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«Com’è possibile che le guardie ti abbiano colta così di sorpresa?» dico.
«Probabilmente c’era qualche telecamera nascosta che ci stava riprendendo. Hai notato quante telecamere ci sono in Iran? Sono ovunque.»
Meshia ha ragione. È stata una delle prime cose che ho notato non appena sono arrivata qui. Fuori dai negozi ci sono telecamere, agli angoli delle strade ci sono telecamere, sui semafori ci sono telecamere, nei parchi ci sono telecamere, ovunque ti giri c’è una telecamera, anche nelle zone più remote del Paese. Meshia mi rivela che le videocamere sono attrezzate per il riconoscimento facciale.
«Per questo motivo hanno arrestato così tante persone durante le proteste. Le telecamere registrano i volti dei manifestanti e poi le guardie vanno a prenderli a casa. Sei sicura di non aver mai partecipato alle proteste?» mi chiede.
«No, Meshia. Non ci sono mai stata» rispondo.
«E perché ti hanno portata qui?» insiste.
«Sono due settimane che mi faccio la stessa domanda. So soltanto che, più passa il tempo, più ho paura.»
(...)
«Alessia, io sono stata arrestata per aver scritto su Twitter che il popolo iraniano non deve arrendersi, che dobbiamo rimanere forti e continuare questa battaglia contro il regime. Mi sono venuti a prendere a casa, tre ore dopo. L’Iran è un Paese molto pericoloso. Secondo il regime, tutti i turisti sono spie, sono stati arrestati tanti stranieri come te, senza ragione.»
«Dopo quanto tempo sono stati liberati?» le chiedo, nonostante abbia il terrore di scoprire la risposta.
«Dipende dai casi. A volte viene effettuato uno scambio di prigionieri tra le due nazioni interessate, questa trattativa può richiedere settimane, mesi o, nella peggiore delle ipotesi, anni…»
«Ho tanta paura, Azar. Non voglio passare anni della mia vita in una prigione.»
«Secondo me entro Natale verrai liberata. Non resterai qui più di tre mesi. Me lo sento.»
«Tre mesi sono meglio di un anno, però mi sembrano comunque una vita» dico agitandomi ancora di più.
«Un giorno alla volta, Alessia, un giorno alla volta.»
Io e Azar rimaniamo a parlare fino a quando non viene servita la cena.
Ha quarantadue anni, scopro, non è sposata e non ha figli. La sua famiglia vive a Shiraz, mentre lei ha affittato un appartamento a Teheran, che condivide con il suo cane.
Azar mi spiega che i cani sono considerati impuri, dalla legge islamica. Agli occhi del regime, i cani sono anche un simbolo di quell’“occidentalizzazione” che si voleva frenare. Molto spesso la polizia arresta chi passeggia per strada con il proprio cane o addirittura chi li trasporta in auto.
Solo ora mi rendo conto che non ho mai visto cani al guinzaglio in giro per la città. Azar mi dice che sono in tanti ad averne uno, ma devono tenerlo nascosto.
(...)
«Simin non ha nulla a che fare con le proteste, vive barricata nella casa dei suoi genitori, ma è sposata e ha un figlio che non abita con lei da tre anni.»
«È per questo che l’hanno arrestata?» chiedo.
«Le guardie sono arrivate a casa sua senza preavviso, e l’hanno portata via senza darle alcuna spiegazione. Il marito di Simin era un uomo violento, che l’ha picchiata più volte e ha anche cercato di soffocarla. Dopo ripetuti episodi di violenza, Simin ha chiesto il divorzio. Durante il processo di separazione, il giudice aveva deciso di affidare il figlio esclusivamente al padre, il quale aveva continuato a ostacolare ogni tentativo di Simin di vederlo: non può nemmeno avvicinarsi al bambino senza rischiare di peggiorare la sua situazione legale. Però Simin mi ha confessato di spiare il figlio ogni volta che esce da scuola, si nasconde dietro un albero, semplicemente per osservarlo da lontano.»
Simin sa di aver fatto la scelta giusta chiedendo il divorzio, ma non aveva previsto quali disastrose conseguenze ci sarebbero state. Il marito ha usato ogni mezzo a sua disposizione per convincere il giudice a dargli la custodia esclusiva del bambino.
Ogni volta che ha l’opportunità di parlare con il suo avvocato, Simin chiede notizie sulle possibilità di ricorso e sui modi per poter rivedere suo figlio. Non ha idea di quanto tempo ci vorrà, ma sa che non smetterà di lottare, anche ora che è stata rinchiusa qui a Evin. Perché non c’è nulla al mondo che sia più importante per lei del suo bambino.
(...)
«Vashti non ha fatto nulla, è stata arrestata ingiustamente» mi spiega. «Era a casa quando gli agenti sono venuti a prenderla, accusandola di aver partecipato alle proteste, ma non è vero.»
Shahla aggiunge che molte persone sono state arrestate così, solo perché sono state registrate dalle telecamere mentre si trovavano nelle vicinanze delle proteste.
«Se ti trovi nel posto sbagliato al momento sbagliato la polizia ti considera automaticamente una manifestante.»
«Ma com’è possibile?» chiedo, anche se ormai so fin troppo bene come vanno le cose in Iran.
Shahla annuisce, gli occhi fissi nei miei. «Purtroppo funziona così in questo Paese, l’ingiustizia e la repressione sono all’ordine del giorno.»