigorosi e delicati. E anche gli altri avventori ci guardano con estrema naturalezza. Il relax finale avviene nell’antichissima sala centrale dove veniamo avvolte in un accappatoio e invitate a sdraiarci sui divanetti a bere un portocal (spremuta d’arancia), mentre tutti intorno fumano e guardano la televisione. Terminato “Survivor”, l’isola dei famosi turca, inizia il telegiornale, dove il Grande Presidente a quanto pare inveisce contro Macron per aver solidarizzato con il YPG.
Prima di andar via, l’inserviente ci tiene a condurci sulla terrazza, da cui si vede un panorama mozzafiato sull’ormai nota pianura della Mesopotamia. Anche lui si sente in dovere di affermare che qui musulmani, cristiani, yazidi ecc. vivono tutti in armonia. “Là è la Siria” aggiunge, dicendo in realtà "Suriye" e indicando col dito un punto lontano. Il nuovissimo muro realizzato per proteggere tutto il confine meridionale della Turchia da qui non si vede.
Di notte Mardin è di una bellezza commovente. Tutto è diventato giallo: i minareti, le vie strette, i palazzi antichi, l'antico castello che domina la città vecchia di questa Matera turca.
Il titolare dell’albergo, comparso per la prima volta la mattina seguente e per fortuna non totalmente digiuno di inglese, è così gentile da darci una camera da quattro letti nonostante fossimo solo in due. In quanto al prezzo, ci lascia la libertà di deciderlo noi. Stupito dal fatto che gli abbiamo proposto una cifra superiore a quella della camera doppia, e anche preoccupato dal fatto che possiamo permettercela (figuriamoci, 40 euro in due!), si offre di accompagnarci in macchina alla Kasimiye madrasah, che risale alla fine del 1400 e che lui ritiene l’attrattiva imperdibile di Mardin. Il portale scolpito, le due cupole che sormontano le tombe di Kasım Paşa e di sua sorella, il cortile circondato da un portico colonnato, la piscina centrale sono magnifici, ma la vera meraviglia è lo spettacolo intorno alla madrasa: siamo nel clou della fioritura dei tulipani e le porzioni rosse, gialle, rosa, bianche compongono un quadro indimenticabile sotto il cielo blu. Intorno lo sconfinato paesaggio collinoso brilla sotto ai cumuli bianchissimi. “Vedete quella zona lì, dove ora c’è una sola casa? È da lì che viene mio padre; negli anni ha fatto fortuna e ha comprato tutta quella terra.” Ci dice il proprietario dell’hotel indicando una vasta fetta di panorama, prima di risalire in macchina.
I Cristiani d'Oriente
La regione di Tur Abdin, la «montagna dei servi di Dio», è abitata da quasi due millenni dai cristiani siriaci o "Suryoye". Qui troviamo più di ottanta monasteri, il più importante dei quali è Dayr Al-Zafaran, per secoli residenza del Patriarca siro-ortodosso prima che fosse trasferito a Damasco.
Per arrivare al cuore del Tur Abdin non è una malvagia idea recarsi a Midyat, a un’oretta di distanza da Mardin. Il minibus ci lascia lungo una strada anonima ma noi sappiamo che nascosto da qualche parte esiste un suggestivo centro storico. Per certi versi sembra di aver fatto un balzo indietro nel passato, e questo non si può negare che dia al visitatore sempre un certo brivido: è come se egli (nella sua semplicità di turista) stesse viaggiando non solo nello spazio ma anche nel tempo. Tra le vie compaiono uomini dediti ad antiche professioni, anziani pastori, donne che vendono capi di lana fatti a mano, bambini impegnati in giochi neorealisti, caprette, mobili abbandonati, forni tandoori.
La terrazza di una delle case antiche color miele si affaccia su un ampio panorama nel quale si notano numerosi campanili. In città ci sono diverse chiese di rito siro-ortodosso, ma non in tutte si celebrano regolarmente le funzioni religiose visto che i cristiani oggi rappresentano meno del 10% della popolazione: “Quattro gatti dimenticati dalle convenzioni internazionali, gente che dalla storia ha preso solo bastonate” li definisce Paolo Rumiz, riferendosi alla profonda intolleranza di cui è stata oggetto la popolazione cristiana in tutta la regione. Durante la Prima guerra mondiale infatti molti cristiani siriaci, l’élite economica del paese, sono stati uccisi nel cosiddetto genocidio assiro (meno noto, ahimè, di quello armeno), mentre alla fine del secolo hanno subito attacchi dei curdi e dei turchi. Molti di loro sono emigrati all'estero, anche se negli ultimi anni alcune famiglie hanno iniziato a tornare a Tur Abdin.
Consumiamo il pranzo in una lokanta dove ci fanno mangiare da re senza avere praticamente nulla di pronto, se non la zuppa: l’agnello lo comprano dal macellaio (anche se avevamo ordinato pollo), il pane dal fornaio, l’insalata dal verduriere. Purtroppo al momento del tè ci informano che Mor Gabriel, il più antico monastero siro-ortodosso ancora attivo (situato sulla strada per Cizre) è chiuso, siamo dunque costretti a ripiegare sul meno noto monastero di Mor Hobil-Mor Gabriel, che si trova alla periferia di Midyat ed è raggiungibile a piedi. Inizialmente sembrerebbe sprangato anche questo cancello, ma poco dopo un ragazzino dotato di una grande chiave ci fa entrare. Ammiriamo le mura arrossate dal tramonto e poi gli arredi della chiesa, tra cui un tappeto murale su cui è raffigurata l'ultima cena e un mihrab trasformato in altare, e intanto il giovanotto ci riferisce compitamente che i siriaci sono solo seicento su 110000 abitanti a Midyat ma in tutta l’area ce ne sono circa seimila. Aggiunge che lui frequenta la scuola di aramaico, ed è inevitabile per me ripensare a quel ragazzino di Maalula, in Siria, che aveva recitato una filastrocca nella lingua di Gesù nei pressi del monastero di Santa Tecla. Prosegue il mio viaggio nella cristianità d’oriente, quello che avevo interrotto ad Antiochia presso la chiesa di San Pietro, e che ancora prima avevo compiuto in Siria fra Aleppo e Mar Musa. Penso a Padre Paolo, andato a trattare con l’ISIS e da quel momento sparito.
Un ragazzo curdo con i capelli rossi (un carattere molto diffuso in questa etnia) che sta tornando con noi verso la città, racconta che le cose vanno meglio ora: fino a quindici anni fa non potevano parlare la loro lingua in pubblico, né ascoltare la loro musica. A partire dal 2003 infatti sono state messe in atto molte riforme per portare la Turchia dentro i parametri imposti dall’UE, molte delle quali riguardavano il riconoscimento dei diritti della minoranza curda.
Una luna gigantesca sta salendo dietro ai mattoni rossastri e al campanile con la croce. Noi turisti, si sa, siamo gente ingenua, ci inteneriamo facilmente sa pensiamo che stiamo viaggiando nel tempo. Che sembrerebbe di essere tornati a quando l'Europa era pagana e questa parte di mondo era cristiana. E che questo, in pratica, è il più antico cristianesimo del mondo.
Naturalmente anche a Mardin ci sono dei luoghi di culto siriaco-cattolico: caso vuole che l’indomani sia la domenica di Pasqua, così possiamo accertarcene personalmente recandoci alla messa nella Chiesa dei Quaranta Martiri. Come già mi era capitato di notare in Siria, i fedeli sono abbigliati in maniera molto poco spirituale: profonde scollature, gonne aderenti, tacchi vertiginosi, gioielli appariscenti, bambini in frac e bambine vestite da principesse con giacchini di pelliccia. Anche il sacerdote indossa un prezioso abito colorato, con una colomba bianca ricamata dietro il collo. Alle pareti i quadri, bellissimi e inquietanti, hanno qualcosa di etiope. Tranne l’omelia che è in turco, il resto della funzione viene recitata in un dialetto dell’aramaico; al momento della comunione, le persone in fila danno un bacio al grande libro sacro e poi mangiano alcune briciole di pane. Infine all'uscita vengono distribuite delle ciambelle al sesamo ancora calde.
Mi piange il cuore a lasciare Mardin in questa dolcissima domenica primaverile, mentre le campane suonano e il sole rende ancora più biscottati gli antichissimi palazzi medievali. Ci facciamo incartare un quadro che raffigura Şahmeran, affascinante creatura mitica metà donna e metà serpente, e raggiungiamo in fretta l'aeroporto, dove scopriamo che il volo è in solenne ritardo.
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