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Esercizi di memoria a Sarajevo
Al telegiornale, negli anni Novanta, tutti correvano a Sarajevo: avevano le giacche con le spalline e la permanente come noi. I jeans a vita alta gli andavano larghi e spesso dovevano tenerseli su con una cintura o una corda di fortuna, a volte con dei brutti maglioni di lana infilati dentro. Nelle strade c'erano carcasse di tram, auto, cassonetti usati come ripari dalle granate e tutti questi cittadini casualmente capitati nelle riprese, atterriti e col fiatone, trasportavano qualcosa. Nelle case al posto delle finestre tenevano dei fogli di plastica trasparente con su scritto UN e quasi tutti i palazzi erano pieni di buchi. Ma gli abitanti della città erano un esempio per tutti noi poiché si sforzavano di restare umani, coltivavano le piante, facevano i concorsi di bellezza e andavano ai concerti e al cinema, anche se nessuno li aiutava. Qualche importante politico ogni tanto faceva la parte, appariva in televisione, a Sarajevo, con il giubbotto antiproiettile, e poi se ne tornava comodamente a casa e li lasciava là sotto le bombe, in fila per l'acqua, bersagli mobili con la permanente e le spalline come noi.
Vent'anni dopo sono arrivata a Sarajevo a bordo di un autobus che proveniva da Mostar: sono apparse delle concessionarie di auto tedesche e dei brutti condomini alla moda socialista. Alcuni portavano ancora incise le ingiurie della guerra, ma non la scintillante moschea del quartiere di Mojmilo, regalo della famiglia reale saudita.
Vicino alla stazione mi sono fermata a mangiare una pita di carne, che in Bosnia si chiama burek. La pita è una sottilissima sfoglia ripiena a forma di tubo, che poi viene avvolta per formare una spirale nella teglia. Come ci aveva riferito Dario a Blagaj, era molto importante nella cultura musulmana tradizionale che le donne sapessero fare una perfetta sfoglia, larga e sottile.
Costeggiando la Miljacka, un taxi mi ha portata all'ingresso della Baščaršija, il vecchio mercato ottomano del XV secolo, con i cortili dei caravanserragli e le classiche casette in legno e calce, la maggior parte delle quali oggi trasformate in ristoranti, bar e botteghe di souvenir in purissimo stile ottomano. Come a Mostar, anche a Sarajevo i turchi hanno lasciato moschee e madrase, bazar e bagni, ma a quell'epoca risalgono anche la vecchia chiesa ortodossa e la vecchia sinagoga (i primi ebrei sefarditi, scacciati dalla Spagna, arrivarono già alla fine del Quattrocento). Se l'intera Bosnia rappresenta il punto di incontro fra Oriente e Occidente, la città vecchia di Sarajevo ne è proprio il cuore: quando via Sarači si allarga e prende il nome di Ferhadija (elegante via pedonale molto frequentata per i negozi e i caffè) si passa dal quartiere ottomano-islamico a quello di epoca asburgica, dove sorgono anche le più recenti chiese cattoliche e ortodosse.
Oggi, le sere estive nella Baščaršija sono allegre e adatte a tutti i palati: gli avventori si suddividono equamente tra chi beve alcolici e ascolta musica da discoteca e chi beve tè, fuma la shisha e ascolta musica tradizionale. I veli e le bevande analcoliche, a quanto pare, sono diventati di moda, anche perché tra i clienti si mescolano sempre più turisti mediorientali. In particolare la meta è molto gettonata tra i popoli del Golfo, attratti dalla cucina Halal e dalla natura molto più verde e rigogliosa delle loro lande desertiche. Per la precisione il quartier generale di kuwaitiani, qatarini, emiratini è il sobborgo di Ilidža, vicino alla sorgente del fiume Bosna, dove sorgono hotel abbastanza lussuosi da rispondere ai loro elevati standard.
Vicino alla cattedrale del Sacro Cuore una grande insegna nera attira la mia attenzione. La Galerija 11/07/95. Srebrenica exhibition è il primo memoriale del Paese, fondato per non dimenticare quello che è stato definito "il più spaventoso massacro in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale". Guardando il Memorial Video torniamo a quei giorni di luglio del 1995 in cui, dopo la resa di Srebrenica, circa ottomila maschi musulmani furono portati via e massacrati dalle truppe speciali del futuro criminale di guerra Ratko Mladić. Le terrificanti foto in bianco e nero di Tarik Samarah si concentrano sul dopo (fosse comuni, riesumazioni di cadaveri, campi profughi), il montaggio serratissimo di foto in bianco e nero di Paul Lowe (con la “Summer Overture” di Mansell che attorciglia le budella in sottofondo) è dedicato all'assedio di Sarajevo e molte altre testimonianze esplorano il lato oscuro degli anni Novanta al di là dell'Adriatico.
Al numero 7 di Ferhadija c'è un altro museo nuovo di zecca, aperto soltanto da 5 giorni. Museum of crimes against humanity and genocide 1992-1995 c'è scritto nel cartello pubblicitario sulla strada. Le indicazioni sono chiare: entrare in un cortile, suonare al citofono e salire al primo piano.
«Ti ho vista ieri sera sulla Miljacka», mi dice un tizio sui quarant'anni alla reception. Gli ho fatto una domanda sul museo, ma lui non capisce bene l'inglese. «Sono stato prigioniero in un detention camp in Republika Srpska, devi aver sentito parlare di Žepa vero? Lì mi hanno torturato.» Suda, anche se non fa molto caldo. Io non so cosa dire e gli tocco leggermente il braccio. Il museo è un pugno nello stomaco: contributi di vario genere illustrano i crimini commessi in Bosnia durante la guerra, soprattutto nei campi di detenzione, e una sezione è dedicata al lavoro del Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia. Osservando le fotografie dei prigionieri pelle e ossa, le fruste e i manganelli esposti nelle bacheche, i brutti maglioni insanguinati dei manichini, io penso in continuazione al tizio della reception e mi dispiace tantissimo che ieri non mi abbia fermata quando mi ha vista che camminavo da sola sulla Miljacka.
C'è molta gente sul bastione giallo ad aspettare il tramonto. Siamo tutti affacciati sul catino di Sarajevo, con il suo fiume e i suoi ponti, i suoi cimiteri e i suoi minareti, aspettando che il sole compaia almeno un secondo nel cielo opaco prima di sparire definitivamente dietro le montagne olimpiche. Mi sembra di stare nella scena finale del film "Benvenuti a Sarajevo", dove centinaia di cittadini salgono alla fortezza per partecipare ad una manifestazione per la pace – manca solo il violoncellista che suona l'Adagio di Albinoni.
Il sole si degna di apparire quando ormai ho perso le speranze e sto camminando in discesa tra le lapidi a perdita d'occhio. È un sole gigante tagliato a metà da una nuvola invisibile. Due semicerchi color sangue accanto alla torre della televisione.
Racconto di viaggio "NEL CUORE DEI BALCANI. Esercizi di memoria tra Mostar e Sarajevo"