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Aktau, la città atomica

È l’alba e l’aereo decollato pochissime ore prima da Istanbul sta per atterrare. Sorvoliamo una sottile striscia di terra che separa il mar Caspio da un laghetto costiero, poi il territorio arido prende il sopravvento e appaiono migliaia di case organizzate in ordinati, giganteschi reticolati, tutti dello stesso colore del suolo. Dopo il coloratissimo lago Koshkar-Ata, ecco finalmente le piste di atterraggio dell’aeroporto di Aktau.
Sono venuta nell’estremo occidente dell'immenso Kazakistan per visitare questa regione misteriosa che si chiama Mangystau e fa parte della Depressione caspica, quella “pingue immane frana” di cui cantavano i CCCP. Sergey, che sarà la nostra guida in un tour di cinque giorni, viene a prenderci all’aeroporto per condurci in albergo.
Inizialmente il tragitto è costituito da un lunghissimo rettilineo circondato dal nulla, dove avvistiamo i primi cammelli e cavalli, veri o finti che siano. Quando cominciano ad apparire i palazzi, apprendiamo a grandi linee la storia di Aktau. Negli anni Cinquanta questa penisola era soprannominata "la terra delle mille strade", poiché ogni guidatore aveva il proprio percorso preferito. La regione del Mangyshlak era spopolata non tanto a causa del clima, quanto per la campagna di collettivizzazione e sedentarizzazione di Stalin, che all'inizio degli anni Trenta aveva sradicato o eliminato quasi del tutto la popolazione nomade locale. La città di Aktau nacque solo in seguito alla scoperta dei primi giacimenti di petrolio e di uranio. Nel tempo hanno cominciato ad estrarre anche lo scandio, sono state realizzate le centrali elettriche a petrolio e gas e il fondamentale impianto di desalinizzazione alimentato dall’energia nucleare, mentre il porto è diventato sempre più importante per la spedizione del petrolio. Intanto furono trasferite qui persone da tutti gli angoli dell’Unione Sovietica e si cominciarono a costruire i palazzi che ancora adesso possiamo vedere.
La propaganda sovietica dipinse il Mangyshlak come un luogo di “amicizia fraterna” in cui i rappresentanti di tutte le nazionalità sovietiche si erano uniti in uno “sforzo eroico” per conquistare questo deserto inospitale e sviluppare la periferia dell’URSS grazie alla tecnologia. Come in tutta l'Unione Sovietica, la linea di condotta era l’assimilazione delle diverse nazionalità nella cultura russa e l'esaltazione della lingua russa come fattore per rafforzare il patriottismo, ma in realtà c’era un’enorme disuguaglianza economica tra gli immigrati altamente qualificati che andarono a vivere in città e la popolazione kazaka, assolutamente minoritaria, che viveva nelle baraccopoli ai margini della società. Non a caso nel giugno del 1989 vari disordini nazionalisti scoppiarono a Novyi Uzen’ (oggi Zhanaozen) e nelle periferie kazake svantaggiate di Shevchenko (oggi Aktau) e di altre città, che causarono la fuga o l'evacuazione di circa 16.000 caucasici. Il motivo principale delle rivolte non era collegato tanto alle relazioni interetniche in sé, quanto all'iniquità dello sviluppo socioeconomico della regione, che è poi una cosa piuttosto ironica se pensiamo che l'equità, sulla carta, sarebbe dovuta essere una delle priorità del sistema economico sovietico.
Dopo l'indipendenza dall'URSS cominciò un esodo di massa della popolazione "straniera", seguito dal rimpatrio dei kazaki che stavano affrontando animosità nazionaliste nelle repubbliche vicine dove vivevano – un processo che è avvenuto in tutto il Paese, modificandone radicalmente la composizione etnica. Oggi Aktau conta circa 180.000 abitanti, in maggioranza kazaki, e dozzine di società di estrazione di combustibili fossili, infatti la sua economia si basa quasi interamente sulla vendita del petrolio estratto lungo le coste orientali del Mar Caspio e ci sono numerose raffinerie, oleodotti e torri di conservazione, oltre a diverse acciaierie.
Dopo un necessario riposino, dedichiamo qualche ora alla visita della città. Mentre ci dirigiamo verso la moschea Beket Ata, incappiamo nella statua dedicata a Kashagan Kurzhimanuly, celebre rappresentante della letteratura orale Adai, seduto con in grembo una dombra (un liuto a due corde simbolo del Kazakistan). Il monumento è stato realizzato non molti anni fa per controbilanciare il predominio di Taras Shevchenko (il celebre artista e scrittore di nazionalità ucraina, quindi slavo, che fu spedito qui in esilio, al quale per un periodo era intitolata Aktau) con una statua altrettanto imponente di un eroe locale. Il nome del bardo kazako, Kashagan, è stato assegnato anche a un vasto campo petrolifero offshore localizzato a sud di Atyrau. Sui muri dei palazzi appaiono le targhe dedicate ai veterani della Grande Guerra Patriottica e i murales che raffigurano sconosciute donne soldato oppure, ad esempio, un uomo in giacca a cravatta con le manette e una mano estranea che gli infila una busta nella tasca (sotto c’è il numero verde anticorruzione). Vicino alla fiamma eterna dell’immancabile monumento alla Seconda Guerra Mondiale, giovanissimi skaters stanno provando le loro evoluzioni all’ombra dei cinque pannelli bianchi che ricordano la forma di una yurta. Compaiono poi i tipici bassorilievi che rappresentano gli indefessi lavoratori socialisti e, prima di arrivare al mare, il monumento ad un aereo sovietico montato su un piedistallo di cemento. In città ci sarebbe un Museo regionale di storia e tradizioni locali, ma purtroppo oggi rispetta il giorno di chiusura settimanale.
Nel frattempo siamo arrivate alla spiaggia, quindi costeggiamo il mar Caspio passeggiando sulle apposite passerelle in legno, passiamo per un antiquato parco divertimenti e notiamo il monumento al Presidente del comitato esecutivo centrale all’epoca del Kazakistan sovietico, tale Mynbayev. Se avessimo proseguito la passeggiata, a un certo punto saremmo arrivate al condominio con il faro in cima che Sergey ci aveva mostrato la mattina. Invece, ingannate dal sole che qua tramonta alle 9 e mezza, realizziamo che si è fatto tardi e cerchiamo un posto dove cenare.
Quelle poche persone con cui ci eravamo interfacciate durante la giornata ci erano sembrate piuttosto ospitali e gentili, ma la sera il personale di più di un ristorante non ci ha degnato della minima attenzione quando abbiamo messo piede nel loro locale, inoltre per ben due volte, quando eravamo in procinto di sederci, un gruppo di kazaki ci ha soffiato il tavolo davanti ai nostri occhi. Effettivamente già in aeroporto avevo notato che gli autoctoni hanno un problema con le file, che non riescono proprio a rispettarle. Per fortuna il manager del ristorante "L’Amore" è un libanese che ci capisce al volo perché ha vissuto in prima persona lo shock culturale dell’accoglienza incazzata kazaka, e fa di tutto per farci cambiare opinione.

Racconto di viaggio completo: "ESPOSIZIONE UNIVERSALE. Viaggio in Kazakistan meridionale"