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PICCOLI ANTROPOLOGI CRESCONO

Viaggio on the road in Togo e Benin

Destinazione Africa Occidentale. Ho ripassato i fondamentali: Kapuściński, Aime, Celati. Ho fatto il vaccino obbligatorio contro la febbre gialla. Altre precauzioni sanitarie non ne ho prese, anche perché il centro di medicina di viaggio di Bari (dispensatore di vaccini e paranoia) si è mostrato inespugnabile. Profilassi antimalarica dunque no, che dio me la mandi buona.
Sono pronta per scorrazzare in questi due piccoli Stati affacciati sul golfo di Guinea, per percorrere l'arida savana alla ricerca delle sue varie etnie, per conoscere le loro danze, la loro antica religione vudù, la storia dello schiavismo nero, per visitare mercati colorati, villaggi tradizionali e spiagge atlantiche.

Atakora - Abomey - Ganviè - Ouidah - Immagini - Piccolo Me

All'alba la nostra spedizione di mosche bianche già vaga nei paraggi dell'umida costa del Golfo di Guinea, dopo una notte trascorsa per metà nello spartano aeroporto di Casablanca e per metà nel poco accogliente aereo della Royal Air Maroc.
Consumata la colazione sotto una magnifica palma del viaggiatore nel giardino dell'hotel Central di Lomè (collocato in una delle strade di terra rossa e sabbia vicine al mare), ci dirigiamo al mercato dei feticci vudù, nel quartiere di Akodessewa. La squallida location ci accoglie con un fetore nauseabondo e, come se non bastasse, su una bancarella riconosco subito con raccapriccio delle teste di cane imbalsamate. E non è ancora niente: sui banchetti e sulle stuoie per terra sono ammassati ossa e crani di ogni genere di animale, teste o intere carcasse mummificate di scimmie, gatti, pipistrelli, topi, coccodrilli, serpenti, camaleonti e uccelli di ogni specie, pelli di diverse dimensioni tese ad essiccare.
Tutte queste carogne rappresentano gli ingredienti con i quali i féticheurs predispongono i rituali vudù: a quanto pare, sbriciolando parti di animale sapientemente selezionate si ricava l'ingrediente base per miracolose tisane o unguenti da strofinare sul paziente. Secondo questa antichissima religione, ancora molto accreditata da queste parti, ogni infermità sia fisica sia morale può essere guarita in questo modo, basta saper scegliere bene quale animale triturare.

Successivamente ci portano presso i vari “uffici” dei guérisseur, per mostrarci alcuni gri-gri meno schifosi ma comunque utili a risolvere i piccoli problemi della vita di tutti i giorni: il primo è un piccolo contenitore di legno ─ definito telefòn ─ dentro al quale bisogna parlare elencando i vari mezzi di trasporto per cui invochiamo immunità durante il nostro viaggio, chiudendo subito dopo il tappo; seguono altri oggetti che servono ad esempio a far cadere ai tuoi piedi senza alcuno sforzo la persona che ami, oppure a regalarti la tanto agognata virilità. Tutti questi talismani hanno dimensioni minime adatte persino al bagaglio a mano e possono essere acquistati in loco.
Nel pomeriggio andiamo a visitare il famoso mercato del venerdì di Vogan (che però, a causa del Natale, questa settimana è stato anticipato al giovedì), facendo conoscenza con le famigerate strade togolesi piene di carcasse di camion e auto abbandonate lungo la strada, infausto avvertimento per noi yovò appena arrivati.
I prodotti sono esposti sulla terra rossa e sotto enormi manghi e acacie: cesti, vasi di terracotta, infradito di gomma, bacinelle smaltate colme di olio di palma (il cosiddetto huile rouge), ferraglia vudù, pesce essiccato, igname, galline e faraone vive, saponi sferici, baguette, misteriose zuppe calde nelle pentole di alluminio. Ma mi faccio anche una prima idea di ciò che si può portare sulla testa: banani pressoché interi, sacchi di carbone, stuoie arrotolate, vassoi pieni di piatti, bacinelle stracolme di buste, intere bancarelle di scarpe, smalti, detersivi, tessuti, decorazioni natalizie. Le donne, in questo esercizio di equilibrio, procedono con un passo sinuoso e ancheggiante, mentre alcune di quelle sedute indossano un copricapo piatto a tesa molto larga, di paglia, che fa ombra sugli abiti coloratissimi. Peccato che la maggior parte di loro non vuole essere fotografata oppure chiede, inizialmente senza molto garbo, dell'argent.

All'ora del tramonto sono in un bar sulla spiaggia di Lomè a sorseggiare beatamente una birra Eku gelata. In sottofondo musica africana ritmata ad altissimo volume. Sulla sabbia scura dei ragazzi giocano a calcio, mentre vicino alla riva le barche di legno dipinte a colori vivaci riposano con il loro carico di reti da pesca. Di tutti quelli che cazzeggiavano qui la mattina (chi si insaponava, chi dormiva sotto gli alberi, chi vendeva prodotti trasportati sulla testa) ne sono rimasti pochi. Non ci sono più nemmeno i pescatori che effettuavano una specie di tiro alla fune, simmetrici rispetto all'analogo gruppetto che a grande distanza tirava l'altro capo della rete. E comunque ci hanno fatto segno di non andarci in quella direzione: è pericoloso a quest'ora. Il sole pallido che si intravedeva nel cielo opaco precipita velocemente verso l'orizzonte, mentre dall'altra parte è già spuntata la luna, tra le palme.
Così di primo acchito stento a credere che il Togo sia il paese meno felice del mondo, come riferisce il World Happiness Report dell'ONU del 2015.

Nei trecento chilometri che separano la regione marittima di Lomè da quella centrale di Sokodé, l'umidità dell'Atlantico si dirada lasciando campo libero alla terra rossa, che vortica nell'aria raschiando la gola.
Il ballonzolare del pulmino sulle strade disconnesse viene interrotto più volte. La prima sosta serve per l'approvvigionamento di acqua, banane e ananas presso il mercato di Atakpamé. La seconda avviene senza premeditazione dopo aver visto un folto gruppo di gente che procede incolonnata lungo la strada, intonando canti cristiani. La maggior parte di loro indossa la stessa polo gialla con scritto “Je suis la lumière du monde” oppure una casacchina realizzata con lo stesso tessuto colorato fantasia sulle tinte del blu. Li seguiamo inserendoci nella fila e battendo le mani con loro finché, dopo un lungo cammino tra campi di cotone e termitai giganteschi, giungiamo a destinazione. Nel cortile di una casa privata, sotto all'enorme mango carico di foglie lucide, li osserviamo cantare e ballare finché non ci rendiamo conto dell'ora e ce ne torniamo indietro. In realtà molti di loro sono musulmani, ma non mi sembra che si formalizzino molto in materia di fede religiosa − tanto, sotto sotto, più o meno tutti continuano a bersi i loro succhi di crani animali.

Infine ci fermiamo in una grande radura dove è in corso la danza kamu, che impazza solitamente durante il mese di dicembre allo scopo di ringraziare gli antenati per i buoni raccolti. È l'occasione per conoscere da vicino una delle principali etnie del Togo settentrionale: quella dei Kabyé, che conta circa un milione di persone (un quinto di tutta la popolazione del Paese).
Tra le percussioni ipnotiche, centinaia di persone stanno ballando con indosso abiti strappati, gonnellini realizzati con i tappi di bottiglia, rudimentali cavigliere a sonagli, ornamenti di foglie di palma o frasche, t-shirt con la faccia del presidente Gnassingbé. I visi sfoggiano strati di polvere bianca, maschere da sub, cappelli di erbe e copricapi di ogni genere, barbe finte oppure occhiali pacchiani. Le danze hanno luogo davanti agli occhi di centinaia di donne con foulard variopinti, bambine con le treccine e vecchi eleganti, che guardano rapiti lo spettacolo. Un buon numero di ballerini sarebbe romantico dire che sono entrati in trance, ma a me sembrano soltanto ubriachi persi o strafatti di qualche droga, e non sono in grado di dire se il largo consumo di noce di cola basti a giustificare gli sguardi spiritati, i barcollamenti, se non i veri e propri svenimenti a cui assisto.

La sera, nei pressi di Sokodé, partecipiamo alla danza del Fuoco, organizzata e pagata da noi, come pare si usi fare da queste parti. Tutta la gente del villaggio è stata invitata nella piazza per assistere a questa festa tradizionale della popolazione Temba (o Kotokoli). Mentre prendiamo posto sulle panche intorno al falò, i tamburi hanno già iniziato a risuonare freneticamente, dando il via alla cerimonia. I protagonisti si alternano al centro dello spiazzo, camminando sulle braci o strofinandosele su braccia e gambe come se niente fosse. Uno di loro si infila un tizzone ardente in bocca e la apre ben bene per far vedere il perverso spettacolo. Infine arriva il più duro di tutti, che distribuisce delle lamette a noi yovò e a seguire se le schiaffa in bocca una dopo l'altra, ci mostra dei pezzi di vetro e dei coltelli per poi passarseli sull'addome, senza lasciare in ogni caso alcun segno. E mentre i tamburi diventano sempre più convulsi, le luci forse più gialle e il fuoco comincia a spegnersi, i bambini, sempre meno timidi, ci hanno ormai accerchiato e si sono seduti in tutti gli anfratti liberi e alcuni anche in braccio a prendersi le inevitabili carezze, per poi accompagnarci all'autobus e salutarci con la manina.

Nella lista del patrimonio dell'umanità stilata dall'UNESCO la regione di Koutammakou viene definita “the Land of the Batammariba”, popolazione nota anche come Tammari o Tamberma il cui nome significa "coloro che sanno costruire". Non a caso ad attirare l'interesse dei turisti, in questa arida savana collinosa, sono le loro caratteristiche abitazioni fortificate che spuntano sotto enormi baobab dai rami contorti (in questa stagione carichi di frutti pendenti). Appaiono come dei castelli di sabbia dall'aspetto molto armonioso e sono dotati di torri – protette da tettoie mobili di paglia – che fungono da granai, divise in diversi scomparti nei quali si conservano miglio, sorgo, fonio, arachidi, legumi. Non hanno finestre e l’unica porta di accesso alla casa si trova nella facciata principale. Solitamente il capofamiglia dorme nel locale buio al piano terra insieme agli animali; passando per la primitiva cucina si arriva ad una scaletta a forma di fionda di legno scanalata che conduce al primo piano: su questa terrazza protetta da parapetti non solo si mettono a seccare le granaglie, ma ci sono le “camere” da letto (torrette formato mignon dotate di ingressi così minuscoli che bisogna entrarci di schiena), dove dormono le donne e i bambini.

Fino a poche decine di anni fa, questa gente andava ancora in giro praticamente nuda: gli uomini con l’astuccio penico, le donne con un gonnellino di foglie. Poi i pudichi missionari cristiani, e in seguito il governo, gli hanno imposto di vestirsi e oggi indossano un accrocchio di stracci locali e abiti occidentali lasciati come consolatoria elemosina dai visitatori stranieri. Ciononostante, mantengono ancora uno stile di vita molto simile a quello del passato, dimostrando di aver subito poco l'influenza della cultura dei colonizzatori (non a caso molti di loro si erano rifugiati in questi villaggi fortificati all'arrivo dei tedeschi ai tempi del Togoland). Per questo solitamente creano grande entusiasmo tra i turisti occidentali, i quali notoriamente adorano questo tipo di presunta autenticità.
La popolazione a dire il vero non si mostra molto ospitale con noi, ma nemmeno io sarei molto affabile se una dozzina di persone venisse a casa mia e, prima ancora di sorridermi o dirmi buongiorno, mi puntasse un obiettivo di mezzo metro in faccia. Va detto che ormai è ovvio in ogni dove che i turisti fanno foto; e anzi in un sacco di Paesi del mondo TUTTI fanno foto continuamente. Ora, il motivo per cui i Tammari ancora non le fanno è solo che non hanno ancora lo smartphone, altrimenti anche loro (come ad esempio gli indiani e gli indonesiani) avrebbero fotografato noi e saremmo stati tutti felici e contenti. Qua invece tutto il clan si tiene a debita distanza, inveendo di fronte agli obiettivi, oppure facendo il gesto universalmente usato per dire “soldi”. Io ad esempio fotograferei volentieri l'unica donna che vedo con il gioiello labiale, ossia quella pietra di silicio che si usava – per motivi “estetici” – infilare nel mento; il soggetto però si nasconde la faccia con le mani e non me la sento di infierire.

Lasciata la savana, torniamo verso Kara, dove passiamo l'ultima notte togolese. Nel frattempo, in questo rapido cammino verso nord, è aumentato a vista d'occhio il numero di islamici, come si può notare dalle numerose moschee e dai copricapi di uomini e donne, senza parlare delle chiamate dei muezzin che risuonano per le strade mentre passeggiamo tra i rimasugli del mercato.
A cena esco sconfitta nel mio corpo a corpo con una coscia di pollo, apparentemente di plastica, che devo lasciare quasi intatta nel piatto, cibandomi esclusivamente di pommes frites. Se questo, come qualcuno dice, è il vero pollo, allora sono io che non ho più i veri denti.

Rispetto alle nostre messe, meste e sommesse, quelle qui in Togo sono un trionfo di gioia. Nella chiesa di Niamtougou c'è pure il gruppo di percussionisti e tutti cantano e ballano, anche le suore e i sacerdoti. L'apice viene raggiunto al momento della comunione, quando la fila si trasforma in un trenino. I fedeli sono elegantissimi e coloratissimi; donne, uomini e bambini indossano abiti di cotonina stampata a foglie, lucchetti, versetti evangelici e addirittura vistosi ritratti della “Santa famiglia di Nazaret”.
Al mercato domenicale le merci esposte sono per tutti i gusti: letame, selezione di ingredienti vudù, extension per capelli, creme sbiancanti, carbone, capre, radioline, il solito olio di palma, pesce fritto, scarpe da ginnastica pendenti dagli ombrelloni, farina di manioca, carne d'asino ridotta in piccoli pezzi. Le donne affettano ananas e mango e li inseriscono in bustine nere buone per ogni uso. Le venditrici, notando la macchina fotografica, esclamano stizzite: «Il faut payer!». Ma io fotografo solo i peperoncini: «Il faut payer aussi!». E se fotografo per terra? «Si paga, qui in Togo, si paga sempre».

Ed eccoci dunque nel bel mezzo del nulla. Qualcuno un giorno ha deciso che qui finisce il Togo e inizia il Benin. Sotto una grande acacia ci sono una panchetta di legno e due sedie di plastica; intorno alcuni bambini giocano a rincorrersi. Questo è il posto di frontiera di uscita dal Togo. La procedura prevede che uno dei due doganieri in divisa mimetica prenda un passaporto alla volta e ricopi lentamente i dati su un registro gigantesco. Ciascuno quindi è invitato a dichiarare la propria profession. Quando mancano ancora alcuni membri del gruppo la penna si scarica e costui, con un gesto di stizza, chiude platealmente il registro − nonostante gli venga offerta un'altra penna − con il risultato che qualcuno di noi non risulterà mai passato da questa frontiera. Quando finiscono di apporre il timbro su tutti i passaporti ci lasciano andare.
In Benin siamo entrati clandestinamente: al posto di frontiera c'è solo un custode che ci domanda come ci è venuto in mente di passare il confine di domenica. Avremmo potuto espletare le procedure alla caserma di Bokoumbé, peccato che dopo aver ucciso uno studente togolese a un posto di blocco i poliziotti l'hanno chiusa, temendo ritorsioni da parte della popolazione. Finché arriviamo a Natitingou ormai si è fatto tardi, perciò dobbiamo aspettare il giorno dopo per farci timbrare i passaporti.
Anche in questo albergo un'imponente maman ci accoglie con l'abusato “bien arrivé” sotto una cascata di bougainville, ma non c'è molto tempo per i convenevoli poiché il museo regionale di Natitingou sta chiudendo. Varcata la soglia di un palazzo coloniale costruito dagli schiavi, visioniamo i modellini dei diversi tipi di case fortezza e altri oggetti tradizionali delle comunità dei Somba, ma soprattutto troviamo il primo vero e proprio mercatino artigianale. In giro per la città ci sono alcuni cinesi a passeggio: sono medici che lavorano negli ospedali, insegnando il mestiere ai nativi.
La cena all'hotel Bellevue termina con un mastodontico vassoio di ananas e papaia e io rifletto sul fatto che se sei a tavola con un gruppo di viaggiatori, il 90% dei discorsi inizia con la frase: «Quando ero in [aggiungere Paese a scelta: Vietnam, Tanzania, Perù...]». Mi chiedo cosa racconteremo la prossima volta che diremo: «Quando ero in Benin.»

I VILLAGGI SOMBA

No hay cicatriz, por brutal que parezca,/que no encierre belleza./Una historia puntual se cuenta en ella,/algún dolor. Pero también su fin./Las cicatrices, pues, son las costuras/de la memoria,/un remate imperfecto que nos sana/dañándonos. La forma/que el tiempo encuentra/de que nunca olvidemos las heridas.
(Piedad Bonnett, “Las cicatrices”)

Ci troviamo in Atakora, la regione più montagnosa di questo Paese a forma di fiaccola. Da queste parti c'è addirittura un aeroporto “internazionale” poiché vi nacque il presidente nonché dittatore marxista Mathieu Kérékou, tra l'altro morto due mesi fa e celebrato in grandi manifesti. Il cielo è pulito, non c'è traccia di harmattan e abbiamo guadagnato un'ora in più di sole rispetto al Togo, grazie al cambio di fuso orario.
Anche se qui gli operatori turistici li chiamano così, i villaggi dei Somba non sono altro che i Batammariba del Togo (anzi il termine “somba” era inizialmente un appellativo peggiorativo). Le abitazioni tradizionali hanno le stesse caratteristiche già abbondantemente sviscerate, qui però abbiamo delle relazioni umane vere e proprie. A differenza del sito in Togo, dove i soldi del biglietto sono impiegati per costruire infrastrutture per la comunità, in Benin una parte della tariffa pagata alla guida va nelle tasche degli abitanti; forse per questo si fanno anche fotografare senza opporre resistenza. A me mette comunque un certo imbarazzo far parte mio malgrado di questo manipolo armato di macchine fotografiche.
La prima famiglia ci offre persino una specie di polenta insipida avvolta dentro a una foglia; il patriarca indossa una ex-elegante giacca di lino troppo grande, senza niente sotto, mentre le due donne sono le sue mogli. Più difficile è capire quali figli sono di una moglie e quali dell'altra, o quali sono addirittura i nipoti della più anziana delle due; fatto sta che due di loro sono minuscoli gemelli di cioccolata ciascuno con un cappellino di lana e una specie di collana in vita. In questa società vige la poligamia e ogni moglie ha una propria casa, dove vive insieme ai suoi figli; a proposito di donne, come al solito pare che siano loro quelle che si fanno di più il culo: vanno a prendere l'acqua, raccolgono la terra e il letame necessario per impermeabilizzare le pareti della casa, lavorano nei campi insieme agli uomini.

Quando arriviamo presso la seconda “tata”, donne e bambini sono al pozzo a pedale: l'acqua esce da un rubinetto direttamente nelle grandi bacinelle metalliche o nelle taniche di plastica gialla; una delle due ragazze che lo aziona col piede indossa il pezzo di sopra di un bikini. Giunti all'abitazione facciamo conoscenza con il vecchio guaritore, abbigliato con un vezzoso giubbottino impermeabile, di un rosa ricoperto da molti strati di terra rossa (d'altra parte anche noi siamo impolveratissimi, e nei villaggi ci abbiamo passato solo poche ore). Poiché non ricorda esattamente la sua età, ci mostra due documenti ufficiali: secondo il certificato di Specialista in medicina tradizionale sarebbe nato “verso il 1920”, secondo la carta d'identità “verso il 1933”. L'attestato ci informa che il guaritore è esperto dei seguenti disturbi: morsi e sputi di serpente, singhiozzo, dolore addominale della donna, avvelenamento, sortilegi e dolore generalizzato.
Fuori dall'ingresso si ergono i classici feticci a forma fallica, appesi al muro ci sono crani e ossa di animali a mo' di amuleti protettivi, gli altari costituiti da contenitori panciuti di terracotta presentano resti di piume di animali da cortile, sacrificati per onorare gli spiriti degli antenati oppure per coadiuvare le pratiche di guarigione. In un angolo l'immancabile mortaio per pestare i cereali; per terra resti di fuochi, pentole, fascine di legna.

A questo punto andiamo a conoscere un'esperta scarificatrice con tanto di riconoscimento statale, grazie al quale è l'unica nella zona ad avere avuto l'allaccio all'energia elettrica. Come avevo verificato già dall'arrivo a Lomè, la scarificazione è largamente praticata da queste parti. Le cicatrici sulla pelle sono di diversa foggia (qui ad esempio sono molto sottili e numerosissime) e in genere servono a comunicare quali sono le proprie origini. Quelle sul volto di solito vengono fatte da bambini, mentre alcuni se le fanno realizzare su ventre e schiena, come prova di coraggio, al tempo dell'iniziazione all'età adulta.
Il giovane che ci fa da guida si offre volontario: si sdraia per terra, un'anziana donna gli si siede a cavalcioni affinché non si divincoli, mentre l'altra tira fuori un coltellino da una custodia di pelle e comincia a far finta di incidergli le guance. Questi popoli praticano inoltre la circoncisione ─ come si vede direttamente osservando i bambini nudi ─ e credo anche, in taluni casi, l'escissione femminile, anche se dovrebbe essere vietato (e comunque su questo tema glissano elegantemente).
Kounta mi racconta che il numero dei turisti è in sensibile calo: la maggior parte dei visitatori solitamente proviene dalla Francia, ma dopo l'attentato di Parigi ritengono questa zona pericolosa. D'altra parte, nonostante le belle parole dei politici, il Benin sembra fare di tutto per scoraggiare l'arrivo di turisti: per poter chiedere il visto d'ingresso è necessario un invito, che però nessuno ti vuole dare se non in cambio di denaro. Non se la passa tanto bene Kounta, guida turistica e chauffeur, tanto più che la moglie lo ha lasciato da poco. E comunque ha ragione lui: avremmo dovuto dormirci almeno una notte nella “tata Somba”, perché così non abbiamo praticamente visto niente.

LE ALTRE ETNIE DELL'ATAKORA

Arrivavano dal mare e prendevano tutti, uomini, donne, bambini. Poi li portavano giù a Ouidah e da lì si perdevano nel mare. Allora la gente scappò sulle colline e si nascose nella grotta, lassù. Venivano da tutte le parti, parlavano lingue diverse, ma tutti scappavano da quei guerrieri. Vai lassù, vai a vedere. Troverai ancora dei muretti di pietra diroccati. Con quei muretti, con la forza e con la magia, gli uomini delle colline cacciarono gli stranieri verso il mare. Allora la gente uscì dalla grotta e si mise a parlare la stessa lingua, a pregare gli stessi spiriti, a danzare nello stesso modo. È così che è nato il popolo tangba.
(Marco Aime, “Le nuvole dell'Atakora”)

Ci dirigiamo verso meridione e parcheggiamo l'autobus nei pressi di Birni, raggiungendo a piedi un miserrimo villaggio di capanne circolari. Qui ci abitano i Fulani (o Peul), un popolo costituito da milioni di persone disseminate per tutta l'Africa occidentale.
Anche qui, né buongiorno né buonasera che vari obiettivi vengono puntati senza tanti complimenti sulla più bella della famiglia, che tra l'altro è a seno nudo perché sta allattando il suo bambino. Sorprendentemente, oltre ad essere stupenda e dolcissima, sorride in posa da consumata modella prendendo in mano una coppetta piena di limoni verdi e mettendosi addirittura una grossa calebasse sulla testa, garantendo così al turista la foto dei suoi sogni. Non a caso, i Fulani hanno fama di essere molto affascinanti. In realtà le altre donne non mi sembrano così belle, però ci tengono molto al loro look: sono vestite in modo molto colorato, hanno il viso tatuato, indossano braccialetti, collane, orecchini e ornamenti intrecciati ai capelli e hanno i denti bianchissimi. A quanto pare anche gli uomini sono vanitosi e si truccano perfino più delle donne, ma quando siamo arrivati sono tutti via e non posso confermarlo.
Da quanto ho capito, questa gente è di solito dedita all'allevamento e spesso pratica il nomadismo; sono islamici, ma non poligami e possono divorziare quante volte vogliono. Un pupazzetto di Winnie the Pooh buttato nell'angolo della capanna accanto denota che non siamo i primi visitatori. In ogni caso, dopo i classici convenevoli e carezze ai bambini, un gruppetto di loro ci accompagna all'autobus con l'ormai consueto sottofondo cantilenante di yovò bidon e yovò cadeau, rimediando un petit savon recentemente rubato in albergo.

Poco più avanti, all'altezza di Copargo, imbocchiamo una stradina dissestata che ci conduce ai cosiddetti villaggi Taneka, dove avremmo fatto la conoscenza con i Tangba, la popolazione studiata dal nume tutelare di ogni gruppo di turisti responsabili in Africa occidentale, l'antropologo Marco Aime. È il terzo e ultimo popolo per oggi, in questo Paese dalla composizione etnica così variegata, e ho le idee parecchio confuse.
Nell'attesa del nostro accompagnatore entriamo nella scuola, in questi giorni chiusa per le vacanze di Natale; per fortuna compare subito un ignaro ragazzino che viene immediatamente sfruttato per rendere più credibili le foto, seduto composto ad uno dei banchi di legno e poi interrogato alla lavagna.
Ci avviamo a piedi verso i villaggi, percorrendo un sentiero ornato dai bellissimi fromager rossi o kapok, con i rami privi di foglie ma carichi di fiori. Come altri popoli dell'Atakora, anche i Tangba si rifugiarono nelle grotte e negli anfratti presenti in queste colline allo scopo di sfuggire alle razzie di schiavi; poi il miscuglio di popoli di diversa origine ha dato vita a una cultura particolarmente complessa e molto legata alle tradizioni.
I villaggi che visitiamo sorgono nella zona più pianeggiante, vicina ai campi di igname, e sono costituiti da capanne rotonde. Ogni quartiere del villaggio è ancora governato da un re, che si occupa delle relazioni esterne e delle controversie tra gli abitanti. Tinga sawa, il re di Pendolou, dopo averci fatto fare l'anticamera, ci accoglie nella sua capanna di rappresentanza. Indossa una raffinata veste chiara, con sciarpa vezzosa sulla spalla, ventaglio variopinto, cappellino tipo fez e un elaborato scettro di legno in cui sono intagliati un leone, un elefante e delle figure umane. Gli vengono poste diverse domande molto paludate e infine ci concede il privilegio di farci i selfie con lui.

Intanto gli ignami vengono sbucciati e poi cotti nel fuoco, i bambini giocano con i pneumatici, oche e faraone razzolano pacatamente, pentole di alluminio borbottano, pestelli si accaniscono nei mortai, insomma la classica vita dei villaggi. Ci spostiamo dunque nella zona più collinosa dove vivono gli specialisti rituali, detti boro-te, che si occupano delle faccende religiose. Due di loro stanno seduti sulle pietre sotto a un grande albero, completamente nudi tranne una striscia di pelle sui fianchi e un cappello rotondo di rafia. L'immancabile pipa è spenta perché sfortunatamente hanno finito il tabacco, per questo accettano con entusiasmo un po' del nostro ben poco rituale Camel light.
Il sentiero di ritorno lo percorro mano nella mano (sudatissima) di una bambina con le treccine e la maglietta sbrindellata; quando arrivo all'autobus compio l'imperdonabile errore di cedere alle sue insistenze e regalarle una bottiglia di plastica vuota, scatenando un putiferio tra tutti gli altri ragazzini che, anche loro, vogliono il loro preziosissimo bidon.
A fine giornata, in questo hotel di Djougou pretenzioso e moquettato, i divani sono bollenti, in TV politici beninesi parlano alle folle, il wifi va e viene, la preparazione della cena richiede una quantità di tempo che gli yovò non riescono a comprendere. Terminato il classico piatto di pesce tilapia con riso, sorseggio un bicchierino di Saint James e chiacchiero con un vicino di tavolo congolese che vive a Montréal e lavora per l'immigrazione canadese in West Africa; è qui in vacanza ed è ossessionato dal pensiero di essere aggredito e rapinato. Per domani ha preso in affitto un'auto con un driver e mi chiede consigli sugli itinerari più sicuri.

INCONTRO UFFICIALE CON IL RE DI DJOUGOU

Grandissimo entusiasmo questa mattina per il nostro gruppo di mosche bianche: il re di Djougou, Issifou Kpetoni Koda VI (ben più importante di Tingassawa e anzi in un certo senso suo superiore), ci ha accordato un'udienza.
Lo spettacolo più sconcertante però è avvenuto prima, fuori dalle mura del palazzo reale. Mentre in un anfratto un uomo scuoiava una capra, una donna stava lavando il suo neonato con una sostanza oleosa; a un certo punto l'ha preso in braccio, si è avvicinata a noi e ce lo ha mostrato: il viso e l'addome erano rigati da lunghi tagli rosso vivo ancora aperti. Ci hanno detto che si tratta di una delle nipotine del re; guardando bene, infatti, si capiva che era una bambina: su ogni guancia aveva quattro tagli, come tutte le femmine, mentre ai maschi spettano tre cicatrici soltanto. Anche se agli occidentali sembra una barbarie, secondo l'opinione di molti africani non c'è niente di sbagliato nel sottoporre un bambino appena nato a una scarificazione, anzi, tale pratica serve a prepararlo da subito alla vita, informandolo che non sarà per niente facile. “D'altra parte voi chiedete un parere a un bambino prima di battezzarlo o di vaccinarlo?”

Entrati nel comprensorio del palazzo, ci togliamo le scarpe e, superate delle tombe e delle pantere dipinte sui muri, veniamo introdotti in una specie di terrazzo con le pareti dipinte di azzurro e verde. Una sedia a sdraio, imbottita ma ben poco regale, sarà presto occupata dal re in persona; noi intanto siamo invitati a sederci sulle stuoie. L'autista, Rafiu, è talmente emozionato che non capisce più niente: appena entra il sire, si inginocchia davanti a lui balbettando.
Kpétoni Koda indossa una sobria palandrana a righe verticali e un cappellino coordinato, l'espressione dietro gli occhiali è seria ma non altera; gli altri dignitari di corte si accosciano accanto a lui. Gli poniamo una serie di domande in francese e scopriamo quindi che ha numerose mogli e un numero spropositato di figli e nipoti, che si occupa di casi di giustizia di lieve entità mentre per i più gravi si ricorre alla polizia, che i re si succedono nella carica con una rotazione fra tre diverse famiglie, che i problemi più seri della regione sono la disoccupazione e l'analfabetismo, soprattutto femminile (per questo le scuole superiori sono gratuite per le ragazze). Il re inoltre ha l'ultima parola per confermare la nomina dell'imam (l'Islam è la religione praticata dalla famiglia reale e dalla maggioranza degli abitanti), incontra spesso le più alte cariche del Paese, compreso il Presidente, e presenzia alle cerimonie e manifestazioni ufficiali.
Proprio l'altro ieri, ad esempio, ha partecipato qui a Djougou alla ventiduesima edizione della tradizionale festa della Gaani, dove ha incontrato il Presidente del Consiglio del Benin. Tra l'altro l'elicottero che trasportava alcuni pezzi grossi del governo, mentre atterrava allo stadio municipale, si è fracassato al suolo; per fortuna tutti i passeggeri sono rimasti illesi, compreso il primo ministro, il quale appena giunto nel luogo delle celebrazioni ha ringraziato le anime dei suoi antenati per questo miracolo.

Dopo aver lasciato Djougou, costeggiamo il Togo per molti chilometri, percorrendo la strada parallela a quella percorsa al di là del confine, ma nella direzione opposta. L'autista ne approfitta per oltrepassare la frontiera a piedi e andare a trovare la vecchia madre, prima di condurci al feticcio Dankoli di Savalou, uno dei più importanti luoghi di culto vudù del Benin. In questo luogo sacro, collocato proprio a bordo strada, giungono persone da tutto il Paese, o addirittura dall'estero. L'inquietante rituale prevede che si conficchino con un martello dei pioli in un monticello, versandoci sopra dell'olio di palma o sputandoci platealmente qualche superalcolico. Nel frattempo alcuni uomini sono impegnati a lanciare delle monetine urlandosi addosso, un povero pollo viene sgozzato esattamente sotto i miei occhi con un grosso coltello e altri pennuti vengono denudati da donne e bambini. Il risultato finale di questi riti consiste in nauseabondi ammassi di tronchi d'albero ricoperti di grasso, alcol, sangue e piume, che emanano un fetore putrido.
Mentre torno abbastanza schifata verso l'autobus, mi informano che le persone presenti chiedevano la guarigione per uno di loro, e che se i desideri si dovessero realizzare essi sono obbligati a tornare per un altro sacrificio rituale. L'ultimo tratto di strada verso Abomey è pieno zeppo di banchetti che vendono farina di manioca in buste di plastica trasparenti, ma è anche il momento di provare gli irresistibili grissini alle arachidi, piccanti.

IL REGNO DI DAHOMEY

I teschi dei suoi nemici gli davano la sicurezza di essere vivo nel mondo delle cose reali. Beveva dai teschi, sputava nei teschi. Di teschi erano fatti i piedi del suo trono, le sponde del letto e il passaggio che conduceva alla sua camera da letto. Nella sua Casa del Teschio conosceva il nome di ogni teschio e si intratteneva con ciascuno in conversazioni immaginarie: i nemici minori erano ammucchiati su vassoi di rame, mentre i grandi erano avvolti nella seta e conservati in ceste imbiancate.
(Bruce Chatwin, “Il viceré di Ouidah”)

Dopo la cena, nel suo immenso giardino popolato da statue incantevoli, Monique mi offre un bicchierino di un liquore colmo di erbe dagli effetti curativi. Tornata in camera, mentre le pale del ventilatore girano veloci, tutte le immagini di Abomey che mi vengono in mente mi sembrano troppo sature e fasulle come quelle di un film: mura impastate di sangue umano e teschi che sorreggono un trono di legno, donne guerriere che si affilano i denti e covoni di paglia che ballano, ratti e cani in gabbia e scimmie alla catena, litanie di un guaritore tradizionale e vino di palma bevuto in un solo sorso, ernie ombelicali e bassorilievi a forma di coccodrillo, uomini inseguiti da maschere colorate e lucertoloni nella polvere, percussionisti e venditori che gridano come degli ossessi all'indirizzo di una macchina fotografica.

L'impegnativa giornata è iniziata presso i palazzi reali, fatti edificare e abitati dai 12 re che si sono succeduti alla guida del mitico regno del Dahomey. Questi governanti sanguinari al termine di ogni guerra catturavano caterve di prigionieri e ne vendevano una parte ai portoghesi, ai francesi e agli inglesi in cambio di oro, armi, rum e tabacco, contribuendo in maniera determinante al fenomeno della tratta di merce umana destinata al continente americano. La guida ci parla delle amazzoni, le donne-guerriero al servizio del Re Ghezo, allenate sin da bambine alla pratica della guerra. Se promettevano di portare al loro re due teste del nemico ma al ritorno, malauguratamente, ne portavano una sola, l’altra testa che veniva mozzata era la loro; lo stesso trattamento era riservato al boia se svolgeva il suo compito maldestramente, e a chissà quanti altri sudditi.
Qui purtroppo non si presenta l'opportunità di essere ricevuti da sua altezza reale (e se tanto mi dà tanto, meglio così), ma ci dobbiamo accontentare di osservare gli oggetti rituali appartenuti alla schiera di re defunti, esposti nel museo storico. Nelle sale degli unici due palazzi rimasti integri sono esposti arazzi, costumi, armi, gioielli, altari portatili di metallo, strumenti realizzati usando crani umani, parasole reali che un addetto aveva il ruolo di far roteare senza tregua. Prima di andare via ammiriamo gli ambienti funerari presenti nel cortile, ottenuti mischiando fango, conchiglie e sangue dei prigionieri uccisi, e infine, come se niente fosse, facciamo acquisti nel mercatino artigianale.

Poco dopo, veniamo mollati nel mezzo di niente. Un gruppo di percussionisti ha già dato il via al tambureggiare ossessivo e i bambini hanno già preso posto. Quando li raggiungiamo, in uno spiazzo di terra battuta, compaiono dei grossi covoni di paglia che roteano come dei matti, si alzano e si abbassano, sollevando nuvole di polvere, guidati da uomini dotati di un bastone. Da uno di loro ogni tanto viene lanciato qualche oggetto: un lucertolone vivo, un sacchetto pieno di monete, una bambolina di legno con un vestito rosso da cui sbuca un pene sproporzionato. Ogni tanto il covone si butta a terra mostrando l'interno apparentemente vuoto, per dimostrare che sotto il costume non ci sono uomini, ma sono gli spiriti a muoverli. Grazie allo stato di trance i loro corpi posseduti acquistano dei superpoteri che gli permettono di visualizzare le cattive azioni della gente. Si tratta degli Zangbeto, i guardiani notturni nella tradizione del popolo Fon: essi pattugliano le strade proteggendo la gente e scovando i criminali, che eventualmente poi vengono condotti davanti alla comunità − o direttamente in caserma − per la punizione. Prima di andarcene, ci comunicano che per questa cerimonia in nostro onore sono stati sacrificati un montone e quattro polli, ma non si può mai sapere se quello che viene detto ai turisti è vero oppure serve solo per fare effetto.
La tappa successiva è il mercato dei feticci Gbedagba, dove oltre alle consuete carcasse figurano numerosi animali vivi come gatti, ratti, cani, galline in gabbia e anche una scimmia. Qui siamo protagonisti di un altro caso diplomatico, perché un ennesimo bancarellaro iconoclasta inveisce al nostro indirizzo chiamando in causa tutte le generazioni di spiriti degli antenati e tutte le divinità vudù a lui note, per cui siamo costretti a riporre le macchine fotografiche.
Nell'afa del pomeriggio ci dirigiamo a Detohou per conoscere Monsieur Salanon, di professione guérisseur traditionnel (come è vergato a mano sul cartello fuori dall'ingresso). Il vegliardo ci accoglie in una piccola stanzetta e ci fa accomodare per terra. Gli abbiamo portato una bottiglia di liquore all'ananas, ma ci vuole offrire un suo personale potente vino di palma in piccoli bicchierini che dobbiamo bere tutto d'un fiato, non prima di averne versato qualche goccia per terra come ringraziamento. Mentre l'alcol brucia l'apparato digerente, Salanon solleva il coperchio di una teglia di spezzatino rituale, intinge il dito indice nel sugo e lo inserisce dentro l'ombelico. A quel punto entra in trance cominciando a proferire lamentose litanie accompagnato dalla tipica maraca beninese. Poi ci spostiamo nel suo studio vero e proprio, dove si mette ad armeggiare con conchiglioni, corni, polvere magica e campanelli: su una parete è disegnata una grande vipera, per terra sono accatastati pupazzetti di legno, piume, bottiglie vuote, gusci, barattoli, stracci e una vecchia radio. Mi è sembrato che Salanon non conduca una brutta esistenza: oltre a tracannare un discreto numero di drink, possiede un numero spropositato di mogli, ognuna delle quali, a turno, dedica una intera giornata a servirlo.

Per partecipare alla seconda danza tradizionale, l'Egungun, raggiungiamo un villaggio dalle parti di Bohicon, dove già la popolazione, allertata sin dal mattino, è schierata come di consueto attorno ad uno spiazzo di terra battuta. Ci accolgono dei musicisti itineranti che ci fanno accomodare accanto ad un altro gruppo di percussionisti, alla maman che ci aveva organizzato l'evento e a tutti gli altri. Anche qua uno dei tamburellisti, non so se in stato di ubriachezza molesta o a causa della ben nota mania persecutoria, comincia ad adirarsi e a pretendere che non scattiamo fotografie; dunque si offende ostentatamente e si rifiuta di suonare. Quando riescono a sedarlo e a fargli riprendere posto, appaiono le maschere: le due principali indossano ingombranti vesti sui toni dominanti del rosso, decorate con motivi patchwork, conchiglie, paillette, nappe e amuleti ripieni di medicinali protettivi; gli strati di tessuto svolazzano durante le loro giravolte, creando la cosiddetta brezza benedetta.
Anche il compito degli Egungun, posseduti dagli spiriti degli antenati, è quello di liberare la comunità dai mascalzoni, indirizzando i vivi sulla retta via; per questo si divertono ad inseguire gli spettatori, che scappano velocemente per non farsi toccare: in questa sorta di acchiapparello africano infatti essere sfiorati dall'Egun significa cadere immediatamente in catalessi.
Col passare del tempo la danza diventa sempre più vorticosa, i tamburi più ossessivi, le richieste di banconote più insistenti, le nostre trachee più intasate di terra, le bottiglie di superalcolici che girano tra gli spalti più vuote. Un paio di inseguiti, malauguratamente toccati dall'Egun, sono crollati a terra e poi vengono portati via a braccia. Prima che accada qualche evento imprevedibile, ci dirigiamo rapidamente verso l'autobus, inseguiti a nostra volta da gente che pretende un cadeau.

CAPODANNO AD ABOMEY

Tornato all'albergo ritrovo una bustina di fiammiferi con l'immagine d'un cappello da cowboy, dicitura: "Un pas de plus vers l'Ouest". È la réclame delle Marlboro, che indica l'ovest come direzione di marcia del progresso: "Un passo di più verso l'occidente". Ma gli africani andranno verso l'occidente? Diventeranno scomposti, pedagogici, romantici, depressivi, maniaci del tutto sotto controllo? Crederanno nella privacy, nelle vacanze, nei progetti, nella testa proiettata verso l'avvenire e mai nel presente dov'è? Si vergogneranno della deperibilità dei corpi, del vecchiume, degli scarti, del rimediato, dell'aggiustato? Bandiranno il disordine naturale delle cose, il contatto non legalizzato dei corpi, le mescolanze del nuovo e del vecchio, del fresco e del putrido?
(Gianni Celati, “Avventure in Africa”)

Dimenticati gli antichi fasti sanguinari del Dahomey e le tetre pratiche dei féticheurs, il giorno dopo Abomey mi mostra la sua faccia più variopinta e festosa. Sulle insegne fatte a mano c'è scritto “Palais de beauté”, “Style coiffure”, “The Best Coiffure & Trèsse” accanto al disegno di teste acconciate, treccine e rasoi elettrici; tazze e chicchi di caffè illustrano l'offerta merceologica delle cafetariat; macchine fotografiche e videocamere attirano l'attenzione sugli studio photo e sui servizi di “photo identité en 2 mn”, donne che rimestano in pentoloni avvisano che c'è un maquis (piccolo ristorante), pesci e pezzi di pollo allertano in merito alla presenza di un negozio di Poissonnerie et divers. A volte sull'insegna appare la faccia del negoziante, come nel caso di Zola − che tra l'altro è contemporaneamente venditore di congas e parrucchiere (nel suo listino propone il taglio “Karl-Lewis” a 400 CFA). Molti esercizi commerciali per il naming attingono al vocabolario introdotto dai missionari, come testimoniano il maquisLa gloire de dieu”, i minimarket “La grace divine” e “Dieu est grand”, il parrucchiere “Jesus is winner”.
C'è molta confusione nelle strade e nei mercati, è l'ultimo dell'anno e bisogna solennizzarlo: nelle botteghe sulla strada le bottiglie di rum, gin o whisky schierate in ordinate file vanno a ruba (a volte le stesse bottiglie sono colme di arachidi o anacardi tostati); i sarti stanno ultimando gli ultimi completini fantasia seduti davanti alle loro macchine per cucire a pedale o preparano il ferro da stiro, riempiendolo con pezzi di carbone incandescente, per l'ultimo tocco; decine di capigliature vengono organizzate in minuscole treccine; nel mercato i pesci stanno ad arrostire sulle griglie, le foglie vengono riempite di polentine di mais, farine bianche e rosse sgorgano da piccoli mulini. Al Cyrano club (sottotitolo: dieu dispose) si festeggia invece giocando a dama beninese e alla playstation, o semplicemente guardando la TV.

La più importante di tutte le mascherate propiziatrici tipiche del luogo si chiama Gelede ed è stata inserita dall'UNESCO nel patrimonio immateriale dell'umanità. Le espressive maschere scolpite nel legno vengono indossate come copricapo, ossia in cima alla testa del danzatore, la quale è coperta da un pareo. In genere la maschera rappresenta una testa umana oppure di animale, a volte sormontata da sculture diverse: ad esempio un uccello, un militare, un omino nudo con un pene enorme, un bambino con una bacinella in testa che va a prendere l'acqua dal pozzo (l'acqua esce veramente). Nello spiazzo di terra battuta dunque, tra le percussioni d'ordinanza e alcuni uomini armati di scacciamosche, si alternano i diversi personaggi in una recita apparentemente solo comica e divertente, ma che come al solito ha anche un fine educativo (in sintesi, secondo gli Yoruba, il mondo è fragile e per vivere in armonia bisogna praticare cautela, diplomazia e rispetto).
Alla base di questa pantomima, che celebra il potere delle “madri” nella società, ci sono le storie della mitologia Yoruba (che, mischiandosi con il cattolicesimo, ha dato origine ai famosi culti sincretici afroamericani). La leggenda alla base della danza narra che Yemoja, la madre di tutti gli orisha e di tutte le cose viventi, non poteva avere figli, così consultò un oracolo che le consigliò di fare sacrifici e ballare con immagini di legno sulla testa e cavigliere metalliche ai piedi. Il rituale funzionò ed ebbe due figli (un maschio e una femmina), i quali incontrarono le sue stesse difficoltà e le risolsero con lo stesso balletto − e infatti una delle maschere più carine raffigurava una donna incinta, che sfoggiava un enorme pancione di legno.
Un uomo vestito di giallo passa tutto il tempo a raccogliere i crini dello scacciamosche e i minuscoli fili di paglia che cadono per terra, essi infatti sono dei portafortuna: vengono conservati e poi consegnati agli studenti al momento degli esami.

A bordo dell'autobus la guida e Rafiu stanno parlando di politica. Quando viene nominato Hollande, il tono diventa aggressivo e si mettono quasi a urlare che lo avrebbero voluto morto: «Pilota le cariche politiche del Benin per biechi motivi di interesse economico, la corruption est une véritable catastrophe». Nemmeno Sarkozy riscuote il loro favore: «Quando venne in visita ufficiale, ebbe il coraggio di dire che da noi non c'è sviluppo perché la gente è ancora troppo attaccata alle tradizioni»; di fronte alle vibranti proteste, lui interruppe la visita e non si fece mai più vedere. «Ma il suo primo impardonnable errore è stato quello di uccidere Gaddafì, l'ago della bilancia negli equilibri tra Europa e Africa e grande benefattore per il Benin: sai, ha fatto costruire moschee, scuole e anche l'università... Lui sì che stava lavorando per la vera libération de l'Afrique
L'hotel di Abomey è sprovvisto di wifi e sembra di essere tornati ai vecchi tempi, quando un viaggio significava davvero staccare in ogni senso con la vita normale. Dopo essermi scrostata di dosso gli strati di terra rossa con l'acqua della cisterna, nell'attesa di raggiungere il ristorante di Jean-Luc (un francese che abbiamo conosciuto in città) per il réveillon du nouvel an, mi spaparanzo su una bella sedia di legno intarsiato a godermi la sensazione di benessere e di sospensione temporale. Sono in Africa, ci sono più di trenta gradi e fra poche ore finirà il 2015. L'anno è iniziato nel continente americano (precisamente a San Cristobal de las Casas), mi ha visto scorrazzare in varie località dell'Asia e dell'Europa e terminerà qui, nel Golfo di Guinea, dove la sabbia e l’argilla del Sahel incontrano l’Oceano. 

GANVIÉ, LA CITTÀ SU PALAFITTE

Dal bastione meridionale guardarono la grigia laguna, le mangrovie e, più oltre, la linea della risacca.
Quello svolazzo di calligrafia araba era un uomo che, con la pertica, spingeva la canoa verso casa.
Luci fioche si muovevano lungo il sentiero che scendeva alla spiaggia: risalendo quel sentiero Dom Francisco era arrivato, e per quello stesso sentiero era scesa la parola «Voodoo» avviandosi verso le Americhe.

(Bruce Chatwin, “Il viceré di Ouidah”)

Mentre salutiamo per sempre Abomey, dal finestrino dell'autobus noto un paio di teneri pagliai che passeggiano saltellando tra i passanti e lo interpreto come un buon auspicio. Inizialmente la strada sembra come si deve, ma è solo un'illusione; o meglio, la strada nuova e ben asfaltata c'è pure, ma nella maggior parte dei tratti è proibita agli autobus e ai camion, costretti a percorrere le complanari (infami piste sabbiose piene di buche). Tra l'altro ho lo stomaco sottosopra a causa di qualche bicchierino di troppo bevuto la sera prima in occasione della cena, peraltro pessima, che ci hanno servito al réveillon.
Dalla laguna di Nokoué partono le traversate in piroga per raggiungere Ganvié, la più estesa città africana su palafitte, fiore all'occhiello del turismo beninese. Gli antenati degli attuali abitanti si sistemarono qui per sfuggire alle razzie dei mercanti di schiavi Fon, i quali per motivi religiosi non potevano nemmeno sfiorarla l'acqua. Qualunque tipo di attività si svolge in barca e nelle capanne costruite su pali di legno infissi nel fondale del lago: commerci, approvvigionamento d'acqua, realizzazione di treccine, pesca, contrabbando di benzina nigeriana.

La navigazione procede placida tra canneti giallastri su cui svolacchiano garzette, cormorani e falchetti; la popolazione si sposta a remi, mentre quelli che stanno fermi è perché stanno pescando oppure stanno vendendo le loro mercanzie. La gente è molto fotogenica con gli abiti colorati e i turbantini, ma non si mostra molto affabile e molti di loro, specialmente le donne, si coprono la faccia con le mani.
Scendiamo su un isolotto artificiale dove sorge una grande moschea. In corrispondenza della statua dorata di un antico re giunge l'ormai familiare grido: «Pas de photos!»; proviene da due uomini in canottiera che si stanno avvicinando con un'andatura piuttosto minacciosa. Parte il solito alterco, ma per fortuna poco dopo compaiono dei ragazzotti muniti di occhiali da sole e copricapi colorati, che possiedono un provvidenziale smartphone puntato verso di me; finalmente siamo pari. Quando gli grido: «Il faut payer pour prendre des photos!», le risate suggellano la fine delle ostilità e possiamo esplorare in tranquillità il villaggio, dove fervono partite di calciobalilla e biliardo.
La guida che ci accompagna è un poliomielitico secco secco che cammina piegato in due come un compasso, ma dotato di un'agilità straordinaria: non deve essere stato facile nella sua condizione arrivare a fare questo mestiere, che tra l'altro prevede un continuo salire e scendere dalla piroga. Alla fine ci chiede un supplemento perché la gita era durata più del previsto, ma ritira la richiesta quando gli si fa notare che si è protratta perché lui stesso ci ha condotto in più di una capanna adibita a mercatino artigianale.

OUIDAH, LA CAPITALE DEL VUDÙ

Il re partì per la guerra in gennaio e le squadre di prigionieri incatenati cominciarono ad arrivare a Ouidah verso la fine di marzo.
Erano intontiti dalla paura e dallo sfinimento. Avevano visto bruciare le loro case e massacrare i loro capi. Con la gola ridotta a una piaga dal collare di ferro, mostravano sulla schiena le striature violacee delle sferzate; e quando videro le navi dell'uomo bianco, seppero che sarebbero stati mangiati.

(Bruce Chatwin, “Il viceré di Ouidah”)

Temevamo di non trovare posto in questo albergo in riva al mare e invece, figuriamoci, anche se è il primo dell'anno di bungalow liberi ce ne sono quanti ne vogliamo. E pensare che siamo in una delle zone più turistiche del Paese: Ouidah, la capitale del Vudù, nonché porto adibito al commercio negriero fino alla seconda metà dell'Ottocento.
Dopo aver tentato inutilmente di fare il bagno (la spiaggia è deserta, l'atmosfera epica, ma le onde estremamente possenti) ci facciamo portare al tempio dei pitoni. Si dà il caso che a Ouidah abitino moltissimi adoratori di questi serpenti non velenosi; gli adepti sono riconoscibili dalle scarificazioni gemelle sulle guance e sulla fronte e questo è il loro luogo di culto. I pitoni sacri di frequente razzolano indisturbati per la città (finché qualcuno li prende e li porta a cuccia), ma quando non se ne vanno in giro stanno acciambellati nella capannuccia interna, alcuni di loro avvolti intorno a rozze teste di legno poggiate intorno al buco centrale. Al centro dello spazio sacro svetta un enorme ficus circondato da un lenzuolo bianco macchiato da materiali che non voglio sapere, residui delle offerte rituali. Nonostante lo schifo immenso, non posso evitare che una grossa pitonessa mi venga posata intorno al collo. Di fronte al piccolo tempio, spicca la colonialissima cattedrale dell'Immacolata Concezione, tutta pitturata di celeste: faccia a faccia la religione dei conquistatori mai davvero andati via e quella degli ex deportati, sfruttati oggi come ieri.
Appena scesa dall'autobus basta un attimo di distrazione e le zanzare mi divorano. Fa molto caldo anche a tarda sera e a bordo piscina è molto umido; in sottofondo si sente il ruggito inquietante delle ondate oceaniche, che sciabordano oltre la spiaggia in discesa. I camerieri sono abbastanza sfaccendati ma comunque sorridenti quando mi portano la mia bière Béninoise gelata.

«Ça va? Bien dormi?», ti salutano i sempre compìti lavoratori del turismo beninesi. «Ça va bien (e voglio vedere: è il 2 gennaio, è piena estate e sto andando a bere un Nescafè in spiaggia) et toi ça va?» "Bien dormi”, però, mica tanto: durante la notte ho avuto un attacco di malaria isterica a causa del gelo prodotto dal condizionatore (acceso di straforo e dunque non regolabile). Dopo che l'ho spento è diventato caldissimo e l'aria era irrespirabile per gli effetti chimici dello zampirone e dello spray repellente; fuori dal bungalow c'era un'umidità inverosimile mentre la risacca era coperta dal ronzio dei condizionatori.
Durante la mattinata approfondiamo la conoscenza della route des esclaves, che gli uomini rastrellati dai re del Dahomey erano obbligati a percorrere in catene fino alla costa, dove le navi li attendevano per portarli in Brasile. Questa pista sabbiosa lunga quattro chilometri − dove gli incidenti in motorino sono all'ordine del giorno − collega il centro della città alla spiaggia e ci siamo già passati infinite volte in autobus, tanto che conosco a memoria tutte le statue di cemento (compresa quella del serpente che si morde la coda), la laguna con le mangrovie, l'ingresso del tempio dei pitoni di fronte alla chiesa cattolica, la scritta sul muro: “Interdit d'uriner - amende: 5000 F”.
Per ripercorrere l'epopea della diaspora africana, affittiamo una guida che ci conduce presso i vari luoghi della memoria, fondamentalmente statue della tradizione vudù che simboleggiano le fasi chiave della vicenda: a parte il forte portoghese infatti non è rimasta nessuna altra traccia materiale di ciò che è accaduto.
Le tappe sono: piazza Cha-cha (davanti alla casa del Vicerè Francisco de Souza, il famigerato negriero brasiliano), dove gli schiavi venivano acquistati e marchiati con il ferro rovente; l'albero dell'oblio, intorno al quale dovevano girare − gli uomini 9 volte e le donne 7 − per dimenticare la loro patria e la loro cultura; il memoriale Zomachi, monumento alla riconciliazione, dove ogni anno a gennaio discendenti di schiavi e mercanti si riuniscono per chiedere il perdono; la casa Zomaï, una baracca buia dove venivano tenuti i poveretti prima di partire, per farli abituare all'oscurità e alla costrizione che li attendeva nelle stive; il Mémorial du Souvenir di Zoungbodji, eretto sul sito della fossa comune degli uomini morti prima di lasciare l'Africa, dove vi è un pannello futurista di sei metri e varie statue di uomini o donne in catene; l'Arbre du Retour, girando attorno al quale gli schiavi si assicuravano che dopo la morte i loro spiriti sarebbero tornati nel paese natale.
E infine si arriva alla spiaggia, dove sorge la porta di non ritorno, un imponente arco dal sapore sovietico, dove predomina il colore rosso della terra beninese, ornato da bassorilievi che rappresentano due file di africani incatenati; sulla base sono scolpite le immagini di simboli vudù e ai due lati si ergono due grandi opere in bronzo postmoderne, che dovrebbero rappresentare gli schiavi che si liberano dalle catene.

SOGNARE ALL'AEROPORTO DI COTONOU

Al golfo del Benin stacci attento, per uno che ti scappa ne restan buoni cento.
(Proverbio negriero)

La spiaggia di Grand Popo si trova a soli 25 chilometri dal Togo ed è molto simile a quelle di Ouidah e di Lomè: le stesse palme, la stessa aria polverosa, la stessa sabbia scura, le stesse immense onde bianche. Qui però ci sono degli ombrelloni di paglia, con le sedie a sdraio quasi tutte vuote, e alcuni venditori indigeni o addirittura nigerini; per pranzo mangio un fantastico barracuda con contorno di platano fritto aloko e poi riusciamo a farci cambiare in euro i CFA che ci sono avanzati.
Solo quaranta chilometri di strada asfaltata separano Ouidah da Cotonou, il cuore economico del Benin, ma il tempo di percorrenza è comunque infinito per via del traffico delirante. Un incidente stradale ha causato dei morti, che sono stesi per terra tra i gas di scarico. Auto, minibus, motociclette sono carichi di mercanzie e gente pigiata, in molti casi contro ogni legge della fisica. Le moto sono milioni e questa è una delle più grandi novità di questo viaggio in Africa occidentale: le fiumane di gente che procede a piedi si sono assottigliate, sostituite dalle scoppiettanti due ruote cinesi. Mi ha sorpreso molto anche il fatto che − pur avendo percorso minimo 1500 chilometri − mai una volta ci hanno chiesto una tangente a un posto di blocco.
Al ristorante di Cotonou finalmente capisco che il pollo non vale niente e che bisognava ordinare la ben più polposa pintade (faraona), che nella fattispecie ho mangiato con contorno di igname pilè (come chiamano il fufu in Benin). Meglio tardi che mai.
Arriviamo con larghissimo anticipo all'aeroporto di Cotonou. Le sedie della sala d'attesa sono ancora tutte vuote e io mi addormento in una posizione scomodissima. Nel sogno cattolici, protestanti, cristiani celesti, islamici e animisti stanno tutti seduti sotto lo stesso tendone e insieme battono le mani e cantano; poi i ritmi e i riti del Golfo di Guinea diventano balli caraibici e messe cantate nelle chiese del sud degli Stati Uniti, le maracas beninesi vengono usate per uno spettacolo sulla scalinata di Trinidad, a Cuba, e gli stessi vestiti colorati con i lucchetti e le foglie sono indossati da uomini e donne di Bahia. I poliziotti neri delle serie americane non hanno le scarificazioni ma io li riconosco lo stesso, mentre le bambine di Haiti parlano spagnolo ma sono piene di treccine.
Un bambino che piange mi sveglia, i sedili si stanno riempiendo dei pochi passeggeri che sono in procinto di partire, il bocchettone dell'aria mi arriva proprio in testa, esco a fumare l'ultima sigaretta.

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