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Peja
A Peja è giorno di bazar: a parte i formaggi e le verdure, gli oggetti in legno e i vestiti tradizionali, il resto è paccottiglia inguardabile. In giro è un trionfo di paillettes, perline, tessuti color oro e argento, chiassosi abiti acrilici lunghi fino ai piedi, lucidi e pieni di balze e volant, indossati da manichini storti e pieni di ferite, con finti capelli arruffati, a volte privi di arti. Il target di riferimento penso che sia costituito anche dai kosovari immigrati in Svizzera e Germania che tornano per le vacanze e come minimo saranno invitati a un paio di matrimoni.
È molto triste constatare che una buona parte delle rimesse dei kosovari all'estero (che costituiscono il grosso dell'economia del Paese), vengano sprecate in matrimoni da più di 20mila euro. L'altra categoria commerciale più presente in città (non a caso) sembra dunque quella dei regali di nozze, e poi vengono le rivendite di qebab (che saturano l'aria di fumo profumato) e quelle di cd, perché pare ci sia tutto un mondo di musica kosovara che io non conoscevo.
Tra le moschee e le chiese cristiane, e anche fuori città, tra una cascata e un cartellone di promozione turistica, molte lapidi di marmo grigio o nero commemorano ex combattenti dell'UCK, l'Esercito di Liberazione del Kosovo, eroi per qualcuno, spietati terroristi per molti altri. L'attuale primo ministro kosovaro, Hashim Thaçi detto "serpente", ne era uno dei leader, prima di assumere il governo del Paese e condurlo all'indipendenza − prima anche di essere accusato di una serie di nefandezze, come il traffico di droga e armi, l'estorsione, lo sfruttamento della prostituzione. Dovunque sventolano le bandiere con l'aquila bicipite nera su sfondo rosso, solo a volte affiancate dalla bandiera ufficiale del Kosovo: uno sputo giallo su sfondo blu più sei stelline bianche.
Sono passati 14 anni dai bombardamenti della NATO e 5 anni e mezzo dalla proclamazione, unilaterale, dell'indipendenza, ma la Cina e la Russia, la Spagna, la Romania e molti altri Paesi (tra i quali, naturalmente, la Serbia) continuano a non riconoscere l'esistenza di questo piccolo Stato. Per le strade di Peja ne incontro tante di camionette e jeep con la bandiera italiana, ma anche austriaca e slovena: sono i contingenti del KFOR, la forza militare internazionale guidata dalla NATO che dalla fine della guerra presidia il territorio (alcuni di loro proteggono i due monasteri ortodossi dell'area: il patriarcato di Peja e il monastero di Decani). Mi faccio una passeggiata fino alla base italiana di Belo Polje (il “Villaggio Italia”), quartier generale del Multinational Battle Group West, attraversando la campagna costellata di cimiteri ed edifici abbandonati, ma anche villette con giardino, sotto un cielo sempre più livido e un'umidità insopportabile.
M. nel frattempo mi ha comprato un regalo: un quadro in velluto rosso su cui campeggiano l'aquila e lo sputo, affiancati, entrambi realizzati con minuscole pietroline. Voleva che mi restasse un bel ricordo del popolo kosovaro. Vedere la bandiera albanese e quella kosovara sempre appaiate mi fa credere che la nascita di un unico Stato sia il sogno di tutti, ma mi sbaglio.
Mentre mangiamo l'anguria, tagliata a fettine sottili dal personale del ristorante, D. mi racconta cosa successe nel '91. «Ero in Italia già da tre anni. All'epoca gli stranieri erano pochi e di lavoro ce n'era quanto ne volevi. Avevo sempre detto a tutti di essere albanese: che ne sapevano loro del Kosovo? E poi non volevo star lì a spiegare. Poi arrivò lo sbarco degli albanesi in Italia e cominciai a dire che ero kosovaro: sai, non volevo mischiarmi con quei teroni lì. I miei concittadini allora si meravigliarono: − Ma fino a ieri non eri albanese? − Mi dicevano». E giù a ridere col succo dell'anguria che cola. «In Italia mi ero trasferito prima che tutto iniziasse, per incontrare uno che mi doveva portare in America. Avevo 15 anni. Al luogo dell'appuntamento quel signore non si vide, lo aspettai per ore, finché si avvicinò un veneto che mi propose un lavoro».
L. andava ancora a scuola quando lui è partito. Mentre mangiamo i peperoni arrosto, mi racconta della sciagura che seguì alla decisione di Milosevic di togliere l'autonomia al Kosovo. «La scuola fu serbizzata e noi ci rifiutammo di frequentarla: ci riunivamo in case private e facevamo lezione nelle cantine e nei sottoscala, sempre con la paura che qualcuno ci scoprisse». Per fortuna tutto è andato per il meglio: lei e tutto il resto della famiglia lo hanno raggiunto in Italia e adesso hanno quattro figli che studiano a scuola, senza contare che possono permettersi di tornare nella loro terra per le vacanze, approfittando dei prezzi bassi per curarsi i denti, fare scorte di derrate alimentari e strafogarsi di qebap.
Sembra che io continui a girarci intorno a questa ex Jugoslavia. Prima qualche puntata nella Slovenia di confine e in Istria, un Natale di qualche anno fa. Poi alle Porte di Ferro, in Romania, dove della Serbia sentivo solo l'odore. E ora in Kosovo, capitata per caso grazie a un foglietto scritto da un albanese che vive in Toscana. E anche adesso che sono qua, qualcosa mi dice che sto continuando a girarci intorno.
Racconto di viaggio completo "IL PAESE DI FRONTE E QUELLO CHE NON C'ERA. Tra le montagne dell'Albania e del Kosovo"