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La terza megalopoli kazaka
Scendere dall’aereo atterrato a Shymkent è un'operazione alquanto ansiogena; i kazaki, infatti, hanno questo brutto vizio di affrontare le situazioni affollate con il proverbiale coltello tra i denti. La contrattazione con il tassista è concitata, in meno di un minuto passa da diecimila a cinquemila tenge, ossia dieci euro – che sono comunque tantissimi se si considera che la benzina costa l’equivalente di 50 centesimi di euro. La velocità di crociera è sostenuta; dal finestrino scorrono alberghi e locali enormi e illuminatissimi. L’hotel è di altri tempi, la stanza è molto spaziosa con tanto di salottino e perfino il bidet; inoltre costa solo venti euro e hai diritto a tenerla per 24 ore. Mi vado a procacciare un pane tondo nell'unico negozietto aperto lì vicino e il gestore tira subito fuori il traduttore, sorridendo.
Shymkent fu fondata nel Medioevo come caravanserraglio lungo la Via della Seta e si trova molto vicino al confine con l’Uzbekistan, con cui condivide una buona parte della sua storia; una nutrita fetta della popolazione ancora oggi è di etnia uzbeka, anche se in netto calo rispetto al passato. Nel periodo sovietico era una città industriale, famosa soprattutto per la produzione di piombo, mentre recentemente fa parte di un programma di sviluppo, intrapreso dall'ex presidente Nazarbaev, che la promuove come "terza megalopoli kazaka": gli abitanti sono diventati più di un milione e nuovi quartieri sono in costruzione.
Il Parco dell'Indipendenza, inaugurato nel 2011, celebra le tappe più importanti del Kazakistan e i suoi valori, come ad esempio l’impegno per il disarmo e l'unità del popolo, composto da 137 nazionalità che vanno d'amore e d’accordo. Le numerose composizioni floreali provengono dai Paesi Bassi, mentre le varie strutture sono realizzate in granito rosso. Sul piedistallo del portabandiera alto 50 metri appare l'emblema del Kazakistan, tutto dorato, al centro del quale campeggia l'immagine di uno shanyrak (la punta superiore di una yurta), racchiuso fra le ali dorate di due cavalli mitologici. Nella parte inferiore dello stemma si trova il nome del paese in caratteri dell’alfabeto latino, QAZAQSTAN, che sta soppiantando il nome in caratteri cirillici. Siccome lo stemma conserva alcuni elementi di quello sovietico, il presidente Tokayev ha recentemente annunciato che sarà presto cambiato. Per quanto riguarda l'attuale bandiera, invece, su uno sfondo azzurro campeggia un'aquila della steppa (probabilmente associata all'impero di Gengis Khan) posta sotto un sole dorato, mentre sul lato c'è un "ornamento decorativo nazionale" che rappresenta le tradizioni artistiche e culturali del vecchio khanato kazako.
Il Museo delle vittime della repressione politica si trova lungo il parco Abay, di fronte al monumento con la fiamma eterna, e sta per chiudere; ciononostante l’impiegato non solo ci permette di visitarlo, bensì ci tiene a fornirci una serie di spiegazioni barcamenandosi con quel po’ di inglese che sa e poi ricorrendo come sempre al traduttore online. L’obiettivo del museo è perpetuare la memoria delle vittime del terrore sovietico durante la prima metà del XX secolo, quando oltre un milione di kazaki morirono a causa della carestia e altri milioni furono deportati nelle inospitali steppe di tutta l'ex Unione Sovietica; lo stesso Kazakistan ha ospitato almeno 11 campi Gulag e centinaia di sottocampi dagli anni '30 alla fine degli anni '50. Al centro della sala principale campeggia un'inquietante e articolata scultura che rappresenta la prigionia, il dolore e la morte, circondata da moltissimi nomi, immagini e storie delle vittime. Per completare la descrizione, userò le parole (tradotte automaticamente) di una recensione che ho letto su Google: “Una visita al museo lascia profonde emozioni nell'animo. Il governo sovietico è probabilmente l’unico nella storia che ha trattato i suoi cittadini in modo così disumano. Al piano terra si trova una composizione scultorea che trasmette tutto il dolore e la sofferenza della gente in quegli anni. Ci sono figure di cera raffiguranti la repressione della rivolta con il fuoco delle mitragliatrici e l'interrogatorio con tortura. Al secondo piano ci sono cartelli con i nomi dei residenti repressi del Kazakistan meridionale. P.S. Probabilmente tra molti decenni esisterà un museo dedicato alle vittime della repressione dell'attuale governo.”
Pranziamo in un ristorante uzbeko, sedute nella classica capannina in legno, e poi attraversiamo il mercato scherzando con alcuni venditori. Per andare a Turkestan, il receptionist ci ha trovato un’auto a soli 9000 tenge (meno di quanto abbiamo pagato per il taxi dall’aeroporto) e solo in seguito abbiamo arguito che aveva utilizzato l'app di ride-hailing che si chiama Indrive e che qui va alla grande. Scoperta la nostra provenienza, l’uomo al volante scrive “italyanskiy music” su youtube e da lì parte una mezzoretta di calvario in cui siamo costrette ad ascoltare i Ricchi e poveri, finché l’algoritmo non si decide a cambiare genere.
Racconto di viaggio completo: "ESPOSIZIONE UNIVERSALE. Viaggio in Kazakistan meridionale"