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Mangystau: in viaggio con Olga

Aktau, ore 9 del mattino. La Toyota Prado bianca è carica di cibo, acqua, tende e tutto il necessario per campeggiare nella sconfinata steppa del Mangystau, un’area di circa 160000 chilometri quadrati situata nella parte occidentale del Kazakistan, parzialmente sotto il livello del mare. In vista delle elevate temperature tipiche del mese di luglio, Sergey indossa una tuta mimetica non bellissima ma estremamente funzionale, in quanto è realizzata in un tessuto leggerissimo che protegge dal sole, ma essendo fittamente traforato lascia il corpo praticamente nudo. Sergey è un driver esperto, una guida preparata, un ottimo cuoco e un ragazzo dal cuore d’oro, ma purtroppo non parla inglese, dunque usa un traduttore offline dal russo, che presenta evidenti lacune in quanto a sintassi e lessico, ma si dimostrerà capace di creare delle vere e proprie poesie dadaiste.
Ci avviamo verso il nord-ovest e in meno di due ore siamo a Kanga Baba: due coreografici cavalli al galoppo ci guidano al sito, una necropoli che secondo il cartello risale ai secoli XIV-XIX. Disseminate nel terreno vi sono centinaia di lapidi funerarie, sia steli lavorate a motivi geometrici, sia piccole strutture in pietra a volte decorate con corna, sciabole o parole del Corano: Sergey ci mostra una foto a colori spiegandoci che in epoca pre-islamica molte di esse avevano la forma di animali, ma che poi l’iconoclastia ha fatto sì che venissero rimosse teste e zampe. Non avendo trovato da nessuna parte conferme di questo fatto, non posso escludere del tutto che Olga (come è stata prontamente soprannominata la voce femminile del discutibile traduttore offline) abbia tradotto a cazzo. Il cimitero poco tempo fa era ancora in uso, come si deduce da alcune tombe recenti, mentre dell’adiacente moschea di Makhtum Baba rimangono solo i muri e le colonne. A un certo punto Sergey ci mostra un disegno realizzato da Taras Shevchenko quando visitò la necropoli nel 1851. Il celebre poeta e pittore a cui per alcuni anni fu intitolata Aktau era ucraino, ma trascorse sette orribili anni nel carcere di Novopetrovsk, città che oggi in suo onore si chiama Fort Shevchenko e si trova a pochi chilometri da qui. Quando uscì di prigione fu assegnato ad una spedizione geologica qui nel Mangyshlak e in quella occasione realizzò una serie di schizzi e disegni di quella che definì "una terra maledetta da dio". La costruzione di questo complesso è collegata alla presenza di una diramazione secondaria della Via della seta che proveniva dalla Corasmia, nonché di una sorgente di acqua dolce e di un boschetto di gelsi, uno dei quali è ancora visibile oggi circondato da svariati cespugli di menta selvatica.
Giunti presso la penisola Dzhigalgan, una terrazza panoramica affacciata sul bluissimo Mar Caspio ci accoglie per il primo pranzo del tour. Sulla tavola non possono mancare pomodori, cetrioli e peperoni tagliati a fette, pane, tè, biscotti e caramelle. Poi, a seconda dei giorni, vengono aperti pacchetti di plastica sottovuoto che contengono salumi e formaggi oppure pezzi di pollo già cotto. Ricordo bene la stessa commistione di dolce e salato sulle tavole kirghize, e anche al ristorante di Aktau, la prima sera, dove ho notato due commensali che prima hanno ordinato cappuccino e torta e dopo, quando ancora una parte di dolce era nel piatto, una pizza.
Mentre mangiamo, Sergey ci spiega che sta lavorando tantissimo perché ha avuto molte spese: “Quest'anno mi sono messo di piani molto grandi e ho comprato un appartamento, ho comprato un’auto ed è molto denaro, ha bisogno di chiudere tutto.” I suoi bambini sentono molto la sua mancanza e a lui dispiace, però quest'anno deve darsi da fare. “L'anno prossimo trascorrerò il tempo con la famiglia. Dobbiamo svolgere tutti i compiti e poi ci riposeremo.” Fin qui l’affidabilità di Olga non è il massimo, ma come sempre a un certo punto arriva una massima di grande profondità: “Se non facciamo piani molto alti non saremo in grado di capire di cosa siamo capaci.”
Dopo pranzo scendiamo a piedi nell’ampio anfiteatro erosivo circondato dal mar Caspio: il ripido dislivello geologico secondo qualcuno è stato creato da un fortissimo terremoto, secondo altri dall'inumidimento dello strato di argilla e sabbia presente sotto lo strato calcareo. In ogni caso, “dzhigalgan” in kazako vuole dire “caduto” e a quanto pare le frane geologiche sono ancora in corso. All'interno del territorio collassato possiamo osservare grotte, pietre funerarie, fossili antichissimi e, su alcune pareti rocciose, orme fossilizzate di animali preistorici, come cavalli e felini ormai estinti. Infine, nel punto più basso del nostro percorso, appare un delizioso laghetto a forma di cuore.
La prossima tappa è la moschea Shakpak-Ata, un’affascinante struttura scavata nella montagna accanto alla necropoli medievale omonima, dove gli agenti atmosferici hanno ricamato la roccia chiara a forma di merletti e spugne. Innumerevoli incisioni raffigurano impronte di mani, cavalli, scene di battaglia e motivi decorativi botanici, mentre le iscrizioni in arabo, persiano e turco (in particolare delle poesie sufi sulla caducità della vita umana e sulla malvagità del mondo) sono state decisive per datare il complesso ai secoli XIV-XVI, all’epoca del khanato dell'Orda d'Oro. La moschea prende il nome da un leggendario derviscio, famoso per la sua capacità di produrre scintille semplicemente sfregando le unghie l'una contro l'altra: Shakpak si era rifugiato in una delle grotte della necropoli e poi fu in grado di fuggire dai nemici dopo essere stato decapitato, lasciando durante la fuga le sue impronte sulle pietre. Una storia molto simile mi era stata raccontata a Samarcanda, presso il complesso funerario di Shah-i-Zinda, e riguardava il mitico “re vivente” che scappò con la sua testa sotto il braccio. Se crediamo al folklore popolare, questo luogo può curare tutte le malattie, dormendoci dentro o semplicemente toccando la roccia. Dopo aver visitato l’interno della moschea vera e propria, costituita da quattro camere raggruppate attorno a una stanza centrale con volta a cupola, saliamo sul tetto che si affaccia sullo sconfinato panorama. L’imperturbabile voce di Olga ci invita a fermarci e riflettere: “E ora sediamoci qualche minuto per pensare il bene per il bene migliore”. Se ci fosse stato Giovanni Lindo Ferretti, avrebbe sicuramente intonato alcuni versi di “Depressione caspica”: “Io in attesa a piedi scalzi e ricoperto il capo, canterò il vespro la sera”.
Il Canyon Kapamsay lo guardiamo dall’alto, dove è stata posizionata una cornice gialla per fare le foto. Un cartello ci informa che questa gola ha una lunghezza di circa 2,7 chilometri e che le “scogliere di gesso” raggiungono in alcuni punti i 70 metri. Nel canyon un tempo scorreva un fiume, mentre oggi ci sono delle grandi rocce e, sul fondo, un'oasi verde, creata dall'acqua piovana e protetta da una grotta.
Il primo campo lo montiamo nel canyon Shakpaktysay, il più grande della zona, non prima però di aver fatto una breve sosta in un luogo molto ameno vicino a una mandria di cammelli. Non avevo mai sentito parlare dell’aggressività di questi animali, ma quando il più alto di tutti ha cominciato a correre nella nostra direzione ci siamo arrampicate col cuore in gola sulle rocce più vicine, bianchissime e meravigliosamente lavorate dal vento. Ci siamo convinte a scendere solo quando è arrivato Sergey, il quale ci ha bonariamente deriso per la nostra infondata paura. Pochi quarti d’ora dopo le tende sono montate, il pesce sta cuocendo in padella, le patate stanno a lessare e qualche birretta della scorta personale di Sergey è stata condivisa.
Durante la cena Sergey torna a raccontarci la sua attività e ci spiega che anche la moglie, pur avendo un buon lavoro, a volte porta i turisti insieme a lui: “Quando succede, quando non può lasciare bambini bassi o alcuni altri problemi, va il mio amico” sono le parole piuttosto arcane che pronuncia Olga. Poi aggiunge: “Stanno arrivando un sacco di italiani e un sacco di russi, voi così l’Italia raccontare di me”, che praticamente significa che dobbiamo fargli pubblicità, cosa che faremo con molto piacere.
Le rocce bianche cambiano colore con il calare del sole; qualche nitrito proviene da una mandria di cavalli in lontananza, dall’alto dei versi di animali che non riusciamo a identificare. Si dorme decentemente, all’alba un pungente freschetto invita addirittura ad entrare nel sacco a pelo.

La mattina ci alziamo come sempre verso le otto, facciamo colazione e ci mettiamo in auto diretti a Occidente; passiamo per il villaggio di Tauchik e raggiungiamo la prima “posizione” (come direbbe Olga), ossia Torish, la valle delle sfere. Questa località potrebbe benissimo trovarsi su Marte e fa impressione pure se la vedi su google maps, infatti è cosparsa di centinaia di rocce sedimentarie sferiche, alcune con un diametro superiore ai due metri. I ricercatori ritengono che si tratti di concrezioni o megasferuliti, ossia sfere cristalline formate da cenere vulcanica esposte a molti millenni di agenti atmosferici, mentre secondo il folklore degli Adai (il gruppo etnico originario di questa regione) sarebbero degli invasori a cui è andata male e sono stati congelati da un potente santo locale. Sergey va a caccia di conchiglie fossili, una delle sue passioni: la presenza di organismi marini fossilizzati dipende dal fatto che il Mangystau centinaia di milioni di anni fa era il fondo marino dell’oceano Tetide; poi progressivamente le acque si sono prosciugate e nel corso del tempo si è formato l’insolito paesaggio che oggi ci affascina tanto.  
Da queste parti ci dovrebbe essere il set cinematografico del film "Waiting for the Sea" del regista tagiko Bakhtyar Khudojnazarov: è la storia di uno skipper che, una volta rilasciato dal carcere, torna al porto e scopre che il mare è scomparso e tutto ciò che rimane è un vasto deserto sabbioso su cui sono poggiati gli scafi arrugginiti delle navi. In pratica è stato ricreato in Kazakistan il vero paesaggio che c’è a Moynaq, in Uzbekistan, che in passato sorgeva sulla riva del lago d'Aral.
Dopo una sosta al supermercato del villaggio di Shayyr, ci dirigiamo a Kokkala (la “fortezza verde”), dove allestiamo il pranzo. In questa gola multicolor si trovano facilmente fossili di carbone, che dimostrano che centinaia di milioni di anni fa c’era una foresta dove vagavano i dinosauri. La natura ha sorprendentemente eroso gli strati di argilla, creando bizzarre incisioni sulla montagna stratificata. “Strati grigi di diversi colori, più scuro più scuro a carbone disponibile, in modo che siano di questo colore” chiosa Olga con il suo solito ermetismo dadaista. “Dopo la montagna abbiamo l'ultima posizione dove dormiremo con voi. Prima di questa posizione sarà possibile entrare in minivillaggio e nuotare, costa 1000 tenge a persona”, con queste parole invece Sergey vuole darci la bella notizia che potremo fare una doccia.
Quando arriviamo in prossimità di Sherkala (la “fortezza del leone”) il nostro driver ci comunica con una sintassi un po' pleonastica che “da questo lato della montagna che assomiglia alla parte destra del leone della montagna come la testa del leone”, mentre se vista da un’altra angolazione ha la forma di una yurta. Ci accostiamo dunque alla montagna a forma di leone per scoprire che un tempo qui c’era una città che serviva come tappa per i commercianti che viaggiavano da regioni lontane: “Erano i tempi del sentiero della Seta. C'era una fortezza qui che difendeva questa città. Sulla montagna poteva salire solo da un unico posto, la gente della montagna avevano acqua, potrebbero difendersi per mesi. C'erano solo archi e lance.” Quella città oggi non c'è più: a sentire Olga avevano usato l’argilla, per cui “non ha vissuto fino ai nostri anni; erano fragili quindi non sono sopravvissute. C’erano migliaia di persone nel quinto secolo, ma non è rimasto più niente.” Per quanto riguarda le grotte che vediamo accanto a noi, Sergey ha fatto “un esperimento, quando la gente era nella grotta: sono andato nella steppa e ho detto con calma con una voce del genere; mi hanno sentito bene. Queste grotte fungono da suono di notte.” Insomma, una specie di telefono. “Leggenda narra che completare un giro completo di Sherkala fa sì che i tuoi desideri diventino realtà”. Il giro della montagna non lo facciamo, anche perché fa un caldo cane e non vediamo l’ora di farci la doccia nel camping di yurte. Debitamente rinfrescati, raggiungiamo Akmyshtau, la "valle dei castelli" secondo la definizione di Shevchenko, circondata da cinque montagne modellate da potenti processi erosivi. Sergey ci mostra un altro disegno realizzato dal poeta pittore all’epoca della già citata spedizione, che raffigura una di queste montagne: le colonne modellate dal vento la rendono simile a un antico tempio.
Montiamo il campo in un meraviglioso punto panoramico dell’Airakty Shomanay, circondato da creste rocciose e imponenti guglie. In un impeto di romanticismo, di fronte al sole che sta illuminando di rosso questo set di un film di fantascienza, Olga scandisce: “L’auto sta impedendo una vista così bella: spostiamo il tavolo e facciamo una cena al tramonto”. A causa del forte vento infatti l’auto era stata messa di traverso, ma da lì ci avrebbe impedito di guardare il panorama. La cena è come sempre squisita, lo spettacolo delle montagne ci lascia senza fiato, l’unico problema sono le migliaia di cavallette. “Presto non ci sarà bisogno di un interprete” afferma ridendo Sergey, che sta imparando qualche parola di italiano. “Per incontrare espansioni sconosciute” aggiunge con oscure parole Olga.

A parte la sosta al villaggio di Shepte per il rifornimento di viveri e gas, e a parte la breve ma piacevole passeggiata in una gola formata da tanti fogli rocciosi grigio scuro, la giornata odierna è dedicata ad uno dei paesaggi naturali più riconoscibili e visitati del Mangystau, il meravigliosissimo lago salato Tuzbair, che si estende per 15 km lungo il bordo occidentale dell'altopiano di Ustyurt ed è situato a circa 60 metri sotto il livello del mare. La prima vista panoramica spazia sulle ripide scogliere dai contorni levigati che si gettano nella sconfinata palude salmastra, bianca come la neve. Sergey raccoglie un sacco di fossili di ricci di mare e poi ci prepara il pranzo in un anfratto di roccia candida. “Se continuiamo a buttarlo fuori capisco che questo corpo creerà un enorme ohoh” sono le enigmatiche parole di Olga. Preghiamo Sergey di fare frasi più brevi al fine di rendere la comunicazione più efficace e lui, ubbidiente, promette: “Cerco di dividere il testo.”
Nel successivo punto di avvistamente notiamo in lontananza una specie di gazzella del luogo, che purtroppo galoppa via non appena si accorge della nostra presenza. Successivamente scendiamo al livello del lago, percorribile solo da autisti esperti come il nostro. C’è sempre musica nell’auto di Sergey: canzoni di rock pesante in lingua russa, hip hop americano, ma anche artisti discutibili come gli Enigma e Sandra, che negli anni Ottanta e Novanta inspiegabilmente hanno avuto un certo successo. È con questa imprevedibile colonna sonora che, sobbalzando nella Prado, ammiriamo le stupefacenti opere d’arte che l’erosione ha compiuto qui: a me vengono in mente le statue di Vigeland che ho visto ad Oslo l’anno scorso, a qualcun altro dei palazzi birmani.
Montiamo il campo in un angolo riparato, dove ben presto arriva l’ombra. La presenza delle mosche è davvero fastidiosa, almeno finché non calano le tenebre. Sergey dimostra un'eccezionale indulgenza nei confronti di questi insetti, che – poveretti – non incontrano molte forme di vita in questa stagione: “Siamo l’unica fonte d'acqua per loro di un’altra acqua qui.” In altri periodi dell'anno i turisti sono molto numerosi. D'inverno c’è una tenda dedicata alla cucina, mentre ora il fornello è posizionato all’aperto, protetto dalla jeep: “Con questo tempo sarà molto caldo cucinare dentro” spiega la servizievole Olga.
Sergey comincia a preparare la cena e stappa la prima Efes. “Ci sarà sempre un po' di birra nella mia pancia” traduce Olga senza riprodurre la risata che aveva accompagnato la battuta. Gli chiediamo come ha conosciuto sua moglie, una bella ragazza bionda che abbiamo visto in foto: “Siamo andati nella stessa scuola. Si ricorda di me quando ero piccolo e non me la ricordo.” Qualunque cosa vogliano dire queste parole, quel che è certo è che si sono conosciuti a 18 anni e poi sposati a 21.
Facciamo una sognante passeggiata sull’immensa distesa di sale, il tramonto arrossa l’orizzonte, le rocce gessose sono stupefacenti. Stanotte fa più caldo del solito. La mattina il sole arriva presto e scotta per cui dobbiamo smontare in fretta e furia il campo. “Tu con lo sguardo eretto all’avvenire Fisso al sole nascente ed adirato all’imbrunire” avrebbe detto Giovanni Lindo Ferretti in duetto con Olga.

Il tragitto per andare da Tuzbair a Bozzhira è un lunghissimo fuoristrada che fa divertire moltissimo Sergey. All’ora di pranzo ci troviamo su una strada asfaltata dove sono posizionate alcune capannine dotate di tavoli, simili a fermate per aspettare autobus inesistenti, e dove incontriamo alcuni turisti. Le postazioni sono state create perché questo tratto di strada si affaccia sulla valle dove sorgono due formazioni iconiche del Mangystau: la gola di Kyzylkup e il monte Bokty, che per il momento possiamo avvistare solo da lontano, tra l’altro sotto un cielo molto nuvoloso. Inoltre da qui si passa per andare alla famosa moschea di Beket Ata, importantissimo luogo di pellegrinaggio che però purtroppo non fa parte del nostro tour: “c’è abbastanza da vedere in trenta giorni”, commenta Sergey, per dire che in cinque giorni non possiamo vedere tutto. Alla fine del solito pranzo finalmente assaggiamo la buonissima ricotta dolce che avevamo comprato al supermercato e anche l'halva, il tipico dolce mediorientale, che in questo caso è a base di semi di girasole e non di sesamo. Di fronte all’ennesimo equivoco creato dal traduttore offline, Sergey finalmente ammette che “Olga con l’italiano ha dei problemi”, anche se “è davvero il miglior traduttore che conosco e che esista offline.”
Con la palude salata pensavo di aver visto il non plus ultra del Mangystau, ma quando siamo arrivati al primo punto panoramico sopra la valle di Bozzhira capisco che non è così. A causa di questi straordinari pinnacoli, guglie e creste rocciose, molti l'hanno considerata la versione kazaka della Monument valley, ma percorrendola tutta a me vengono in mente anche le ambe, le montagne piatte del nord dell’Etiopia, nonché le Meteore in Grecia, monasteri costruiti in cima alle montagne, perché è proprio questo che sembrano alcuni rilievi della zona: costruzioni realizzate dall’uomo. Avanzando nella valle poi appaiono scenari così bianchi che pare neve, e a un certo punto mi sembra di stare dentro a un ghiacciaio e poi, quando appaiono praticamente le tre cime di Lavaredo, nelle Dolomiti.
Anche il luogo dove montiamo l’ultimo campo è una meraviglia pennellata dal sole che finalmente scende, alleviando lievemente l’afa. Le temperature sono salite terribilmente col passare dei giorni, è l’ultima sera e c’è ancora abbastanza acqua, così Sergey ci propone di farci una specie di doccia en plein air. Stasera ci cucinerà il besbarmak, il piatto nazionale kazako. “Cucinare cibo semplice molto veloce, ma penso che sia meglio aspettare e mangiare cibo delizioso, quindi mi dispiace per una lunga cena” fa dire a Olga per giustificare il fatto che la preparazione impiegherà molto tempo. La stessa pentola in ghisa verrà utilizzata prima per cucinare la carne, poi per bollire patate e carote e infine per lessare la tipica pasta kazaka che farà da letto agli altri ingredienti, quando sarà collocata nel piatto di portata. Apprezziamo la filosofia e intanto beviamo la consueta birra Efes come aperitivo. “Mio nonno diceva sempre che se fai qualcosa che è dal cuore se non lo fai di cuore in cuore, allora è meglio non farlo mai. Quindi tutto quello che faccio sempre con amore” prosegue Olga con quell’afflato poetico che ormai abbiamo cominciato a conoscere e ad apprezzare tanto. “Siamo soli qui. In primavera, aprile e maggio avere molte persone qui.” E in effetti, in quattro giorni molto di rado abbiamo scorto altri turisti.
Finito di mangiare il piatto nazionale, delizioso, Sergey dice e Olga traduce: “Il mio amico mandato una foto di questo ragno, ricordare? L'ha preso nel suo garage.” Noi ricordiamo. “Abbiamo il ragno più pericoloso al mondo sul campo che si chiama la sua morte nera”. La notizia non è delle più rassicuranti, ma Sergey ci dice di non preoccuparci: “Se ora mi sdraierò sulla terra nessuno si rifugerà in me. Non siamo cibo per loro. In modo da non avere bisogno di prendere il panico: solo controllare.” Tiriamo un sospiro di sollievo, ma poi Olga ci mette nuovamente in allarme quando scandisce: “L'ultima volta c'erano un sacco di ragni durante il tour e quindi appena abbiamo spento le luci hanno corso intorno a noi.” E poi aggiunge in modo sibillino: “Ma non l'abbiamo visto e quindi non li abbiamo temuti. Se ci fossero ragni sarebbe già significa che il reggimento non ha paura. Ed ecco le borse e le scarpe meglio rimosse.” Quest’ultima raccomandazione è comprensibile, così raccogliamo le nostre proprietà e le andiamo a stipare dentro la tenda. “Non posso parlarne, dovresti saperlo” sono le ultime, misteriose parole di Olga. “Assomiglia all’ingenuità la saggezza” avrebbero chiosato i CCCP.
Anche se stasera non mettiamo la copertura alle tende, il calore insopportabile che sale dalla terra non mi fa chiudere occhio. Invidio Sergey che dorme sul tetto della jeep.

L’ultimo giorno del tour dura meno del previsto. Sarà che oggi si superano i 40 gradi, sarà che abbiamo un volo nel tardo pomeriggio e non possiamo rischiare di perderlo, sarà che Sergey vuole approfittare per riposarsi un po’ prima di ripartire con un nuovo gruppo, fatto sta che alle 3 siamo già a casa sua. Nonostante ciò abbiamo visto uno dei posti più belli di tutto il Mangystau, che se la gioca con Bozzhira: la gola di Kyzylkup, una serie di colline piatte a strati di diversi colori (tra cui il bianco del gesso e il rosso del ferro) che gli hanno fatto guadagnare il soprannome di "montagne tiramisù". “Questo posto è formato un reggiseno grazie ad un grande corpo d'acqua dove c'era acqua rossa” sostiene Olga incurante del nonsense appena pronunciato. Poi però aggiusta il tiro: “Linee perfettamente piatte che potrebbero essere fatte solo grazie all'acqua”, in pratica un tempo c’era un bacino idrico che poi si è ritirato creando questo affascinante spettacolo, che per fortuna possiamo ammirare sotto un cielo perfettamente azzurro in cui si affollano tante piccole nuvolette bianche.
A poca distanza c’è il monte Bokty, anch'esso costituito da rocce gessose di diversi colori, raffigurato sulle banconote da 1000 tenge. A poca distanza ci fermiamo per andare alla ricerca dei denti di uno squalo preistorico estinto, ma solo Sergey ha il coraggio di passare mezz'ora sotto il sole cocente a fissare il suolo. Comunque posso testimoniare in prima persona che i denti ci sono davvero e che si possono trovare facilmente guardando per terra.
A questo punto prendiamo la via del ritorno: le dune Tuyesu, vicino alla cittadina di Senek, non riscuotono grande entusiasmo. L’altra sosta infernale serve ad osservare la Depressione di Karagije, a - 132 metri sotto il livello del mare, il punto più basso e bollente dell'Asia centrale. Man mano che ci avviciniamo ad Aktau, compaiono migliaia di pompe petrolifere e poi i tipici tubi di distribuzione del metano per la rete domestica.
Sergey ci invita a casa sua, dove troviamo il classico tavolo kazako pieno di caramelle, biscotti, samsa (rustici ripieni di carne e cipolle) e naturalmente litri di chai. Conosciamo anche i bellissimi bambini e dopo le classiche foto insieme siamo pronte per andare all’aeroporto.
“Cinque giorni sono volati in un lampo” sono le commoventi parole di Sergey, per una volta perfettamente tradotte da Olga; se non fosse per la frase successiva, un ennesimo messaggio criptico ma geniale nella sua astrusità: “La ferita, per coltivare i baci, la devi lasciare”.

Racconto di viaggio completo: "ESPOSIZIONE UNIVERSALE. Viaggio in Kazakistan meridionale"