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DISCORSI DI RIFIUTO E DI CHIUSURA
Penso sia più giusto parlare di discorsi di rifiuto e chiusura, piuttosto che di discorsi reazionari, perché sono convinto che di questo spesso si tratti: se reazione c’è, è nel senso letterale del termine, ed essa si esprime in rifiuto e chiusura rispetto a cambiamenti che talvolta hanno anche segno negativo, soprattutto ma non solo per le fasce più deboli della popolazione. Sarebbe quindi un errore liquidarli, come pure sarebbe facile fare, con una semplice condanna morale, ostacolandone la comprensione. Restano però discorsi profondamente sbagliati, dannosi anche per coloro che li sostengono oltre che per la società in generale. Essi vanno quindi combattuti, e con radicalità, ma capendone i motivi e sforzandosi, per quanto possibile, di tenere conto dei bisogni che li alimentano.
Come ho già osservato, questi discorsi sono di regola più semplici perché si limitano a opporsi al cambiamento; a chiedere un ritorno a quel che già c’era; ad affermare principi in apparenza semplici e sempre validi, perché basati su un’apparente accettazione del mondo così com’è che è in realtà un rimpianto per un mondo che non c’è più, visto che il «mondo come è» è in continua evoluzione, un rimpianto che è spesso anche quello per la propria giovinezza. La loro semplicità e le loro contraddizioni non li rendono meno attraenti e contribuiscono anzi a renderli più popolari, anche perché costituiscono altrettanti legami con un’immagine anch’essa semplice e autoconsolatoria di mondo giusto, e di un’immagine di mondo giusto e dei modi per arrivarvi tutti abbiamo bisogno.
Essi sono inoltre discorsi che è facile confutare e che sono stati spesso e convincentemente confutati, cosa che quindi mi astengo dal ripetere. Piuttosto, mi sembra importante capire che confutarli condannandoli, cosa che pure è facile fare vista la loro frequente sgradevolezza, non solo non basta, ma non aiuta e potrebbe essere controproducente. Questi discorsi di rifiuto e di chiusura sono infatti la reazione spontanea a mutamenti percepiti come negativi da ampi strati della popolazione delle società del Moderno maggiore maturo, dai «nativi» più a disagio, non solo economico, ad ampi segmenti di fasce trasversali come quelle più anziane e quella maschile. È in altre parole fondamentale ricordare che in queste società si è formato un bacino «reazionario e di rifiuto» altrettanto e forse più solido di quello tradizionale delle società in via di modernizzazione, ma diverso da esso. Se quello tradizionale si basava sui potenti resti sociali, economici e ideologici di strutture un tempo dominanti, con l’eccezione del mondo maschile, il nuovo è alimentato da sorgenti di altra natura: l’invecchiamento, la solitudine, le aspettative decrescenti, il senso di emarginazione e frustrazione di fronte a una tecnologia che richiede sempre più competenze e sofisticazione, la reazione di chi non ce la può fare, anche solo per motivi legati a disagi psichici o comportamentali, di fronte ai discorsi meritocratici di un progressismo altrettanto semplicista che predica in forme nuove la vecchia storia di come tutto sia facile se solo c’è la volontà. (...)
A unire questi discorsi è quindi una generica domanda di frenare il cambiamento e di alterarne il corso, particolarmente forte in paesi che dominavano il mondo e hanno visto e vedono diminuire il loro peso, il loro ruolo e i loro privilegi, magari anche solo quelli psicologici legati allo status di grande potenza. Le forme più pericolose di questo discorso si sono non a caso manifestate nei paesi guida della seconda parte del Novecento, la Russia, cuore dell’Unione sovietica e del blocco socialista, e gli Stati Uniti, dove hanno assunto la forma di un discorso di ritorno alla grandezza passata. Sono forme certo incomparabili per aggressività e virulenza, anche perché la catastrofe vissuta dalla prima è radicalmente diversa dal lento ridimensionamento dopo il trionfo della seconda. Putin, tuttavia, è l’alfiere di un Make Russia Great Again che è mosso da aspirazioni analoghe, ancorché più brutali e velenose, del Make America Great Again di Trump. Come è stato più volte osservato, la sconfitta non è quindi solo generatrice di riflessioni e riforme, ma anche di incattivimento e desideri di rivalsa, spesso costruiti su, e generatori di, teorie del complotto.
Più in generale, la riduzione, almeno relativa, di status di cui soffrono tutti i paesi «bianchi» e quindi buona parte dei loro abitanti è una delle basi principali del discorso contrario alla globalizzazione. Esso si nutre anche di altri elementi come la già ricordata avversione al dominio dell’inglese, o l’acutizzazione della domanda, già viva, di più stabilità, ordine e sicurezza prodotta dai ritmi vertiginosi assunti dalla globalizzazione a partire dagli anni Ottanta. Contano inoltre i suoi indubbi, ancorché secondari, effetti negativi, che colpiscono per esempio i più esposti a correnti economiche e migratorie il cui saldo complessivo è positivo ma che non di meno fanno delle vittime. Pensiamo per esempio ai lavoratori licenziati da industrie che si trasferiscono all’estero per godere di vantaggi competitivi di cui, certo, beneficiano nel loro insieme gli abitanti dei paesi che perdono quei posti di lavoro ma che aumentano i loro consumi o vedono nascere nuove attività grazie alla riduzione dei prezzi; oppure ai settori emarginati da un progresso tecnologico sempre più veloce o sottoposti per la prima volta alla competizione internazionale; o alla parte più debole e meno qualificata della forza lavoro, di colpo sottoposta a una concorrenza seguita ad anni di accresciuto, ancorché relativo, benessere dovuto anche alla rarefazione della domanda di lavoro dequalificato, una condizione che, per esempio in Italia, si è verificata negli anni Ottanta ed è stata poi invertita dall’immigrazione.
Alcuni di questi punti si ritrovano, variamente combinati, nella galassia del discorso rosso-bruno sulla globalizzazione, nutrito anche dal senso di rivalsa di quella parte della sinistra che, in Occidente, si è sentita ingiustamente sconfitta negli anni Ottanta e ha quindi elaborato sue teorie del complotto. Ma il discorso di rifiuto e chiusura preminente è forse quello di un «nazionalismo» primitivo e irriflesso, espresso dal successo del «prima noi» (...).
Questo «prima noi» è senz’altro manipolato e usato, come alcuni sostengono e come è in realtà sempre avvenuto, da «imprenditori politici» più o meno scaltri e volgari, ma questi hanno successo solo in quanto esistono condizioni che fanno del «prima noi» la risposta naturale a insicurezze e sofferenze presenti. Nei paesi del Moderno maggiore maturo, Italia inclusa, esso ha in genere come alter ego il timore e il disagio nei confronti degli altri, di regola gli immigrati, specie ma non solo i più distanti per religione e/o colore. Sono sentimenti che possono sconfinare nel «razzismo» vero e proprio, ma non costituiscono di per sé un discorso razzista compiuto e sono, almeno razionalmente, facili da confutare, anche per via della loro contraddittorietà. Se non derivano da formali posizioni razziste, essi sono infatti contraddistinti dalla mancanza di logica: non si fanno figli, non si vuole peggiorare, ma si sceglie così di restare soli e vecchi, che è una scelta suicida in termini di benessere personale e collettivo. Il problema è che il «suicidio», cioè l’autoisolamento in condizioni di peggioramento, è una scelta possibile, a suo modo rassicurante, e che quindi può essere fatta.
Lo stesso si potrebbe dire per il discorso sulla sicurezza, che di quello sull’immigrazione e la diversità è spesso un complemento. Anche in questo caso si tratta di un discorso, almeno in Europa, facilmente contestabile: probabilmente a causa di invecchiamento e maggiore istruzione, il tasso di omicidi vi è per esempio crollato (in Italia tra il 1991 e il 2020, gli anni dell’immigrazione, esso è precipitato dal 3,4 allo 0,53 per 100.000 abitanti). Ma costruiamo la realtà a partire dalle e sulle nostre percezioni e se la soglia della nostra percezione di certi fenomeni muta (come per esempio sembra aver fatto quella relativa alla sicurezza in società di vecchi più timorosi della violenza e propensi a darle più peso di quanto non facciano i giovani), muta di fatto anche l’indicatore che segnala l’ingresso in una zona di pericolo e attiva le reazioni ad esso.
Anche il discorso sulla difesa della famiglia e dei ruoli di genere tradizionali esprime aspirazioni diffuse in una società di persone sole che spesso rimpiangono il loro passato. Il fatto che sia facile da criticare, non solo perché il passato non può mai tornare, ma perché sono stati e sono i nostri comportamenti individuali ad aver provocato e a provocare la sua scomparsa (come prova per esempio il dato sul crollo dei matrimoni e il balzo della percentuale dei figli nati fuori di essi o il fatto che siano leader assolutamente «moderni» nelle loro scelte di vita a invocare il ritorno al passato), non basta quindi a indebolirlo.
Torniamo così al problema posto dalla natura di questi discorsi e dal nuovo contesto che li alimenta. Entrambi suggeriscono che condannare e contestare serve meno di comprendere e convincere, accogliendo le preoccupazioni che esprimono e cercando di far capire perché le risposte che essi forniscono sono velleitarie e controproducenti. (...)
Dato quanto si è detto, è evidente che una politica a favore dell’immigrazione, che è forse la manifestazione più importante dell’apertura e dell’agganciarsi al boom che una parte del mondo sta ancora vivendo, è una scelta indispensabile per evitare un collasso probabile. Per questo tale politica dovrebbe essere la più attiva e razionale possibile, anche attraverso la creazione di un’Agenzia nazionale di alto livello, coordinata con un simile organismo europeo, che sappia mettere a frutto le migliori esperienze e gestisca quantità e composizione dell’immigrazione (in base a criteri come necessità, competenze, più o meno elevato grado di «distanza» culturale e individuale rispetto alla popolazione residente ecc.) e condizioni, diritti, e integrazione degli immigrati fino all’accesso alla cittadinanza. Accogliere l’energia oggi disponibile e farlo in modo intelligente, riducendo al minimo le inevitabili tensioni e massimizzando i grandi benefici che può portare, non è insomma un risultato predeterminato e le scelte sbagliate, gravide di effetti politici sgradevoli, sono una possibilità reale.
Ciò andrebbe fatto con la coscienza che, malgrado le difficoltà e le tensioni che l’immigrazione effettivamente provoca, essa non è un peso, ma un’opportunità straordinaria e un rimedio che non sarà sempre a nostra disposizione. Il serbatoio dei paesi di emigrazione è infatti destinato a esaurirsi per la stessa ragione per cui gli immigrati tendono ad adottare il regime di fecondità delle popolazioni ospitanti, vale a dire per quella comprensibile preferenza degli individui per sé stessi di cui abbiamo più volte parlato.