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Canto notturno di una turista errante
Nei sempiterni calli dell'Uzbekistan e del Kirghizistan
Viaggio nel Turkestan, il cuore continentale dell’Asia, ancora in assestamento dopo quasi trent’anni di indipendenza dall’Unione Sovietica.
Per l’Uzbekistan è un periodo di cambiamenti, in cui uno dei regimi più autoritari del pianeta sembra che stia lentamente compiendo passi avanti verso un timidissimo riconoscimento dei diritti umani e la fine dell’isolamento internazionale. Dalle lande desolate dell’antica Corasmia alla fruttifera valle di Fergana, passando per le gemme della mitica via della seta, ha apparecchiato per le comitive di anziani turisti tavole imbandite con coreografici piatti di uva e albicocche, spettacolari madrase decorate e minareti ricoperti maioliche turchesi, chilometri di tessuti ricamati e seta, più o meno di pregio.
Il Kirghizistan invece, terra di pastori nomadi e cavalli selvaggi, non aveva nessun monumento storico da dare in pasto ai restauratori sovietici e ancora oggi presenta al visitatore una facciata antropizzata fatta di orribili palazzi di cemento e vecchi simboli arrugginiti. Ma tanto la sparuta compagine di backpacker di etnia caucasica che lo visita è interessata soltanto al trekking nelle spettacolari montagne, alle passeggiate a cavallo e all’ospitalità nelle yurte estive; della bruttezza del paese, della rozzezza del popolo e dei monotoni pasti se ne sbatte.
LA CITTÀ DI PIETRA
Dopo alcune ore di scalo a Bishkek, per lo più dedicate a consumare e poi digerire una robusta colazione a base di manti ripieni di carne e cipolla, sbarco nel piccolo e scintillante aeroporto “Islam Karimov” di Tashkent. Rispetto a quanto avevo letto online, sono sorpresa da procedure di ingresso così snelle: nessun modulo da compilare, nessun controllo del bagaglio, la fila per il timbro sul passaporto fulminea. Fuori mi attende un coraggioso manipolo di tassisti, che si sbracciano sotto i quaranta gradi e rotti a cui avrei dovuto fare l’abitudine in fretta. L’altra novità la scopro in ostello: si può pagare in Sum e non obbligatoriamente in dollari come un tempo; forse funziona addirittura il bancomat. Per cambiare i soldi inoltre basta raggiungere la banca più vicina e trasformare ad esempio 100 euro in un’imponente mazzetta (più ridotta rispetto al passato, comunque) di banconote locali: fino a pochi mesi fa era invece prassi cambiare al mercato nero poiché il tasso di cambio corrispondeva al doppio di quello ufficiale. Tutte queste informazioni mi vengono fornite dal giovane russo alla reception, un tipo non proprio caloroso ma almeno esaustivo.
Tashkent nel 1966 fu distrutta da un terremoto e in seguito ricostruita con un'impronta moderna e sovieticissima – come si addiceva alla capitale della RSS autonoma del Turkestan. Una delle principali attrazioni è l’opulenta metropolitana, che si ispira a quelle di Mosca e San Pietroburgo: alla biglietteria per pochi centesimi ti danno una monetina di plastica che devi inserire nell’apposita feritoia, ma tanto il meccanismo di apertura non funziona per cui un addetto deve costantemente presiedere i tornelli. Viaggiare in metro permette di fare un salto indietro nel tempo agli anni Settanta, in particolare quando il treno si ferma alla stazione retrofuturista di “Kosmonavtlar” (“astronauta”) che esalta i pionieri dello spazio.
Il Chorsu bazaar è il mercato tradizionale che si sviluppa in parte dentro un edificio a cupola e in parte all’esterno. Dietro i banchi di cemento ordinati e numerati i venditori sono disponibili, pacati e amanti delle foto, le donne indossano abiti a fiorellini e fazzoletti in testa. Parecchi, quando sorridono, mostrano i modaioli denti d'oro. Acquisto una gustosa pagnotta ancora calda e poi mi viene offerta una fetta di anguria che suggella il primo dei millemila microdialoghi identici che mi aspettano:
- Salom, Priviet, Hello! Otkuda vy?
- Italia.
- Ohhhhhhhhh. Totocutugno. Celentano.
I più spavaldi poi proseguono intonando l'immortale attacco “Lasciatemi cantare con la chitarra in mano”.
Ho poco tempo per visitare la città e la temperatura non accenna a calare. Nella speranza di un po’ di refrigerio opto per il parco Navoi, dove scopro una piazza Bunyodkor da poco restaurata con fontane, lampioni, statue e aiole, una piccola e impeccabile moschea in stile tradizionale e dei lavori in corso di fronte alla sala concerto Istiklol (un sorprendente esempio di architettura sovietica che ricorda una stazione di allunaggio). Alcuni giovanotti stanno facendo il bagno nel lago artificiale di fronte al Palazzo del parlamento. Beati loro.
Nel cuore di Tashkent è collocata la scenografica piazza dell'Indipendenza (Mustaqillik maydoni) che fino al 1992 era intitolata a Lenin. Oggi al posto della statua di Vladimir Il'ič Ul'janov più grande del pianeta c’è il monumento all’indipendenza: un globo sul quale come unica terra emersa figura uno sproporzionato Uzbekistan. Per poterlo osservare più da vicino devo passare sotto all’immenso arco della Memorial square, sormontato da tre cicogne scolpite a quest’ora in volo verso uno scenografico tramonto arancione. Oltrepassato il Museo nazionale di storia (un altro sfacciato esempio di architettura modernista, un tempo dedicato al culto di Lenin), avanzo indomita mischiata alla tranquilla popolazione a passeggio: anche qui grandi lettere ed un cuore compongono la scritta “I love Tashkent”, gli artisti espongono le loro opere sui marciapiedi, si accendono le lucine che fanno da tettoia alla via che conduce in piazza Amir Timur. Adesso è Tamerlano a cavallo a presiedere la rotonda, ma prima di lui si sono succeduti personaggi del calibro di Lenin, Stalin e infine Karl Marx.
Sulla sinistra svetta lo sgraziato casermone dell’Uzbekistan hotel, giunta dinanzi al quale la stanchezza prende il sopravvento sul desiderio di conoscere Tashkent. Voglia di mettermi a contrattare con un tassista che mi avrebbe sicuramente fregato non ne ho affatto. Il caffè dell’albergo presenta dei comodi divanetti all’aperto e un bancone provvisto di birra alla spina: le proposte culinarie alle quali poi mi sono arresa sono del tutto deludenti, così come la condotta dei camerieri, indaffarati a un tavolo di nuovi ricchi che stanno ordinando a più non posso in attesa della partita dei mondiali di Russia.
Purtroppo non sono riuscita a visitare il Museo delle vittime della repressione politica, dedicato all'oppressione subita dall'Uzbekistan durante il periodo sovietico, un museo storico che al momento rappresenta un'eccezione in tutta l'Asia centrale degli Stan. Esso fu creato nel novembre 2002 per volontà del defunto dittatore Karimov e presenta una narrazione funzionale all'esigenza politica di smarcamento dalla Russia: secondo i curatori del museo infatti serve a "raccontare alla generazione moderna gli antenati che hanno mostrato eroismo nella lotta per la libertà e l'indipendenza della Patria e che sono diventati vittime di una massiccia repressione politica durante il periodo del regime totalitario".
LA VIA DELLA SETE
Per raggiungere Khiva propendo come tutti per il volo della Uzbekistan Airways, acquistato all’ultimo momento quando ho preso definitivamente atto della reale distanza. E meno male che l’aeroporto di Urgench è in funzione, perché molto di frequente soccombe di fronte alle elevatissime temperature estive. Per più di un’ora sotto il velivolo scorre un monotono deserto, sostituito da un paesaggio meno arido soltanto quando appaiono le anse dell'Amu Darya.
Nel cuore della vecchia Khiva, cittadella color sabbia raccolta tra alte mura d’argilla, il mite Murat accoglie i clienti nell’abitazione tradizionale di proprietà della sua famiglia: con molta gentilezza mi fornisce tutte le informazioni utili per visitare questa città-museo, ad esempio dove sono gli ATM. Come, gli ATM? E funzionano? Penso a tutti i contanti che mi sono portata, nonché ai dollari faticosamente cambiati in Italia. “Tutte queste facilitazioni – prosegue compitamente Murat – fanno parte del programma politico del nuovo Presidente Mirziyoyev, che per nostra fortuna ha introdotto molte misure per incentivare il turismo. Tra l’altro il 15 luglio – sabato prossimo, fra tre giorni! – entra in vigore il visto elettronico per i cittadini di diversi paesi europei come l’Italia, si può fare online e costa soli 20 euro.” E io che ne ho spesi 120, di euro, tra visto ed emolumenti destinati all’agenzia romana di pratiche consolari, senza che le fonti ufficiali su cui mi sono informata ne sapessero niente, mi sento ulteriormente beffata.
Il sole tramonta su Khiva, il calore accumulato si sprigiona dalle strade, i ragazzi giocano a pallone tra le mura secolari, le maioliche turchesi del minareto mozzo di Kalta Minor scintillano, gli ultimi turisti che visitano la torre di guardia di Kuhna Ark sono neri contro il cielo arancione. Nella terrazza di questo piacevole caffè spira un venticello quasi fresco, la birra Sarbast è gelida, gli shashlik riempiono l’aria di un profumo invitante. Sono felice.
Al ristorante all’aperto appena fuori dalla porta ovest c’è una festa di compleanno: le invitate siedono tutte insieme con i bambini, mentre i maschi occupano un tavolo a parte. Grondo sudore mentre ballo con loro, il viso è lucido nelle decine di foto che insistono per scattarci a vicenda, rifiuto a malincuore il cibo che mi offrono e allora mi riempiono una busta di uva, susine, dolci e una grande pagnotta piatta. Eccolo qua il famoso pane uzbeko, decorato con quel tipico strumento dotato di aghi di ferro: i disegni tondeggianti (simili a quelli che ornano le facciate degli edifici) probabilmente simboleggiano il sole fin dai tempi dell’antica religione zoroastriana.
Khiva esisteva già nell’Ottavo secolo come stazione commerciale lungo la Via della seta, ma divenne capitale del Khanato omonimo solo dopo che la capitale della Corasmia, Konye-Urgench (oggi in Turkmenistan), fu distrutta da Tamerlano. Per circa tre secoli fu famosa grazie al suo mercato degli schiavi, procurati dalle tribù kazake e turkmene del deserto e della steppa, finché nel 1873 fu conquistata dai russi e una cinquantina di anni dopo inglobata nell'Uzbekistan.
Oggi per visitare il patrimonio dell’umanità dell’”Itchan Kala museum reserve” bisogna acquistare un biglietto cumulativo che costa 10000 Sum (circa 12 euro). La cinta muraria, le scuole islamiche, i palazzi e i minareti (ma anche le case basse di argilla essiccata, ancora abitate) in buona parte non sono così antichi come potrebbe sembrare e anche gli interventi di restauro più massicci sono piuttosto recenti: risalgono infatti agli ultimi anni dell'Unione Sovietica. In ogni caso le piastrelle decorate, i soffitti di legno, le cupole, il legno e il marmo finemente intagliati rappresentano uno spettacolo senza tempo.
I dipinti presenti nei numerosi spazi museali danno un’idea di come doveva apparire questa città ai tempi della Via della seta, affollata di commercianti che indossavano i cappelli di lana di pecora e i caftani con la fantasia tipica uzbeka, con le anguste stradine stipate di cammelli e cavalli, i meloni e le albicocche, le ceramiche e i coltelli in vendita, i rigogliosi giardini di cui oggi non c’è più traccia. I tavolini in legno, i tappeti, i vasi, le anfore, le monete, gli abiti esposti nelle teche aggiungono altri dettagli allo splendido passato della mitica Corasmia, mentre gli attuali souvenir di cui la cittadina è infestata sono in gran parte inguardabile paccottiglia di fattura cinese.
I "cafè" sono luoghi ameni dotati di wifi dove si mangia decentemente a prezzi abbastanza onesti, ma vale la pena avventurarsi fuori dalle mura di questa riserva per turisti e provare un ristorante nella Khiva nuova. Nonostante sia più difficile comunicare con il personale, il menu è ricco di fotografie di piatti e dunque non è difficile ordinare dei saporiti lagman al sugo a prezzi decisamente più uzbechi; inoltre è possibile scegliere un tavolo interamente circondato da una pesante tenda dove si può mangiare in completa privacy.
ANTICHI FASTI E CORRENTI MISERIE DEL KARAKALPAKSTAN
Il Karakalpakstan è una repubblica autonoma situata nella parte più occidentale dell’Uzbekistan. Dove un tempo c’erano le oasi lungo le rive dell’Amu Darya, oggi non è rimasta che una terra desolata interamente circondata dal deserto, che percorro in auto con Jasur, un pezzo d’uomo cordiale e affabile che mi guiderà in questo tour. Quando passiamo il confine di provincia veniamo fermati a un blok posti e lui si mette le mani nei capelli. Problems. Un poliziotto mi chiede in un discreto inglese quanto ho pagato per l’auto e a chi, dunque mi mette in guardia dagli operatori turistici improvvisati di cui non devo assolutamente fidarmi. Jasur intanto risale in macchina incazzato nero perché gli hanno fatto una multa dell’equivalente di quasi 200 euro (probabilmente a causa di documenti non in regola), quindi passa un bel po’ di tempo a urlare al telefono.
La prima tappa è Nukus, la capitale del Karakalpakstan, una città di impostazione sovietica ultimamente soggetta ad alcune migliorie estetiche e nota per essere stata fino al 2002 la sede di un Istituto di ricerca dell'Armata rossa dove venivano sperimentate armi chimiche.
La principale attrazione di Nukus è il museo Savitsky, "il Louvre delle steppe", che oltre a una vasta sezione storica ed etnografica detiene un’importantissima collezione di dipinti di avanguardia sovietica. Il suo fondatore, Igor Vitalievich Savitsky (un russo nato a Kiev, pittore egli stesso), ha dedicato la sua vita a raccogliere migliaia di manufatti e oggetti archeologici dell'area e soprattutto a mettere in salvo migliaia di opere di artisti sovietici considerati all’epoca nemici del popolo, la cui arte era condannata dal regime. L’operazione è andata in porto grazie alla lontananza e all’isolamento di Nukus, ma ha messo ugualmente in pericolo la vita di Savitsky che ha rischiato di finire nei gulag come molti degli artisti in questione. Nelle prime sale sono esposti gioielli, abiti tradizionali, tappeti, ricami e altre espressioni tipiche della cultura karakalpaka, popolazione povera e gelosa della propria identità, spesso bistrattata dalla maggioranza uzbeka. Vi sono inoltre vasi e sculture recuperati grazie agli scavi nelle rovine dell’antica Corasmia, una civiltà culturalmente molto progredita, di religione zoroastriana. La collezione di dipinti degli artisti russi e uzbeki è invece così vasta che da un paio di anni si è aperta una seconda sede del museo, e anche così non è possibile renderli tutti fruibili al pubblico.
Quando risalgo in macchina Jasur mi offre un po’ del suo pane col pomodoro (con questo caldo, più di questo non riesce a mangiare); nel frattempo si è tranquillizzato in merito alla faccenda della multa ed è tornato sorridente. È contento del nuovo presidente (good for tourism, more money) ma naturalmente anche Karimov era ok. Sa che in italia abbiamo un nuovo primo ministro e ritiene giusto che in Italia vivano solo italiani, in Francia solo francesi e così via. Troppo lungo da spiegare: cambiamo argomento. Ha 46 anni, 6 figli, sua moglie lavora in banca. Di solito effettua la preghiera rituale ma visto che adesso sta lavorando recupererà stasera.
Continuiamo a procedere più o meno paralleli all'Amu Darya, che diventa sempre più sottile fino a sparire del tutto: oggi infatti il fiume più lungo dell'Asia centrale non sfocia più nel lago d’Aral ma si perde nel deserto. È giunto il momento di affrontare il vero motivo per cui mi sto sottoponendo a queste ore torride di tragitto nel nulla: vedere con i miei occhi ciò che resta di una delle più gravi catastrofi ambientali provocate dall'uomo. Un cartello arrugginito con il disegno di un simpatico pesciolino ci dà il benvenuto a Moynaq, un tempo l’unico porto dell’Uzbekistan e oggi distante circa 200 km da ciò che resta del lago. Il pesce su sfondo blu ondoso è molto ironico perché l’industria ittica è soltanto un lontano ricordo: disoccupazione, desolazione ed emigrazione ne hanno preso il posto. Come se non bastasse, il microclima è cambiato e le estati sono diventate più calde e secche. Moynaq no gasoline - mi comunica Jasur.
Sono l’unica sotto questo sole che spacca le pietre a visitare il cimitero delle navi: alcune carcasse di imbarcazioni arrugginite abbandonate in quello che una volta era un florido lago e ora è un deserto di sale. I pannelli informativi e le foto satellitari mostrano le fasi del disastro a partire dagli anni Sessanta, quando il governo sovietico decise di usare l'acqua dell’Amu Darya e del Syr Darya per irrigare i vasti campi delle aree circostanti, secondo un piano di coltura intensiva che aveva il fine di far diventare l’URSS il primo esportatore di cotone del mondo.
Il prosciugamento del lago d'Aral in realtà è proseguito anche dopo l'indipendenza dell’Uzbekistan, visto che il presidente Karimov aveva mantenuto il sistema di irrigazione ereditato dai sovietici. Anzi, l'evaporazione è andata avanti così rapidamente che nel 2003 l'Aral Sud (ossia quello in territorio uzbeko) si è suddiviso ulteriormente in due bacini e pochi anni dopo la superficie del lago si era ridotta fino al 10% della sua dimensione originale. Nel frattempo l’eccessiva salinità ha praticamente distrutto l'ecosistema lacustre e l'Aralkum, il deserto di sabbia che si è formato, è ricoperto di prodotti chimici tossici dovuti all'indiscriminato utilizzo di fertilizzanti, alla sperimentazione di armi e ad altri progetti industriali.
Se le autorità kazake sono riuscite ad invertire il processo di prosciugamento dell’Aral nord con la costruzione di una diga (tanto che in alcuni villaggi è ripresa l'attività di pesca), in Uzbekistan la situazione è talmente irrimediabile che per molti l'unica soluzione è quella di investire nel rinverdimento del deserto.
Chiedo a Jasur di visitare il museo del lago d’Aral di Moynaq, ma mi risponde lapidario: No museum. Grazie alla mia insistenza troviamo l’indirizzo, ma il museo a quanto pare è in ristrutturazione.
Oggi il Karakalpakstan è tra le zone più povere ed inquinate dell’Uzbekistan: la maggior parte degli abitanti soffre di malattie croniche e moltissimi studenti e cittadini uzbeki sono costretti ad abbandonare periodicamente le loro occupazioni per dedicarsi alla raccolta del cotone, che ancora oggi rappresenta il fulcro dell'economia; tuttavia il nuovo presidente a quanto pare si sta impegnando per diversificare le colture e ha di recente varato dei provvedimenti che vietano lo sfruttamento e il trattamento disumano dei lavoratori. Verdissimi cotton fields ci circondano da quando siamo partiti. Harvest, september. Factory Tashkent, Turkey - mi aveva esaurientemente informata Jasur.
Per quanto riguarda il resto dell’offerta storico-culturale karakalpaka, su una collina a 20 km da Nukus si trovano i resti dell'antica Mizdakhan, che era la seconda città più grande della Corasmia. Jasur mi molla sotto al sole cocente e io sono tenuta a percorrere la salita, smadonnando tra le tombe e le moschee di questa necropoli tuttora sacra, mentre lui se ne sta comodamente all’ombra. In merito alla fortezza di Chilpik, non ci penso proprio a scalare la collina su cui sorge e mi accontento di guardarla da lontano. Leggo comunque che si tratterebbe in origine di una delle "Torri del silenzio" utilizzate per le cerimonie funebri dagli zoroastriani, i quali non seppellivano i cadaveri ma li lasciavano mangiare a uccelli e animali finché non rimanevano solo le ossa.
L’ultima tappa del tour sarebbe la Badai Tugai Nature Reserve, l’unica riserva naturale del Karakalpakstan (che contiene varie specie di uccelli e mammiferi tra cui il raro cervo battriano), ma sembrerebbe abbandonata visto che nessuno la presiede. E per fortuna, visto che ormai è tardissimo, il sole sta tramontando sull’Amu Darya e su tutti i suoi canali e i forni tandir in piena attività mi hanno fatto venire una fame lupigna.
LA MALEDIZIONE DI BUKHARA
Affronto le cinque ore di tragitto tra Khiva e Bukhara dentro ad un’auto privata condivisa con altri tre passeggeri. Procedendo in territorio desertico la temperatura aumenta ad una velocità straordinaria fino ad assestarsi sui 45 gradi e, poiché la macchina non è dotata di aria condizionata, l’unico metodo per patire meno il caldo è quello tradizionale uzbeko di appendere degli asciugamani ai finestrini. Arriviamo a Bukhara stravolti come se li avessimo percorsi a piedi quei 460 chilometri.
Il centro pulsante di Bukhara (o Buxoro, le “a” e le “o” sono spesso intercambiabili) è il Lyabi-Hauz, una vasca d’acqua circondata da enormi gelsi, bar, ristoranti e bancarelle, dove gli abitanti si radunano nelle sere d’estate per prendere il fresco. Un tempo Bukhara era piena di stagni come questo, che costituivano la fonte principale di approvvigionamento d'acqua, ma i sovietici li hanno eliminati quasi tutti poiché contribuivano a diffondere malattie. Del complesso architettonico secentesco fanno parte anche altri edifici, fra cui la madrasa Nadir Divan-Begi, dove all’ora dell’aperitivo si tengono poco suggestive danze tradizionali e sfilate di moda per turisti.
Approfittando delle tenebre, con quasi un intero piatto di risotto (plov) nello stomaco, vado a zonzo per la città. La piazza della Grande moschea emerge all’improvviso tra le vie semibuie: certe grandiose creazioni umane fanno più impressione se giungono inaspettate. Sotto un nero cielo stellato, in tutto il loro splendore appaiono i due portali (iwan) della moschea Kalon e della madrasa di Mir-i-Arab, la cupola turchese della moschea e il minareto Kalyan. Questa affusolata “torre della morte” veniva usata per le esecuzioni pubbliche, durante le quali il condannato veniva buttato giù da un’altezza di 45 metri, ed è uno dei pochi monumenti risparmiati dalla celebre furia distruttrice di Gengis Khan. La maggior parte degli edifici della città infatti sono successivi ai Mongoli e anche a Tamerlano, poiché risalgono al Cinque e Seicento, il periodo di massimo splendore economico e religioso di Bukhara e del Khanato omonimo.
Al resto dell'offerta storico-artistica della città dedico la mattina seguente: il museo dei tappeti ospitato nella più antica moschea dell’Asia Centrale, i bazar coperti dal tetto a cupola, l’imponente fortezza dell’emiro, la moschea del venerdì con un’altra vasca superstite, il mausoleo costruito sopra una fonte di acqua miracolosa, la sfarzosa abitazione di un eminente politico poi fatto uccidere negli anni Trenta, il Char Minar con le sue quattro inconfondibili torri… In un’altra stagione avrei passeggiato a lungo osservando i dettagli più interessanti degli edifici in mattoncini, chiacchierando con i venditori e gli artigiani dagli zucchetti ricamati, e soprattutto cercando di capire cosa diamine sono i tappeti bukhara, ma purtroppo le temperature delle ore centrali della giornata mettono a dura prova anche il più audace dei turisti. Bisogna trovare un’alternativa.
Fino all’inizio del Novecento, oltre alle vasche d’acqua e alla vasta rete di canali, a Bukhara c’erano 20 hammam, alimentati dall’acqua dei pozzi e molto popolari sia tra gli abitanti sia tra i commercianti stranieri. Oggi ne sono rimasti soltanto due o tre. Mi rivolgo alla mamma di Bek affinché me ne consigli uno riservato alle donne: "Nessuno a Bukhara va più all’hammam. Loro lo hanno vietato. Nel passato ce n’erano tanti, oltre a centinaia di moschee e scuole coraniche, ma during soviet times hanno distrutto tutto! Maledetti, pure il clima ci hanno cambiato: non c’è più acqua e fa sempre così caldo." Non mi aspettavo da una donna così mansueta una reazione così irruenta, comunque il messaggio è giunto chiaro e forte: invece del bagno turco (che tra l'altro costa 20 dollari), andrò in piscina.
Probabilmente ciò che ricorderò per sempre di Bukhara (a parte le stupefacenti moschee e le madrase) è il posto dove ho alloggiato. A differenza dell’abitazione di Murat, il cortile è coperto da una tettoia di plastica che non contribuisce a rendere l’ambiente più fresco, ma nonostante ciò i momenti più gradevoli in Uzbekistan li ho passati qui. Come un’uzbeka sul letto di legno, a gambe incrociate o addirittura sdraiata sui cuscini: il melone a fette, i samsa di patate e il tè sul tavolino; coppette, piatti e tazzine decorati con il fiore di cotone bianco su sfondo nero (l’unico set di stoviglie usato nel paese). La birra prima di andare a dormire e le ultime chiacchierate con gli stoici viaggiatori provenienti da tutte le parti del mondo. Sotto il tavolo Sunny, l'irresistibile cucciolo di cocker che mangiucchia le scarpe accatastate fuori dalla porta e mordicchia i piedi con i suoi dentini affilati. Bek che mi racconta con le lacrime agli occhi dell’incidente mortale accaduto a un ciclista italiano ospite della loro guest house pochi giorni prima. La mamma triste perché l’altra sua figlia si è appena trasferita in Nuova Zelanda. Il concerto di Toto Cutugno ad alto volume al televisore in alto, la mamma che invita il padre riottoso a ballare. La carrellata di video italiani su Youtube: Bek che adora “L’arcobaleno” di Celentano e io che ribatto con “Samarcanda” di Vecchioni.
Solo adesso che mi soffermo per la prima volta sulle parole di questo brano (che ho sempre detestato per l’orribile ritornello “Oh oh cavallo oh oh”), comprendo che fa riferimento a una famosa leggenda mediorientale, quella del servo che incontra la morte al mercato di Baghdad e per sfuggirle galoppa veloce fino a una città lontanissima: Samarcanda. Ma qui trova lo stesso ad aspettarlo la nera signora, che gli dice: "Io non ti guardavo con malignità, Era solamente uno sguardo stupito, Cosa ci facevi l'altro ieri là? T'aspettavo qui per oggi a Samarcanda." Al fato, in pratica, non si può sfuggire.
Anche il mio destino è segnato: ho acquistato un biglietto del treno veloce Afrosiyob e fra un’ora e mezza sarò a Samarcanda. Spero di non fare brutti incontri.
NON È POI COSÌ LONTANA SAMARCANDA
Vado a letto depresso alla semplice idea che, essendo venuto a vedere Samarcanda, non avrò d’ora innanzi più modo di sognarla.
(Tiziano Terzani, "Buonanotte, Signor Lenin")
Sa-mar-can-da: la punta della lingua compie un giretto niente male prima di battere, alla fine, contro i denti. Sa-mar-can-da: quattro “a” di meraviglia una dopo l'altra, solo a pronunciarla. Samarcanda: mi sembra di aver già sentito questo nome da qualche parte.
Sono scesa da un treno superclimatizzato, supermoderno, superveloce, superpieno. Un taxi mi ha portato in un ostello di merda, con una ventola spacciata per sistema di air conditioning, dei materassi sfondati e un pavimento di moquette che probabilmente non ha mai avuto un contatto ravvicinato con un aspirapolvere in vita sua. Non ho avuto la forza di cercarne un altro: il Registan, seminascosto da curati giardinetti, mi attirava come una calamita.
Il sole tramonta sui portali delle tre fiabesche madrase che delimitano la piazza delle piazze, una falce di luna strizza l’occhio alle piastrelle turchesi delle cupole, gli uccelli svolazzano sfiorando le due tigri che decorano un fantasmagorico portale. Dietro le transenne che separano la piazza dalla strada trafficata, decine di persone che non hanno pagato il biglietto fotografano con il cellulare.
Nell'ingresso tutto d'oro della madrasa Tilla Kori apprendo che il complesso fu fondato dal nipote di Tamerlano, Ulugbek: all’epoca, oltre alla madrasa che prende il suo nome, ne facevano parte anche una dimora sacra, un caravanserraglio e due moschee. Nel Diciassettesimo secolo furono costruite – al posto degli edifici ormai in macerie – le due scuole coraniche che affiancano ancora oggi la madrasa Ulugbek, l’unica che era sopravvissuta. Il pannello informativo si conclude con i ringraziamenti per la “nobile cura prestata al complesso architettonico fondato dal grande Ulugbek come perla dell’antica Samarcanda”.
Nelle sale interne è allestita una mostra di fotografie scattate presumibilmente pochi anni prima della Rivoluzione d’Ottobre: il Registan è un immenso bazar affollatissimo di bancarelle, venditori e compratori, carretti trainati da cavalli; tutti i monumenti più importanti della città sono in rovina. Le guerre e un paio di catastrofici terremoti avevano infatti distrutto l’immenso patrimonio architettonico di Samarcanda, che i sovietici in seguito si sono presi la briga di ricostruire e restaurare, non senza prendersi alcune (troppe?) libertà. In questo momento però me ne frego della presunta scarsa autenticità degli edifici e dell’asettica musealizzazione di un luogo un tempo pieno di vita: la visita al Registan è un colpo al cuore, in particolare quando il sole è appena calato e la sapiente illuminazione trasforma il luogo in uno scenario da Mille e una notte.
Un muro separa i giardini del Registan dal resto della città. Attraversando una porticina si entra in un’altra Samarcanda fatta di stradine buie e sporche, palazzi fatiscenti e bambini che giocano nelle pozzanghere. È il vecchio quartiere ebraico e ci sono venuta per cercare quello che pensavo fosse un ristorante, ma in realtà è una bella casa tradizionale adibita a guesthouse. Stasera però il portone è sprangato, ospiti non ce ne sono e marito e moglie stanno consumando in solitudine la loro cena, con le solite stoviglie bianche e nere, il pane tondo e vari piattini di frutta.
Il proprietario mi suggerisce un posto di sua conoscenza dove mangiare; si tratta di una birreria con quello che noi definiremmo fornello pronto: devo dunque indicare con la mano cosa voglio mangiare e prima o poi mi verrà cucinato e servito. Dopo un’ora e mezza di attesa, trascorsa devo dire tracannando l’ottima birra artigianale di loro produzione, mi viene un sospetto. E in effetti, grazie alla mediazione linguistica di un commensale portato per le lingue, scopro che secondo loro avrei cancellato la mia ordinazione e che tutto il cibo è ormai finito. Per fortuna il traduttore impietosito mi cede una parte dei suoi avanzi e due alticci avventori coronano l'imprevista serata offrendomi un cicchetto di vodka.
Nella sua storia millenaria, Samarcanda ha avuto a che fare con conquistatori, sovrani, imperatori, commercianti e viaggiatori provenienti da tutto il mondo, ma il vero artefice dello stile architettonico che la rende ancora oggi inconfondibile fu Amir Timur, meglio noto come Tamerlano. Egli scelse questa città come capitale e vi importò artigiani e architetti da tutti gli angoli dell'impero affinché procedessero alla sua ricostruzione. Per quanto fosse spietato con i suoi nemici, teneva in palmo di mano gli artisti che lavoravano per lui e ci teneva un sacco che i lavori fossero perfetti e la città diventasse meravigliosa.
La moschea di Bibi Khanum, dedicata alla moglie preferita dell’imperatore, doveva essere uno dei luoghi di culto più grandi e raffinati del mondo islamico. Secondo la leggenda, durante la costruzione dell’edificio l’architetto capo, approfittando di un viaggio di lavoro di Tamerlano, riuscì dopo molta insistenza ad estorcere un focoso bacio dall’amatissima Bibi, la quale per coprire l’evidente bruciatura che le era rimasta sulla guancia inventò la moda del chador. Nel frattempo il fedifrago riuscì a sfuggire alla sua condanna a morte salendo su un minareto nuovo di zecca e volando via verso la sua città di origine, in Persia, mentre la principessa mongola infedele fu seppellita viva in un’ala della moschea appena costruita.
Non si sa se a causa dei tempi di costruzione troppo serrati o della disattenzione del capo cantiere, troppo preso da Bibi, l’edificio presentò da subito problemi strutturali; se a ciò aggiungiamo l’intervento successivo dei fattori atmosferici, delle cannonate, dei terremoti e dell’incuria, capiamo perché all’inizio del Novecento la moschea appariva un cumulo di rovine. Diversamente da ciò che è accaduto per altri monumenti, la moschea di Bibi Khanum fu restaurata solo parzialmente dai sovietici e i lavori sono tuttora in corso. Al centro del cortile alberato si trova ancora adesso un massiccio leggio di pietra dove veniva posato il Corano più vecchio e pesante del mondo: pare che il genero di Maometto in persona lo stesse leggendo quando venne assassinato (non a caso è ancora sporco delle sue gocce di sangue). Secondo la credenza popolare, la pratica di gattonare sotto il sacro leggio rendeva immediatamente gravide le donne che non riuscivano ad avere figli, mentre girandogli semplicemente intorno si trovava soltanto marito.
Per quanto riguarda Tamerlano, attualmente riposa nel mausoleo Gur-i-Amir. Fu lui stesso ad ordinarne la costruzione per seppellire suo nipote, ma poi anch’egli vi fu inumato, poiché la strada per la sua città natale nei giorni della sua dipartita era chiusa per neve. Nella grande sala centrale ci sono le lapidi: verde scuro quella di Timur, bianche le altre, ossia quelle dei due figli, del nipote Ulugbek e del maestro (la più grande di tutte). In realtà le vere sepolture si trovano nella cripta, che però è inaccessibile; a differenza di quanto accadde a Tiziano Terzani, nessuno mi offre di visitarla in cambio di una mancia. La storia più sorprendente relativa a questo posto non è una leggenda e accadde nel 1941, quando i sovietici decisero di scoprire se veramente Tamerlano era zoppo e se davvero suo nipote Ulugbek era stato decapitato dai fondamentalisti invidiosi. L’esumazione dei corpi ebbe luogo e confermò quanto si diceva, ma purtroppo si avverò anche l’antica, terribile profezia: chiunque violi la quiete di Tamerlano “in questa vita o nell'altra, sarà soggetto a inevitabili punizioni e miseria”. Il giorno dopo infatti i nazisti invasero l’Unione Sovietica e per loro iniziò la seconda guerra mondiale.
Sulla collina dove si trovava l’osservatorio di Ulugbek (poi dato alle fiamme dalla folla aizzata dai fanatici), oggi c’è un museo dedicato a questo grande matematico e astronomo, dove è ancora parzialmente visibile il gigantesco sestante con cui effettuò osservazioni e misure della posizione degli astri di una precisione mai raggiunta prima e a lungo ineguagliata.
Il luogo più affascinante di Samarcanda è il complesso funerario di Shah-i-Zinda, restaurato più di recente. Salita una ripida scalinata inizia una strada che conduce il pellegrino davanti a diversi piccoli mausolei uno più incantevole dell'altro, costruiti dalle famiglie aristocratiche della città a partire da quella di Tamerlano (gli uomini a destra, le donne a sinistra). Il sito è intitolato al “re vivente”, un famoso santo musulmano venuto qui per combattere gli infedeli e poi decapitato; secondo la leggenda, come se niente fosse egli prese la sua testa mozzata e, tenendola sotto braccio, andò a rifugiarsi in un pozzo nei paraggi: chissà che un giorno non riemerga per proseguire la sua lotta. Si tratta di una meta di pellegrinaggi molto gettonata, soprattutto da comitive di anziani provenienti non solo dall’Uzbekistan ma anche dai paesi confinanti, i quali vedendo dei visitatori stranieri raramente resistono al desiderio di scattarsi una foto con loro.
Non lontano da qui, sbrilluccica il nuovissimo mausoleo di Islom Karimov, inaugurato il 30 gennaio di quest’anno. Qui riposa "il primo presidente della Repubblica dell'Uzbekistan, grande statista e politico, rispettabile e onorevole figlio del popolo uzbeko ", come recita la lastra di marmo installata all'ingresso. Karimov ufficialmente è morto il 2 settembre del 2016 dopo aver guidato il paese per 26 anni e la cerimonia funebre si è svolta il giorno dopo a Samarcanda, sua città natale: migliaia di persone comuni sono accorse per rendergli omaggio. Per quanto riguarda i dignitari stranieri, molti di loro non se la sono sentita di dare l'ultimo saluto a uno dei dittatori più spietati della storia recente, che ha violato di continuo i diritti umani, mettendo in carcere e torturando centinaia di persone critiche nei confronti del regime, sfruttando il lavoro minorile per la raccolta del cotone, conducendo una vita di lussi mentre le condizioni economiche del popolo erano di estrema povertà. Resta dunque per me inspiegabile come possano i pellegrinaggi alla sua tomba continuare indefessamente fino ad oggi, così come i selfie davanti alla nuova statua piazzata nei giardini del Registan.
Forse può far riflettere questa notizia che risale alla fine dell’anno scorso, quando Mirziyoyev stabilì un'amnistia di massa (unica nella storia del paese) che liberò dal carcere quasi tremila prigionieri, accusati all’epoca di essere presunti membri di gruppi islamici banditi dal paese. Per loro fu decisa una sorprendente e alquanto sospetta penitenza: furono portati tramite un comodo autobus in pellegrinaggio sulla tomba di Karimov, ossia in qualche modo del loro carceriere, responsabile di aver rovinato la vita a persone che probabilmente non erano altro che semplici devoti musulmani.
In ogni caso il memoriale, le statue e il nuovo museo in programma hanno tutti origine dal decreto firmato dal nuovo presidente il 25 gennaio del 2017, nel quale si stabilisce che una serie di istituzioni, strutture e strade siano intitolate a Karimov e che in suo onore siano realizzati opere, documentari, francobolli; viene inoltre istituita la celebrazione del compleanno e il Giorno della memoria del Primo Presidente. Il decreto sottolinea i “grandi meriti storici” dell’eroe che ha guidato l’indipendenza nazionale, liberando il paese da un regime totalitario; in pratica il simpatico dittatore “in un breve periodo di tempo ha trasformato l’Uzbekistan in uno stato democratico moderno, che si sta sviluppando in modo dinamico e ad un ritmo costante”.
L’Uzbekistan è una meta prediletta dai gruppi organizzati, ma ogni tanto capita di incontrare anche viaggiatori indipendenti, perfino italiani. In particolare ho incontrato due coppie, entrambe del nord Italia ed entrambe composte da ultrasessantenni. Dopo aver scambiato i soliti discorsi tipici di chi gira per il mondo e ha la mente aperta (ad esempio che siamo invasi dagli immigrati, che non possiamo mica accogliere tutta l’Africa e che è uno schifo) la signora incontrata a Samarcanda mi ha salutato perché doveva andare dal parrucchiere: "Con soli 2 euro e mezzo ti fanno una messa in piega da paura" mi aveva detto.
Con quel caldo non avevo nessuna voglia di farmi phonare i capelli, però una manicure perché no, è sempre un modo divertente di entrare in contatto con la vita del paese. Oltre alla manicure, le giovanissime apprendiste del beauty salon mi hanno convinto a farmi la tinta alle sopracciglia: è un’usanza delle donne sposate uzbeke portare le sopracciglia molto folte (d’altra parte ci servono per non far sgocciolare il sudore negli occhi!) e colorate di nero con una mistura di erbe che si chiama usma. Ho passato un’oretta divertente con tutte quelle ragazze allegre e scherzose, se non fosse per la padrona, un essere ambiguo di cui non avrei dovuto fidarmi. Al momento del conto infatti ha deliberatamente stabilito un prezzario in linea con i listini italiani, che io al momento non ho avuto la forza di contestare, tanta è stata la sorpresa. Poi però mi sono rivolta alla receptionist dell’albergo di una certa categoria dove nel frattempo mi ero trasferita, la quale ci ha tenuto a tornare personalmente con me nel centro estetico per fare una sfuriata alla stronzissima megera e obbligarla a ridarmi indietro il maltolto.
BACHI E ABBRACCI
Per raggiungere la valle di Fergana da Samarcanda ci sono varie opzioni: taxi condiviso e/o treno e/o aereo con cambio ed eventuale pernottamento a Tashkent, oppure taxi condiviso diretto (quasi 600 km, bene che vada 10 ore). Scartata la seconda opzione e vagliati orari, prezzi e disponibilità di posti per le altre combinazioni, ho optato per tornare alla capitale in macchina e da lì prendere un volo all’alba per Andijan.
La valle di Fergana è la regione più orientale dell’Uzbekistan, la più fertile e popolata del paese. La separazione decisa dai sovietici secondo la logica del divide et impera, frantumando l'area tra Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan in un intreccio di confini e enclave da psicopatici, è rimasta in vigore fino ad oggi. Visto che l’obiettivo principale era impedire ad una delle tre realtà territoriali il controllo dei due grandi fiumi della regione, le differenze etniche non furono affatto prese in considerazione e tuttora sussistono dispute e tensioni, ma anche problemi pratici: ad esempio alcune strade e ferrovie costruite in epoca sovietica oggi attraversano delle frontiere internazionali.
A giudicare dalle innumerevoli serre e dai campi di alberi da frutta e di cotone, sto atterrando nella regione più agricola del paese. Questa enorme oasi ha dato da mangiare alle popolazioni dell’Asia centrale sin dall’antichità, ma negli ultimi anni hanno dovuto iniziare a fare i conti con le conseguenze del riscaldamento globale e quindi con un generale inaridimento, un altro focolaio di tensioni da non sottovalutare. I conflitti per il controllo delle risorse idriche sono sempre più frequenti nel mondo attuale; non a caso, quando il governo del Kirghizistan annunciò l’intenzione di costruire delle nuove dighe sul fiume Naryn (limitando la quantità d’acqua destinata all’Uzbekistan), il presidente Karimov fece sentire la sua voce arrivando a minacciare la guerra.
Grazie alla consulenza di un cordiale impiegato di un'azienda automobilistica conosciuto all’aeroporto, prendo una stanza in un hotel per businessmen dotato di una scenografica piscina, nel quale scrocco pure una doppia colazione continentale.
Andijan è famosa non solo perché qui vengono prodotte la maggior parte delle auto del paese, ma anche per aver dato i natali al principe Babur, discendente di Tamerlano e fondatore della dinastia Moghul che governò l’India per tre secoli. Ogni anno, il 14 febbraio, il popolo uzbeko commemora il suo grande antenato celebrando il suo compleanno, e a lui sono dedicati monumenti, parchi, strade eccetera. Ad esempio a 10 chilometri dal centro, sulla collina Bogishamol, c’è il parco di Babur, un complesso architettonico e storico molto visitato nel quale troviamo il Museo Babur, una tomba simbolica di Babur che contiene della terra portata da Agra e Kabul (suoi luoghi di sepoltura), una statua di Babur e altre attrazioni e ristoranti.
I numerosi giardini, aree verdi, parchi divertimento affollati di adulti e bambini fanno di Andijan una località tranquilla e rilassante, ma il suo nome è legato ad uno degli eventi più terribili accaduti nella storia recente dell’Uzbekistan.
Nelle prime ore del mattino del 13 maggio 2005, degli uomini armati fecero irruzione nella prigione cittadina per liberare dei detenuti ingiustamente accusati di estremismo religioso e mobilitarono la gente per partecipare a una protesta nella piazza principale. Nel pomeriggio dunque migliaia di manifestanti disarmati erano radunati in piazza Babur per protestare contro il governo repressivo, ma anche contro la povertà e la corruzione, quando le forze governative aprirono il fuoco uccidendo forse tra le quattrocento e le seicento persone, forse molte di più. Karimov affermò il giorno seguente che la manifestazione era stata fomentata dai fondamentalisti islamici e che nessun civile era stato ucciso. Da allora non si è mai saputo il numero esatto delle vittime né l’ubicazione delle fosse comuni; inoltre nessuno è stato giudicato responsabile delle uccisioni. Anzi le autorità uzbeche hanno perseguitato senza sosta coloro che sospettavano essere coinvolti nelle proteste. Le altre potenze, che inizialmente avevano condannato i fatti, col tempo hanno ripreso i rapporti con l’Uzbekistan come se niente fosse.
Non è un caso che il massacro sia avvenuto proprio nella valle di Fergana, il cuore islamico dell’Asia centrale, dove dopo l’indipendenza dell’Uzbekistan erano nati alcuni gruppi islamisti anche radicali. Karimov ha sempre usato la paura degli estremisti islamici e delle violenze etniche come scusa per mantenere un governo autoritario: il regime ha proibito ogni attività religiosa non espressamente autorizzata, ha messo fuorilegge i gruppi islamici con più seguito, ha effettuato diverse ondate di arresti, in particolare dopo gli attentati dinamitardi di Tashkent (sia quelli del 1999 sia quelli del 2004), la cui responsabilità fu attribuita agli islamisti, anche se quasi tutti gli esperti sono convinti che entrambi fossero di tutt’altra matrice.
Ora che Karimov non c’è più, non si sa cosa potrebbe avvenire da queste parti. A causa della crisi economica le influenze radicali si diffondono, in particolare tra le giovani generazioni, e la repressione poliziesca finora è stata controproducente, perché invece di contrastare l'estremismo, più spesso gli ha aperto la strada. Probabilmente solo interventi economici e umanitari diretti ad alleviare il disagio della società possono isolare i fondamentalisti e rinvigorire l’Islam più tipico di quest’area sin dal Medioevo, ossia quello più spirituale e tollerante.
La valle di Fergana raramente viene inserita nei classici tour, perciò la popolazione, meno avvezza ai turisti, mi accoglie con un calore e un’ospitalità che a Samarcanda e Bukhara sono rare, e soprattutto senza la malizia o la tendenza ad approfittare rintracciata in talune situazioni. L’autista del mio taxi ad esempio a un certo punto si è fermato a comprare le sigarette ed è uscito dal negozio con una bottiglia d’acqua e delle gomme da masticare per me. Una studentessa innamorata dell’Italia mi ha mostrato il libro di storia che parlava di Francesco Petrarca, Lionardo Divinci, Raffaeli Santi e ci teneva un sacco che io andassi a casa sua e conoscessi la sua famiglia. Per le strade poi è tutto un susseguirsi di “Otkuda? Italia!”, oltre ad altre domande che (anche se non capisco la lingua) posso facilmente intuire perché sono sempre le solite. Sposata? Vengono mimati i baffi. Risposta: Italia. Figli? La mano parallela al pavimento si abbassa fino al livello della vita muovendosi leggermente su e giù. Risposta: occhi e palme delle mani puntati al cielo.
Sul marshrutki diretto a Margilan naturalmente ogni nuovo passeggero che sale viene subito informato con cura in merito alla mia provenienza, stato di famiglia, hotel in cui alloggio, destinazione che devo raggiungere, che poi nella fattispecie sarebbe la prestigiosa fabbrica di seta Yodgorlik. Ed eccomi qui di fronte ai bozzoli, ai rocchetti, alle matasse, ai coloranti naturali, ai telai, insieme a una guida che mi spiega le varie fasi di lavorazione. Quindi è così che nasce la seta, uno dei più grandi oggetti del desiderio dell'umanità (anche a causa della sua misteriosa origine, tenuta segreta a lungo dagli scaltri cinesi). Il pregiato tessuto ha dato il nome a una via che ha attraversato valli e montagne, steppe e fertili pianure, mettendo in contatto popoli lontanissimi e facendo circolare le idee, le invenzioni, le tecnologie di cui tutti si sono serviti. Ed è diventata un mito.
Anche l'impiegato del negozio annesso alla fabbrica risponde “Ohhhhhhhhh Italia!” sgranando gli occhi quando gli dico di dove sono, e anch’egli è convinto che l'Italia sia il primo paese al mondo per l'arte, il design, la moda. Benché la produzione di seta italiana nell'ultimo secolo abbia subito un declino fino a scomparire del tutto, sono comunque contenta di sentirglielo dire. E in fondo è di questo che sono orgogliosissima quando giro per il mondo, non certo di avere un politico che dice "prima gli italiani" o va in Europa a "sbattere i pugni sul tavolo", senza rendersi conto che, nei cuori di molta gente a tutte le latitudini, gli italiani primi lo sono già.
Una terra di frontiera
Scendiamo le scale e una delle solite piazze socialiste senza storia e senza fantasia ci si para dinanzi. Gli edifici, le colonne, le fontane sembrano ordinati a un supermercato dell’architettura totalitaria. Il palazzo di Lenin somiglia al mausoleo di Ho Chi Minh a Hanoi, quello del Parlamento con le sue colonne altissime è la solita copia di tutti i Parlamenti socialisti costruiti con in cuore la voglia di avere un proprio Pantheon. Alzo gli occhi da queste brutte tracce umane e il cielo è consolante. È il vecchio, grande cielo alto dell’Asia Centrale, con banchi di nuvole rosee appena sfiorate dal sole che sta scomparendo dietro altissime file di pioppi. Dimenticati da quarant’anni, mi tornano in mente i versi imparati al ginnasio: Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / silenziosa luna? / Sorgi la sera, e vai, / contemplando i deserti; indi ti posi. / Ancor non sei tu paga / di riandare i sempiterni calli?
(Tiziano Terzani, "Buonanotte signor Lenin")
La fila presso la frontiera di Osh è scorrevole e nessun controllo in uscita viene effettuato dalle autorità uzbeke, neanche per verificare che io abbia ligiamente conservato tutte le registrazioni rilasciate dagli hotel. L’unico lieve contrattempo avviene in ingresso, quando agli impiegati della dogana kirghisa viene il dubbio che per gli italiani sia necessario il visto.
La prima novità riguarda l’alfabeto: in Kirghizistan si usano soltanto i caratteri cirillici (e anzi il russo, insieme al kirghiso, è ancora la lingua ufficiale), a differenza dell’Uzbekistan, dove un tentativo di trascrivere l’uzbeko in alfabeto latino si è parzialmente attuato. L’accoglienza dei tassisti non è delle più pacifiche: alcuni di loro si disputano ferocemente il mio bagaglio e sta per scoppiare una rissa, che evito strappandogli di mano lo zaino e avviandomi a passo svelto verso l’auto del meno collerico di loro, che era rimasto in disparte.
Osh è la città più antica e più conservatrice del paese, nonché la seconda più grande dopo la capitale. Per alcuni secoli è stata uno dei crocevia della Via della seta e ancora oggi mantiene una posizione strategica visto che da qui si raggiungono facilmente i varchi di frontiera non solo con l’Uzbekistan ma anche con il Tagikistan e con la Cina.
Trovandosi nel cuore di quel groviglio etnico che è la valle di Fergana, Osh è abitata da moltissimi uzbeki, riconoscibili dagli ormai noti abiti a fiorellini per le donne e dai berretti ricamati a forma di bustina per gli uomini. I rapporti tra i due popoli (conviventi apparentemente pacifici ai tempi dell’URSS) sono piuttosto complicati: gli uzbeki considerano i kirghisi fondamentalmente dei coattoni pecorai (che nondimeno li trattano da stranieri), mentre i kirghisi a loro volta guardano con sospetto quei vicini storicamente stanziali e in genere più benestanti. Il primo grave scontro tra le due etnie ebbe luogo a Uzgen e a Osh nel giugno 1990, proprio quando la federazione sovietica iniziava a disgregarsi. Le vittime furono centinaia ma i militari giunti da Mosca ristabilirono l’ordine in tempi abbastanza brevi. All’epoca il paese non era ancora indipendente e il partito comunista – scrisse Terzani – aveva alimentato e poi sfruttato il conflitto razziale al fine di creare una repubblica monoetnica e scongiurare il rischio di un Turkestan indipendente, che avrebbe incluso i cinque “Stan” in un’unione islamica non gradita ai russi.
I motivi di risentimento reciproco riemersero esattamente vent’anni dopo, durante il caos che seguì la cacciata del presidente Bakiyev, quando esplose un altro conflitto, sempre a giugno, e sempre qui, a Osh e a Jalalabad. Anche in questo caso la scintilla fu una disputa di poco conto tra uzbeki e kirghisi, ma poi la violenza dilagò con un'escalation di omicidi e torture, saccheggi e incendi, che provocò ufficialmente più di 400 morti (molti di più secondo fonti non ufficiali) e centinaia di migliaia di rifugiati, tanto da costringere il governo a dichiarare lo stato di emergenza. Come nel 1990 la maggioranza delle vittime era uzbeka; e anche questa volta il regime in carica era debole ed era in corso una crisi economica. Se però durante il processo del 1990 la maggior parte dei criminali condannati era kirghisa, per i fatti del 2010 quasi tutti gli imputati e i condannati erano uzbeki; senza contare che i giudici e gli avvocati erano invece kirghisi e che un gran numero di testimoni e organizzazioni internazionali hanno sospettato il coinvolgimento dei militari e delle forze governative nei pogrom. Ancora oggi i diritti della minoranza uzbeka non vengono riconosciuti e recentemente non sono mancate schermaglie che per fortuna non sono sfociate in un vero conflitto.
L’unica attrazione turistica di Osh a quanto pare è l’appuntita collina Suleiman, sulla cui sommità si trovano una piccola moschea che risale all’epoca di Babur e un mausoleo che si crede sia stato eretto sulla tomba di Salomone (il quale, secondo la leggenda, avrebbe fondato la città). Si tratta di un luogo sacro, da secoli meta di pellegrini provenienti da varie zone del mondo musulmano e venerato in particolare dalle donne che non riescono ad avere figli. Purtroppo per scalarla bisognerebbe avere il coraggio di abbandonare l’ombroso cortile dell’ostello, avventurarsi nelle strade bollenti e poi smadonnare sotto il sole percorrendo la ripida salita. Il Kirghizistan è un paese al 94% montuoso, con un’altitudine media di 2750 metri: ero dunque certissima di trovare un gradevole clima alpino dopo dieci giorni canicolari in Uzbekistan. E invece devo constatare con sommo disappunto che anche a Osh, situata ad un’altitudine di quasi 1000 metri, la colonnina del mercurio segna 42 gradi. Solo nel tardo pomeriggio dunque mi decido a raggiungere il bazaar, decantato come vivacissimo e intrigantissimo mercato tipico dell’Asia centrale, ma nella realtà pieno di orrende cineserie e venditori imbronciati con lo sguardo incollato al cellulare.
Mi incammino allora per un lungo tratto seguendo la riva del fiume fino alla statua di Lenin, deforme nel tramonto: con il suo braccio marrone indica un futuro già passato agli eleganti invitati a un matrimonio, che si stanno fotografando a vicenda accanto a pacchiane limousine da cerimonia. Entrando nel parco adiacente, le spalle di Lenin svettano sopra all’ingresso di una palestra, di fronte alla quale si dispiega un tetto di ombrelli colorati che sovrasta una piscinetta. Le coppie di sposi attraversano trionfalmente una passerella inserita dentro ad una lunga sfilza di cuori rossi e fuxia e si fanno fotografare sotto a una copia in miniatura della torre Eiffel. Ceno in un ristorante in stile bavarese-scandinavo, con le palafitte di legno e i wurstel; in sottofondo melliflue cover di celebri pezzi pop.
Ecco, non so come altro dirlo: Osh è una città veramente brutta.
I pascoli kirghisi
Li Tartari dimorano lo verno in piani luoghi ove ànno erba e buoni paschi per loro bestie; di state in luoghi freddi, in montagne e in valle, ov’è acqua e (a)sai buoni paschi. Le case loro sono di legname, coperte di feltro, e sono tonde, e pòrtallesi dietro in ogni luogo ov’egli vanno, però ch’egli ànno ordinate sí bene le loro pertiche, ond’egli le fanno, che troppo bene le possono portare leggeremente. In tutte le parti ov’egli vogliono queste loro case, sempre fanno l’uscio verso mezzodie. Egli ànno carette coperte di feltro nero che, per che vi piova suso, non si bagna nulla che entro vi sia. Egli le fanno menare a buoi e a camegli, e’n su le carette pongono loro femmine e loro fanciugli. E sí vi dico che le loro femmine comperano e vendono e fanno tutto quello che agli loro mariti bisogna, però che gli uomini non sanno fare altro che cacciare e ucellare e fatti d’oste. Egli vivono di carne e di latte e di cacci(a)gioni; egli mangiano di pomi de faraon, che vi n’à grande abondanza da tutte parti; egli mangiano carne di cavallo e di carne e di giument’e di buoi e di tutte carni, e beono latte di giumente.
(Marco Polo, “Il Milione”)
Il Kirghizistan è un paese noto per gli spettacolari paesaggi di steppa, per i laghi alpini bluissimi, per i nomadi dagli occhi a mandorla. Una delle mete più gettonate è il lago di Song Köl, situato nella provincia di Naryn ad un’altitudine di 3016 metri. Esso è circondato da ampi pascoli estivi (o jailoo) e non ci sono strutture permanenti, ma da giugno a settembre i locali forniscono ospitalità nelle tipiche tende mobili chiamate yurte.
Non è facile arrivare fin qua partendo da Osh: il tragitto (circa 450 km) è in buona parte impervio tra spettacolari passi e vallate deserte e non è servito dal trasporto pubblico. Il CBT, l’agenzia turistica più attiva del paese, propone il trasferimento (con cambio d’auto a Jalalabad e sosta a Kazarman per la notte) a cifre astronomiche, che spero vivamente siano davvero impiegate per portare un poco di sviluppo nel paese, come loro sostengono. Tra l’altro purtroppo tutti questi fantomatici turisti zaino in spalla che starebbero prendendo d’assalto il Kirghizistan (e con cui avrei potuto dividere la spesa) io non li vedo. Ad esempio qui ci sono tre tedeschi bloccati ad Osh in attesa che gli riparino la jeep, uno svizzero in anno sabbatico diretto in Cina, un asiatico che dorme tutto il giorno e non si sa dove va; tutti gli altri sono appena partiti per il festival sui monti Alaj.
Anche Bakhtygul, la proprietaria della homestay che mi ospita a Kazarman, conferma che ci sono meno presenze dello scorso anno. Fiore della Felicità (questo è il significato del suo nome) come primo lavoro insegna inglese in una scuola superiore russa, dove i professori vengono pagati di più rispetto a chi lavora nelle scuole kirghise: “Questa divisione è uno dei lasciti del periodo sovietico, durante il quale la cultura kirghisa era praticamente sparita, infatti a scuola non si studiava la nostra storia né la nostra lingua. Ancora oggi nei villaggi si parla soprattutto kirghiso ma nelle grandi città predomina il russo.” Quando le racconto la prima destinazione del mio viaggio, mi confida che le donne uzbeke sono molto sottomesse al marito e che se una donna kirghisa si sposa con un uzbeko per lei è molto difficile adattarsi alla nuova famiglia. "D’altra parte il Kirghizistan – prosegue con orgoglio – è l’unica democrazia da queste parti, ed è un paese libero sia dal punto di vista politico che economico. L’unico problema è l’enorme corruzione".
Kazarman si trova in una posizione di grande fascino, circondata da suggestive montagne e lambita dal fiume Naryn; la maggior parte degli abitanti è dedita all’agricoltura e i vasti campi limitrofi sono coltivati a cetrioli, grano e patate. Il paese in sé è un agglomerato poco piacevole di casermoni in cemento, alcuni dei quali lasciati abbandonati chissà da quanto: è qui che devo procacciarmi del cibo, visto che stasera la homestay non fornisce la cena ai suoi ospiti. Il migliore “cafè” è chiuso perché di solito la domenica ha dato fondo a tutte le provviste durante il pasto di mezzogiorno e quello di seconda scelta ha nel menù soltanto i manti (ravioloni ripieni di carne e cipolla, indigeribili). Per fortuna proprio accanto c’è un’altra brutta struttura, non segnalata da Fiore della Felicità, che si può con molta fantasia definire ristorante: la proprietaria mi invita in cucina a dare una sbirciata ai pentoloni sui fornelli e poco dopo mi vengono serviti una zuppa e mezzo pollo allo spiedo.
In giro non c’è molto movimento, quelle poche auto scassate che girano vanno a folli velocità sulle strade disconnesse e un paio di autisti mi gridano qualcosa di incomprensibile dal finestrino. Quando chiedo a Fiore della Felicità se il problema dell’alcolismo è ancora così diffuso mi comunica compiaciuta che fino a qualche anno fa era davvero una piaga ma oggi è stato per fortuna risolto.
Il giovane e sorridente autista che mi conduce a Song Köl di norma fa l’apicoltore e non ha mai lavorato con i turisti prima d'ora; quando gli dico la cifra che è costato questo trasferimento in auto, sgrana gli occhi probabilmente accarezzando per la prima volta dentro di sé l'idea di cambiare settore lavorativo. Il giorno precedente l'affabile driver baffuto che mi aveva portato a Kazarman aveva avuto diversi problemi con il motore dell’auto, che si surriscaldava facilmente, mentre oggi il viaggio scorre via liscissimo tra paesaggi da cartolina.
Rozana, insieme alle due figlie adolescenti e al marito, mi accoglie nella yurta dove dormirò queste tre notti (in realtà il marito è quasi sempre assente e quelle che si fanno davvero il culo sono le tre donne). Nella struttura di lamiera dove si consumano i pasti, a disposizione degli ospiti c’è un tavolo sempre ben fornito di marmellate, frutta, frittelle e naturalmente tè, ettolitri di tè caldo a tutte le ore. La yurta è molto colorata e accogliente, mentre il bagno è un gabbiotto anch’esso di alluminio con un buco puzzolente nel terreno; per lavarsi i denti e il viso c’è un rudimentale rubinetto costituito da un contenitore capovolto e ci si può fare anche una specie di doccia in un altro box, con bacinelle di acqua calda e fredda.
Finalmente da ora in poi l’afa sarà solo un lontano ricordo, ma comunque fino alle 5 è ancora possibile esplorare i dintorni in maglietta: il lago è tanto grande e ondoso che sembra un mare, tutto intorno buoni paschi per loro bestie (che poi sarebbero i cavalli selvaggi, gli sparuti asinelli, le enormi mandrie di pecore, le mucche), prati sporadicamente punteggiati da chiazze di stelle alpine e diversi campi di case tonde di legname, coperte di feltro, quasi tutte atte ad ospitare turisti (che al momento, comunque, scarseggiano). Alcune vetuste Lada dai colori sgargianti hanno portato fin qui i gitanti kirghisi, che ora sono seduti a fare il picnic con i loro buffi cappelli di feltro e i denti di metallo che scintillano. Con la mano mi fanno segno di avvicinarmi e – una volta esaurito il modesto vocabolario a mia disposizione – è il momento di assaggiare il kumis, la schifida bevanda ottenuta dalla fermentazione del latte di giumenta; per fortuna qualcuno fa girare una più potabile bottiglia di vodka.
Quando faccio ritorno al mio accampamento, dei grigi nuvoloni hanno velocemente ingombrato il cielo. Mi rifugio nella tenda, un po’ spaventata dai tuoni fragorosi e dal vento formidabile che fa scricchiolare vigorosamente i pali di legno e oscillare tutta la struttura. Sbirciando dalla spessa stuoia che funge da porta, intravedo Rozana che mi fa segno di rientrare e sua figlia appesa ai cavi di due yurte, nello sforzo di non farle volare via: le guance sono due pomelli rossi e gli occhi mongoli due fessure contro la tempesta.
Alle sette è tutto finito, le tende sono ancora in piedi e la cena è puntualmente servita in tavola. Quando ormai è buio e mi appresto a ficcarmi sotto le coperte leopardate, una quindicina di coreani, profughi da un altro campo yurte collassato, chiede ospitalità da noi e la tenda tonda diventa un agglomerato di corpi europei e asiatici riscaldati dalla stufa che va a tutto vapore.
L’indomani sera le nostre yurte sono al completo: due polacche e un italiano sono arrivati a cavallo, una coppia di americani è giunta da Osh come me ma pagando una cifra ancor più spropositata al CBT, e poi molti norvegesi, americani, francesi, israeliani, neozelandesi eccetera provenienti da Kochkor. A parte passeggiare intorno al lago o andare a cavallo non c’è molto da fare, se non godersi l’aria di montagna, la luce epica e i movimenti del sole e della luna. A differenza di Leopardi non invidio la greggia beata e libera d’affanno, che gran parte dell'anno senza noia consuma in quello stato; a me, se seggo sovra l’erbe, all’ombra, magari a leggere, nessun fastidio m'ingombra la mente e non mi assale alcun tedio. D’altra parte Rozana e le figlie non fanno altro che lavorare duramente e in altri yurt camp stanno faticando parecchio a rimettere in piedi le tende collassate e insomma mi poteva andare peggio.
La sera però, quando miro in cielo arder le stelle, è inevitabile qualche elucubrazione filosofica: a che scopo così tante luci? qual è il senso dell’universo infinito? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono?
La domenica c’è grande folla convenuta per il National Horse Games Festival, uno show culturale organizzato dal famigerato CBT qui a Song Köl. Dopo una presentazione allietata da balli e canti tradizionali, gli artigiani illustrano agli occidentali come si realizza un tipico tappeto kirghiso di lana pressata, la nostra Rozana ci mostra come si preparano le frittelline tipiche (i boorsok), e finalmente il clou della giornata: gli horse games. Il gioco a cavallo più bizzarro è l'ulak tartysh, molto simile al buskashi afgano, in cui i partecipanti devono strapparsi di mano una carcassa di capra (che tra parentesi era stata ammazzata proprio dal marito di Rozana) e riuscire a infilarla dentro a una buca nel terreno. Quindi è il turno del romantico kyz kuumai, che ai più avveduti ricorderà l'antica pratica – ancora in vigore – del rapimento delle donne ai fini del matrimonio: un ragazzo e una ragazza, ognuno sul proprio cavallo, iniziano una specie di inseguimento; se l'uomo riesce a raggiungere la donna può scroccare un bacio mentre se non la raggiunge lei può inseguirlo e colpirlo con una frusta. A seguire il più banale wrestling a cavallo e infine un poco appassionante gioco in cui i cavalieri devono chinarsi verso il prato a raccogliere delle monetine.
Alla fine dei giochi torno a Kochkor con un Suv guidato dal marito di Rozana, il quale dunque era sempre via non per ucellare o per fatti d'oste (come avevo pensato prestando ascolto alle parole di Marco Polo), bensì per svolgere il servizio di navetta del CBT.
Kitschizistan
Possibile che nessuno dica mai che il socialismo è fallito perché non ha rispettato la libertà dell’uomo; che il problema ora non è solo quello di riempire le pance della gente, ma anche quello di ridare un senso alla loro vita; che, oltre a stimolare la benedetta economia, vanno stimolate anche le teste, va stimolata la fantasia, va incoraggiata la poesia? Questo passare da un materialismo a un altro non preoccupa nessuno’? Non è pericoloso?
(Tiziano Terzani, "Buonanotte signor Lenin")
I turisti stranieri, facilmente riconoscibili dall’abbigliamento tecnico di montagna, sono raggruppati ai tavoli di un ristorante sulla via principale e tra loro discutono delle loro mete d’alta quota passate e future, che poi sono le stesse per tutti. Le casette con i tetti di lamiera, i muri senza intonaco, i cancelli scrostati, i pali della luce, le insegne in caratteri cirillici, le vecchie Lada, le residue falci e martello arrugginite, così come gli anonimi cittadini che ci vivono, non accendono alcuna curiosità in loro, e d’altra parte i residenti li ricambiano con la medesima olimpica indifferenza. Kochkor, circondata anch’essa da prestigiose montagne, è in effetti ancora più brutta di Osh e Kazarman.
Al piano di sopra del “Retro coffee” ci sarebbero anche dei posti letto ma a quanto pare è impossibile farsi una doccia, mentre il bagno – sebbene siamo in città – è un buco nel terreno situato dietro una porta, nel retro, che emana lo stesso fetore nauseabondo di quello di Song Köl. Anche l’ufficio del CBT ha un fosso maleodorante al posto del gabinetto, nonostante le colossali cifre che chiedono per le loro escursioni. Ad esempio, per raggiungere Tash Rabat (232 km) la tariffa ammonta a circa 100 dollari; per questo, essendomi ripromessa di non farmi più fregare, raggiungo Naryn con un taxi condiviso e solo lì contratto con la seconda agenzia del paese (meno ladra) per percorrere l’ultimo tratto – quello non servito da alcun mezzo pubblico.
Viaggiando tra le strade kirghise, è evidente che gli autisti hanno tutti questa curiosa fissazione di tagliare le loro strade piene di curve, illudendosi ingenuamente che diventino rettilinei. Sono dunque costretti ad invadere la corsia contraria ogni volta che la strada gira a sinistra, reinserendosi nella propria soltanto quando si stanno per scontrare con il mezzo che procede nella direzione opposta. Inizialmente questo vezzo tende a terrorizzare il turista, il quale tuttavia – dopo un congruo numero di episodi che vanno a buon fine – in genere prende confidenza con i costumi tipici del luogo.
Il panorama montuoso è quasi sempre ammirevole e ogni tanto fiorisce un originale cimitero con le tombe a forma di yurta: questi, per quanto ho potuto vedere, sono gli unici monumenti di un certo interesse storico-artistico di tutto il paese. D'altra parte, quali tracce vuoi che lasci un popolo nomade? Anche fuori città ogni tanto il kitsch fa capolino nei cippi, negli archi e negli anacronistici simboli che qua e là danno il benvenuto in qualche illeggibile località, provincia o passo che sia, eredità di quella religione della bruttezza che è stato il comunismo. Nuove scintillanti moschee giocattolo costruite dopo l’indipendenza fanno da contraltare alla ruggine e al cemento armato.
Ogni volta che l’autista viene fermato dalla polizia, prima di scendere preleva una o più banconote dal portafogli e le sistema dentro al libretto dei documenti; quindi consegna il tutto al poliziotto, il quale non eleva alcuna contravvenzione e anzi lo saluta con una gioviale stretta di mano. Insomma, non esagerava Fiore della Felicità quando mi parlava della dilagante corruzione del paese.
Tash Rabat è un caravanserraglio del quindicesimo secolo ancora ben conservato che si trova a un centinaio di chilometri a sud di Naryn. Esso è situato nel bel mezzo di una lunga vallata deserta attraversata da una strada che conduce al Passo Torugart e al lago Chatyr-Kul, ossia al confine con la Cina. Questa volta ho prenotato tramite facebook l’accommodation in uno yurt camp, e ancora non ho ben capito come abbiano fatto a rispondermi così lestamente visto che il telefono non prende e non c’è traccia di wifi. L’esperienza nella yurta l’avevo già fatta e dunque qui preferisco dormire in una costruzione di cemento, seppure su un tappetino steso per terra, anche perché le temperature sono crollate e piove a dirotto.
Approfittando dei rari sprazzi di sereno, raggiungo il caravanserraglio (nonché ex monastero nestoriano del Decimo secolo) e visito le stanze a cupola, nello sforzo di immaginarle piene di mercanti stravolti di stanchezza e vocianti a cena, con la puzza di sudore, di escrementi di cavallo e dei ben noti buchi nel terreno. Sul prato di fronte, un'allegra compagine famigliare sta festeggiando i sessant’anni della nonna con abbondanti libagioni, mentre nell’unico altro campo di yurte nei paraggi è in corso una spassosa partita di pallone tra turisti e indigeni. Intorno sono sparsi alcuni ex vagoni dipinti vivacemente e usati come abitazione, sporadiche mandrie di pecore e cavalli e grasse marmotte che fischiano nei prati.
Anche Tash Rabat è una tappa discretamente frequentata dagli eroici turisti in Kirghizistan. A cena nella grande yurta una grande tavolata è occupata da un gruppo di ciclisti trentini con abbigliamento tecnico impeccabile; con i norvegesi, americani e olandesi seduti vicino a me non è scattato molto feeling, ma per fortuna mi faccio due risate con dei viaggiatori spagnoli prima di affrontare il grande gelo stellato per andare a lavarmi i denti.
Dopo 24 ore di permanenza, preso atto delle temperature inospitali, dei frequenti acquazzoni e dell’altitudine che mozza il respiro e appesantisce la testa, considerato il fatto che tutti i turisti se ne sono andati chi in Cina e chi a cavallo e che la vallata l’ho percorsa in lungo e in largo, e soprattutto approfittando di un autista altrui che è in procinto di tornare a Naryn con la macchina vuota, decido di andarmene prima del previsto.
Il lago caldo
Fra le attrattive del territorio ci sarebbero le arti della falconeria oppure un certo canyon delle favole dai molti colori, ma ciò che mi attrae maggiormente è un laghetto salato non lontano dalla costa, ufficialmente noto come Solenoye Ozero. Apparentemente sembrerebbe un lago come tutti, con un sacco di gente in costume che fa vita da spiaggia, se non fosse che tra i normali bagnanti si fanno notare alcuni sosia di Diabolik. Infatti, basta fare una breve passeggiata intorno al lago per scoprire dei giacimenti neri come petrolio, che contengono esseri umani a mollo nel fetido liquame, nella speranza di ricavare dei benefici in termini di funzionalità articolare o di morbidezza della pelle. Mi trovo, in pratica, presso l’equivalente kirghiso del mar Morto: anche qui l’elevata salinità ti tiene facilmente a galla, ma ci vogliono parecchie docce per togliere di dosso l'olezzo.
A questo punto del viaggio, il capoluogo Karakol, la sorgente d’acqua calda di Altyn Arashan, così come le falesie di arenaria rossa del canyon di Jeti-Öghüz, sono stati definitivamente archiviati e non mi resta che tornare a Bishkek per trascorrere l’ultima giornata prima del rientro.
La città più bella del Kirghizistan
L’itinerario del minibus si snoda verso nord tra le belle montagne spoglie dell’Asia centrale: ai lati della strada piena di curve ogni tanto spuntano mini yurte e bancarelle di mele, pesce essiccato, bibite fresche. L’ultimo tratto prima di Bishkek è un rettilineo parallelo al confine col Kazakistan, segnato dal fiume Chui.
La capitale del Kirghizistan, appollaiata ai piedi dei Monti dei Kirghisi, è una città relativamente nuova, costituita da una griglia di ampi viali fiancheggiati da canali di irrigazione e grandi alberi, numerosi parchi verdi, edifici con facciate in marmo e sgraziati condomini di cemento sovietici. In confronto al resto del paese, sembra addirittura una bella città.
In epoca sovietica si chiamava Frunze, in onore di un rivoluzionario bolscevico considerato un serio pretendente al potere dopo la morte di Lenin; fu Stalin che, dopo averlo fatto "misteriosamente" sparire, gli dedicò una città. Dopo l’indipendenza fu ribattezzata Bishkek, che sarebbe la zangola con cui si rimesta il latte di cavalla: Terzani sosteneva che il termine si riferisce anche al “bastone con cui la donna si consola in assenza del marito” e che “nessuno chiama la città col suo nuovo nome e certo non la chiamano così le donne kirghise che arrossirebbero imbarazzate a pronunciare quella parola in pubblico”.
La mia prima tappa è l’Osh Bazaar, immenso agglomerato di negozi e bancarelle all’aperto e al chiuso, attraversato da strade trafficatissime e ingorghi deliranti di bipedi e mezzi. Anche questo, come tutti i mercati visti in Kirghizistan, non è né colorato né affascinante come l'accostamento delle parole mercato e orientale potrebbe far pensare. L’area più interessante è quella in cui le contadine dai vestiti sintetici e i fazzoletti in testa smerciano meloni e cocomeri, cavoli e pesche, mais e latte di cavalla, staccando comunque raramente gli occhi dallo smartphone. Anche qui non ho trovato traccia dell’artigianato locale: per acquistare qualche oggetto tipico di buona fattura (ad esempio i cappelli e i tappeti tradizionali di feltro) bisogna entrare in uno dei moderni negozi sulla Chuy Avenue e lasciargli un'ingiustificata quantità di denaro.
Su questo viale infinito che taglia tutta la città sorgono, uno dopo l’altro, praticamente tutte le cose da vedere a Bishkek. Il museo zoologico, l’università internazionale, la piazza della Filarmonica, cinema, bar, ristoranti e naturalmente Ala Too square, la piazza principale. Si tratta di una scenografica e immensa distesa di cemento ingentilita da aiuole fiorite, che un tempo si chiamava piazza Lenin: è molto frequentata sia di giorno sia di sera, quando parte uno spettacolo di luci e suoni sincronizzati con le fontane. Dall’altra parte della strada si staglia la statua di Manas, l’eroe del poema epico alla base della letteratura kirghisa, mentre la statua di Lenin che un tempo godeva di una posizione centralissima è stata confinata alle spalle del cubo bianco che ospita il Museo di storia.
Qui hanno avuto luogo importanti manifestazioni politiche, sia ai tempi sovietici sia dopo l’indipendenza. Il 7 aprile del 2010 per esempio scoppiarono dei violenti scontri tra la polizia e i dimostranti, che chiedevano le dimissioni del presidente Kurmanbek Bakiyev e protestavano contro l'aumento del prezzo del carburante: il bilancio fu di almeno 40 morti, commemorati dallo scenografico monumento agli eroi.
Nei paraggi del parco Panfilov, un giardino a forma di stella, sorge un sofisticato ristorante dove mi godo l’ultima cena kirghisa gomito a gomito con gli esponenti della Bishkek bene. La serata e l'intero viaggio si concludono in un locale all'aperto ai margini dell’Oak Park, dove brindo con uno shot di vodka alle tre settimane trascorse nel variegato territorio del Turkestan, ammiccando al cantante della rock band russofona che si esibisce egregiamente sul palco.
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