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Nel cuore di Tashkent

Dopo alcune ore di scalo a Bishkek, per lo più dedicate a consumare e poi digerire una robusta colazione a base di manti ripieni di carne e cipolla, sbarco nel piccolo e scintillante aeroporto “Islam Karimov” di Tashkent. Rispetto a quanto avevo letto online, sono sorpresa da procedure di ingresso così snelle: nessun modulo da compilare, nessun controllo del bagaglio, la fila per il timbro sul passaporto fulminea. Fuori mi attende un coraggioso manipolo di tassisti, che si sbracciano sotto i quaranta gradi e rotti a cui avrei dovuto fare l’abitudine in fretta. L’altra novità la scopro in ostello: si può pagare in Sum e non obbligatoriamente in dollari come un tempo; forse funziona addirittura il bancomat. Per cambiare i soldi inoltre basta raggiungere la banca più vicina e trasformare ad esempio 100 euro in un’imponente mazzetta (più ridotta rispetto al passato, comunque) di banconote locali: fino a pochi mesi fa era invece prassi cambiare al mercato nero poiché il tasso di cambio corrispondeva al doppio di quello ufficiale. Tutte queste informazioni mi vengono fornite dal giovane russo alla reception, un tipo non proprio caloroso ma almeno esaustivo.
Tashkent nel 1966 fu distrutta da un terremoto e in seguito ricostruita con un'impronta moderna e sovieticissima – come si addiceva alla capitale della RSS autonoma del Turkestan. Una delle principali attrazioni è l’opulenta metropolitana, che si ispira a quelle di Mosca e San Pietroburgo: alla biglietteria per pochi centesimi ti danno una monetina di plastica che devi inserire nell’apposita feritoia, ma tanto il meccanismo di apertura non funziona per cui un addetto deve costantemente presiedere i tornelli. Viaggiare in metro permette di fare un salto indietro nel tempo agli anni Settanta, in particolare quando il treno si ferma alla stazione retrofuturista di “Kosmonavtlar” (“astronauta”) che esalta i pionieri dello spazio.
Il Chorsu bazaar è il mercato tradizionale che si sviluppa in parte dentro un edificio a cupola e in parte all’esterno. Dietro i banchi di cemento ordinati e numerati i venditori sono disponibili, pacati e amanti delle foto, le donne indossano abiti a fiorellini e fazzoletti in testa. Parecchi, quando sorridono, mostrano i modaioli denti d'oro. Acquisto una gustosa pagnotta ancora calda e poi mi viene offerta una fetta di anguria che suggella il primo dei millemila microdialoghi identici che mi aspettano:
Salom, Priviet, Hello! Otkuda vy?
- Italia.
- Ohhhhhhhhh. Totocutugno. Celentano.
I più spavaldi poi proseguono intonando l'immortale attacco “Lasciatemi cantare con la chitarra in mano”.
Ho poco tempo per visitare la città e la temperatura non accenna a calare. Nella speranza di un po’ di refrigerio opto per il parco Navoi, dove scopro una piazza Bunyodkor da poco restaurata con fontane, lampioni, statue e aiole, una piccola e impeccabile moschea in stile tradizionale e dei lavori in corso di fronte alla sala concerto Istiklol (un sorprendente esempio di architettura sovietica che ricorda una stazione di allunaggio). Alcuni giovanotti stanno facendo il bagno nel lago artificiale di fronte al Palazzo del parlamento. Beati loro.
Nel cuore di Tashkent è collocata la scenografica piazza dell'Indipendenza (Mustaqillik maydoni) che fino al 1992 era intitolata a Lenin. Oggi al posto della statua di Vladimir Il'ič Ul'janov più grande del pianeta c’è il monumento all’indipendenza: un globo sul quale come unica terra emersa figura uno sproporzionato Uzbekistan. Per poterlo osservare più da vicino devo passare sotto all’immenso arco della Memorial square, sormontato da tre cicogne scolpite a quest’ora in volo verso uno scenografico tramonto arancione. Oltrepassato il Museo nazionale di storia (un altro sfacciato esempio di architettura modernista, un tempo dedicato al culto di Lenin), avanzo indomita mischiata alla tranquilla popolazione a passeggio: anche qui grandi lettere ed un cuore compongono la scritta “I love Tashkent”, gli artisti espongono le loro opere sui marciapiedi, si accendono le lucine che fanno da tettoia alla via che conduce in piazza Amir Timur. Adesso è Tamerlano a cavallo a presiedere la rotonda, ma prima di lui si sono succeduti personaggi del calibro di Lenin, Stalin e infine Karl Marx.
Sulla sinistra svetta lo sgraziato casermone dell’Uzbekistan hotel, giunta dinanzi al quale la stanchezza prende il sopravvento sul desiderio di conoscere Tashkent. Voglia di mettermi a contrattare con un tassista che mi avrebbe sicuramente fregato non ne ho affatto. Il caffè dell’albergo presenta dei comodi divanetti all’aperto e un bancone provvisto di birra alla spina: le proposte culinarie alle quali poi mi sono arresa sono del tutto deludenti, così come la condotta dei camerieri, indaffarati a un tavolo di nuovi ricchi che stanno ordinando a più non posso in attesa della partita dei mondiali di Russia.
Purtroppo non sono riuscita a visitare il Museo delle vittime della repressione politica, dedicato all'oppressione subita dall'Uzbekistan durante il periodo sovietico, un museo storico che al momento rappresenta un'eccezione in tutta l'Asia centrale degli Stan. Esso fu creato nel novembre 2002 per volontà del defunto dittatore Karimov e presenta una narrazione funzionale all'esigenza politica di smarcamento dalla Russia: secondo i curatori del museo infatti serve a "raccontare alla generazione moderna gli antenati che hanno mostrato eroismo nella lotta per la libertà e l'indipendenza della Patria e che sono diventati vittime di una massiccia repressione politica durante il periodo del regime totalitario".

Racconto di viaggio completo "CANTO NOTTURNO DI UNA TURISTA ERRANTE. Nei sempiterni calli dell'Uzbekistan e del Kirghizistan"