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Nei primissimi anni, nel nome del «sistema di cooperazione nazionale» approvato il giorno stesso dell’insediamento del governo, Orbán prende il controllo della Corte costituzionale e dell’apparato giudiziario, fa in modo che un suo sodale, Pál Schmitt, diventi presidente della repubblica, sottomette l’intera rete dell’informazione, pubblica e privata, ai suoi dettami, cambia la legge elettorale per garantirsi un regno lungo e incontrastato. Per consolidare il suo consenso tra gli ungheresi, sferra violente campagne contro i migranti e la comunità lgbtq+ e cavalca tumultuosamente la ferita storica del Trattato del Trianon. L’Europa, da cui riceve una montagna di fondi, diventa il nemico.
«Nessun ungherese resta indifferente quando si parla delle gemme e dei memoriali architettonici, delle tombe dei potenti sovrani e delle case natie dei grandi poeti nei vecchi villaggi ungheresi in Transilvania (Romania), “Ungheria superiore” (Slovacchia) e Vojvodina (Serbia). Romanzi e poemi, opere d’arte e saghe familiari tengono vivo il ricordo di un passato irrimediabilmente perduto. Bisogna sempre ricordarsi che l’Ungheria perse due terzi del suo territorio e tre quinti della sua popolazione; dopo il 1920 oltre tre milioni di ungheresi finirono sotto dominio straniero.» Appena rieletto primo ministro, Orbán riconosce il passaporto ungherese – e il diritto di voto – a tutte le minoranze magiare che vivono all’estero, anche se non hanno la residenza in Ungheria. Una generosa concessione fondata sullo ius sanguinis che gli garantirà una valanga di consensi in più. E per titillare il revanscismo da «trauma del Trianon», dichiara il giorno della firma del trattato, il 4 giugno, «Giornata della solidarietà nazionale». Un modo, anche, per tenere a bada il nazionalismo di Jobbik.
In dodici anni, Orbán ha modificato dieci volte la «sua» Costituzione, varata nel primo anno di governo e ribattezzata «Legge fondamentale», e lo ha fatto sempre e solo per puntellare il suo potere. Tra le prime decisioni del nuovo Parlamento stradominato da Fidesz, spicca anche la legge che aumenta il numero dei giudici costituzionali da undici a quindici. Cambia pure il meccanismo di nomina dei togati, ed entro un anno Fidesz ne designa sette. Il risultato è che le innumerevoli norme in odore di incostituzionalità decise da allora in poi non incontrano alcuna resistenza da parte dell’organo chiamato a controllarle. Negli anni a venire, la Corte costituzionale cadrà totalmente nelle mani di uomini vicini al premier. Anche il nuovo presidente della repubblica eletto nel giugno 2010, Pál Schmitt, ex europarlamentare di Fidesz, promulga ogni legge senza obiezioni. Del resto, nel suo discorso di insediamento, il nuovo capo dello Stato ha promesso che «non sarò un ostacolo all’ambizione del governo di legiferare; piuttosto, sarò un motore».
Poco dopo, Orbán si sceglie anche il nuovo procuratore generale, un altro ex politico di Fidesz, Péter Polt. Il suo mandato viene allungato da sei a nove anni e per cacciarlo serve un voto a maggioranza assoluta in Parlamento. Soprattutto, nel giro di pochissimo tempo, esattamente come avverrà in Polonia dal 2015, il sistema giudiziario finisce sotto i tacchi di Fidesz. Centinaia di giudici vengono cacciati e la Corte suprema viene sostituita da un sistema duale costituito dalla Curia, la Corte suprema ungherese, che giudica le sentenze, e dall’Ufficio nazionale giudiziario, il cui presidente nomina e caccia i togati. A capo di quest’ultimo, potente organismo viene designata una stretta consigliera di Orbán, Tünde Handó. La Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che vigila sull’indipendenza dei sistemi giudiziari, si allarma immediatamente, denunciando l’attacco all’autonomia dei giudici e criticando i mostruosi poteri concentrati in una persona sola. «In nessun altro Stato membro del Consiglio d’Europa», che riunisce 46 Paesi tra cui i 27 dell’Unione europea, «poteri così importanti, incluso quello di selezionare i giudici e i dirigenti, sono affidati a una singola persona.» E, guarda caso, la giudice Handó, è sposata con uno dei «padri» della nuova Costituzione magiara, József Szájer.
Dal 2011 Orbán cambia anche, e più volte, la legge elettorale, rendendola sempre più generosa con il partito che vince le elezioni e ridefinendo i perimetri dei collegi elettorali per essere sicuro di conquistare anche le aree dove potrebbe vincere l’opposizione, introducendo in Ungheria quello che gli americani chiamano il gerrymandering, cioè la manipolazione dei distretti elettorali che ne ridisegna i confini per garantire la vittoria a una determinata forza politica.
Alle proteste di piazza che chiedono di fermare la deriva autocratica, già chiarissima fin dai primi mesi di governo, e alle istituzioni europee – Commissione e Corte di giustizia – che cominciano da subito ad aprire contenziosi con Budapest, Orbán contrappone una retorica vittimista e rabbiosa. Pretende «rispetto per l’Ungheria» e grida alle piazze che «non saremo una colonia!». La questione della «sovranità nazionale» diventa un perno centrale della traiettoria dell’Ungheria orbániana. E nel giro di due anni, il premier magiaro piazza i suoi fedelissimi ai vertici di tutte le istituzioni più cruciali del Paese: dopo la presidenza della repubblica, la procura generale, la Corte costituzionale, parte l’arrembaggio alla banca centrale, alla neonata Autorità per i media, all’amministrazione fiscale. «Dopo che Orbán ha riempito le istituzioni governative e statali con gente fedele a lui, Fidesz è diventato indistinguibile dal governo e dallo Stato» scrive Zsuzsanna Szelényi.
All’occupazione sistematica di ogni angolo della vita pubblica si affianca l’affidamento dell’economia privata ad amici e sodali. «Gli uomini d’affari vicini a Orbán e alla sua famiglia hanno accesso alle proprietà di aziende strategiche e altamente profittevoli, spesso in assenza di concorrenti.» Nel giro di un paio d’anni Lőrinc Meszáros, un idraulico di Felcsút e amico d’infanzia del premier, diventa proprietario di un numero impressionante di aziende e l’uomo più ricco dell’Ungheria. Si dice che funga da prestanome di Orbán, per nascondere le mostruose ricchezze che il premier ungherese accumulerà negli anni. Sicuramente è il simbolo più conclamato della sua tirannide familista. Un dispotismo che ha anche lo scopo di oscurare l’opposizione non solo nei media, ma persino nel mercato dei cartelloni pubblicitari: le aziende del settore finiscono nelle mani di uomini di Fidesz che riempiono le città con la propaganda orbániana ed escludono le forze politiche avversarie.
Nel 2018 uno degli ultimi spazi di informazione politica rimasti accessibili all’opposizione, quello dei manifesti elettorali, viene spazzato via da una legge che li vieta, con la scusa della tutela del decoro urbano. Quando l’opposizione sfida quell’assurda legge nella città di Nyíregyháza, i manifesti elettorali vengono rimossi dal comune e i costi della «pulizia» sono addebitati ai partiti «ribelli». Nessuno tocca invece i manifesti dei candidati di Fidesz, che restano appesi in tutta la città.