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Da Buenos Aires la distanza è atlantica
Tra le conseguenze dell'avanzare dell’età, c’è anche l’eventualità di rimettere piede nell'unica capitale sudamericana già visitata. È vero che 12 anni fa ci ero stata soltanto una giornata, come tappa tecnica di un viaggio in Argentina del Nord, ma fatto sta che anche la seconda volta in Sudamerica sono atterrata all'aeroporto Pistarini: ero lì nell'agosto del 2006 quando fu adottata una nuova e sconvolgente misura di sicurezza, a seguito di un attentato aereo (poi sventato) in Gran Bretagna, per cui al momento del controllo dei bagagli a mano ci fecero buttare tutti i liquidi – acqua, soluzione per lenti a contatto, shampoo e persino le bottiglie di vino acquistate nella bodega di Cafayate.
Questa volta l’intento principale del mio viaggio era conoscere il piccolo stato limitrofo dell’Uruguay, ma volevo anche approfittare per visitare qualche bel museo di Buenos Aires. Dei quattro giorni che avevo preventivato di spendere qui, il primo è andato a farsi benedire perché il forte ritardo del volo da Roma a Madrid mi ha fatto perdere la coincidenza con il volo notturno per Buenos Aires. Non ero l’unica nella lunga fila al banco dell’Iberia per ottenere la cosiddetta riprotezione, cioè un nuovo volo per l’indomani e il pernottamento in un hotel convenzionato situato nei paraggi dell’aeroporto di Barajas. Io che ero tra i primi 10 della fila ci ho impiegato circa un paio d’ore, e non voglio nemmeno pensare alla sorte delle centinaia di persone che bivaccavano dietro di me, comprese famiglie con bambini, che alle 2 e mezza di notte avevano una prospettiva a breve termine non molto desiderabile. L’unico vantaggio di questo inconveniente è stato ottenere gratuitamente un posto ventanilla che altrimenti avrei dovuto pagare minimo 30 euro (finestrino dal quale ho osservato il Marocco, l’ultimo scampolo di terra prima di iniziare la trasvolata oceanica e le sue note turbolenze).
Dunque, invece di arrivare la mattina e avere un’intera giornata a disposizione, sono arrivata a Buenos Aires nel clou della nochebuena, quando tutti i porteños erano in casa a festeggiare, tranne pochi sfortunati come l’allegro tassista che mi ha mollato alla porta dell'accomodation che avevo prenotato, all’angolo tra Tucuman e Florida. All’ostello mi hanno accolta con grande simpatia e mi hanno offerto la cena della vigilia. In questa prima sera in Argentina mi hanno raccontato che si vota a marzo e che anche qui molti voti al presidente Macri sono voti contro la Kirchner, poi che ci sono un sacco di immigrati venezuelani e che molti stranieri vengono qui per studiare nelle prestigiose università gratuite o per essere operati negli ospedali a basso costo. La reazione è sempre quella, cambia solo il nome del popolo: "prima gli argentini".
Al mattino di buon’ora il cielo è azzurro e il centro è deserto, se escludiamo le vetture della policia, i senzatetto e sparuti gruppetti di turisti brasiliani. Riconosco il Cabildo, l'unico edificio in stile coloniale della città, semplice e lineare con le sue forme arrotondate e la bianchezza abbacinante della calce; la Casa rosada, il palazzo governativo da dove si sono affacciati, tra gli altri, Evita Peron e Maradona; l’avenida 9 de Julio con l’obelisco al centro e i quattro semafori di seguito da attraversare: da queste parti Carlotto iniziava il suo tour dell'orrore nei meandri della storia della "guerra sporca" e dei desaparecidos nel libro "Le irregolari". Ritorno a Plaza de Mayo, dove i fazzoletti bianchi annodati sotto il mento mi ricordano che queste madri da decenni si incontrano ancora ogni giovedì pomeriggio per rivendicare la scomparsa e ottenere la restituzione dei loro figli, arrestati, torturati e fatti sparire durante il periodo della dittatura militare. Ed eccomi di nuovo a Sant’Elmo (dove all'epoca assistetti ai campionati mondiali di tango) per visitare per la prima volta il Paseo de la historieta, che è costituito dalle statue dei più noti personaggi dei fumetti argentini, tra cui spicca naturalmente Mafalda. Mi sono fermata nell’unico bar animato dei paraggi, un allegro bar venezuelano dove ho bevuto una birra e scambiato due chiacchiere con i rifugiati da un paese ridotto malissimo. "È pericoloso girare il giorno di Natale, non c’è nessuno en la calle". Mi mette in guardia Daniel, argentino di famiglia italiana, gay conclamato, emigrato in Europa già da anni.
Per questo prendo l'autobus per andare a La Boca, lo scenografico quartiere portuale dotato di edifici in legno e ferro ondulato tinteggiati con le stesse vernici a colori vivaci usate per dipingere le imbarcazioni, dove ero già stata nel 2006. A quei tempi le strade traboccavano di ballerini e cantanti di tango, i disegni e i dipinti avevano gli stessi colori delle case, bar e ristoranti erano affollati di turisti, e al ristorante, tra una empanada e l'altra, il gestore oriundo italiano mi raccontò delle comunità di molfettesi residenti qui. Oggi c'è molta meno gente, alcuni muri sono più sbiaditi rispetto a dodici anni fa, altri sono stati ritinteggiati o modificati e naturalmente la new entry più evidente è papa Francisco, presente su murales, scatole di biscotti, calamite, statue e, in pratica, ovunque. Al tavolino di un bar mangio empanadas e faccio amicizia con un bellissimo cameriere di nome Agustin, il quale al momento della cuenta mi lascia il suo numero di telefono. “Sientelo, como se activa, Como se activa el ritmo de la vida” cantano Lo’ Pibitos su spotify.
Per tornare in centro salgo di nuovo sull'autobus ma, prima di partire, chiedo a un giovanotto che sta timbrando il proprio biglietto come posso ricaricare la mia tarjeta dei mezzi, miseramente vuota. Costui è molto dispiaciuto ma purtroppo non sa aiutarmi, quindi si va a sedere nelle ultime file. Pochi minuti dopo tenta di scippare la borsa a una turista brasiliana, ma lei se la tiene stretta e lui scende correndo dal mezzo, a mani vuote.
Il resto della giornata di Natale lo trascorro nella zona del Puerto Madero e nei pressi delle lagune della riserva ecologica: è una bella giornata estiva e ci sono molte persone in giro, bancarelle, musica, venditori di street food. Per la cena ho optato anche stavolta per un ristorante con la parrilla, un'enorme griglia su cui vengono stese gigantesche bistecche e imponenti salsicce, dove tanti anni fa ebbi il primo colpo di fulmine per i camerieri argentini, con le loro facce da commedia all'italiana.
Gli ultimi due giorni prima del ritorno in Italia mi sono spostata a dormire nel quartiere Palermo e li ho dedicati fondamentalmente ai musei. Visito con entusiasmo il Museo Nazionale di Belle Arti che si trova a Recoleta, circondato da molti parchi: è il museo d’arte più grande e importante dell'America latina con oltre 11.000 opere d’arte. Il Museo de Arte Latinoamericano (MALBA) è una raccolta di oltre 500 magnifiche opere, che va dall’inizio del XX secolo a oggi. L’edificio, sviluppato su tre piani e raccolto intorno a una grande scala panoramica, ospita periodicamente mostre temporanee come quella bellissima dell'artista Pablo Suarez "Narciso plebeyo".
Per quanto riguarda la storia del Novecento, non posso assolutamente perdermi una visita all'ex EMSA (l'Escuela de Mecánica de la Armada), situata nella zona nord della città, che dal 2004 è stata trasformata nell'Espacio para la Memoria y para la Promoción y Defensa de los Derechos Humanos, un'istituzione per la memoria dei crimini della dittatura, la promozione e la difesa dei diritti umani. Quella che era la scuola per la formazione degli ufficiali della Marina Argentina passò tragicamente alla storia per essere il più grande e attivo centro di detenzione illegale e tortura delle persone scomode al regime: di qui sono passate più di 5.000 persone, più del 90% delle quali scomparse e pochissime sopravvissute alla fine del Processo di Riorganizzazione Nazionale (come si autodenominò il periodo di dittatura durato dal 1976 al 1983). Visitando gli ambienti di detenzione, si scopre che qui, dopo giorni di orribili torture, stupri e inumane umiliazioni, i detenuti venivano preparati per le esecuzioni: alcuni venivano fucilati e poi cremati, altri venivano caricati su aeroplani militari e gettati nudi nell'oceano Atlantico al largo del Río de la Plata; si può inoltre guardare la Capucha (una zona angusta e lugubre senza finestre, dove i detenuti rimanevano in isolamento costantemente incappucciati) e si apprende con raccapriccio che molti bambini sono nati qui.
Per la cronaca, il Museo de la Inmigración, nella zona portuale, l'ho trovato chiuso entrambe le volte.
L'ultima sera sono andata in un jazz club fighissimo dove ho conosciuto un cileno molto di compagnia con cui ho condiviso il vino e il tavolino. E infine sono tornata con le braccia e le mani massacrate dai bed bugs a causa delle due notti passate in un ostello di Palermo che non raccomanderei.
Buenos Aires:
Esposizione "Narciso plebeyo" di Pablo Suarez: