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LA MIA SECONDA CASA

Settimana Santa in Siria

Quando sono andata in Siria, era difficile immaginare cosa sarebbe accaduto soltanto un anno dopo. Era il periodo di Pasqua e, presso il monastero di Padre Paolo, fui colpita dallo spirito di fratellanza che accomunava le famiglie che consumavano il picnic del venerdì islamico e quelle che celebravano il venerdì santo. 
In realtà alcuni dettagli mi fecero riflettere: il Presidente col mezzo sorriso su grandi poster, la chiusura degli abitanti nei confronti dei discorsi politici, i repentini cambiamenti economici e sociali in corso di cui mi parlarono, l'aria inquisitiva della guida russofona che il governo ci aveva imposto. Ma lì per lì non ci feci molto caso, abbagliata dal sole della Siria e affascinata dalle ricche tracce del passato e dalla seducente cordialità del suo popolo.

LA VIA DI ALEPPO

Dicevano gli antichi che la poesia / è scala a Dio. Forse non è così / se mi leggi. Ma il giorno io lo seppi / che ritrovai per te la voce, sciolto / in un gregge di nuvoli e di capre / dirompenti da un greppo a brucar bave / di pruno e di falasco, e i volti scarni / della luna e del sole si fondevano, / il motore era guasto ed una freccia / di sangue su un macigno segnalava / la via di Aleppo.
(Eugenio Montale, “Siria”)

Aeroporto di Aleppo, le due di notte. Interminabili procedure burocratiche, luci al neon e video di tarantelle siriane anni Settanta al piccolo televisore in alto. Innumerevoli i baffi.
Interno bus diretto verso città ancora sconosciuta (l'ennesimo). «Non vi dimenticherete mai di questo viaggio» annuncia Hisham, l'ex ufficiale russofono che il governo socialista ci ha imposto come guida per tutta la durata del soggiorno. «Da ora in poi anche voi, come tanti altri illustri personaggi che abbiamo avuto la fortuna di ospitare, avrete una seconda casa oltre la vostra: la Siria».
Non ci dimenticheremo nemmeno del pane arabo steso sulla ringhiera di un marciapiede, ben impregnato di gas di scarico? E dell'orologio da tavolo a forma di moschea, che come sveglia ha il richiamo del muezzin? Mi chiedo la sera successiva, mentre gironzolo nei paraggi dell'hotel in attesa della cena. E comunque, penso, se la mia seconda casa è come questa qui del Diciassettesimo Secolo, trasformata nel ristorante Beit Sissi, allora non è male come idea: boiserie di legno scuro, archi di pietra, cortile abitabile, ceramiche arabescate, soffitti di legno intarsiato, bifore ricamate, lampadari a molti bracci, ferro battuto e perline. D'altra parte, informa il sito web del ristorante, il Presidente in persona ci ha cenato ben due volte.

Aleppo esiste da tempi immemorabili senza soluzione di continuità: ittiti, seleucidi, romani, bizantini, persiani, crociati, mongoli, ottomani, mercanti europei e chissà chi altri, di volta in volta, l'hanno scelta come destinazione delle loro scorribande.
All'ingresso della cittadella — circondata da un fossato costruito con intento anti-crociato — giovanissimi studenti con i libri in mano fanno a gara per farsi fotografare. All'interno un grande anfiteatro, la moschea e la chiesa, i passaggi segreti, l'hammam, i manichini che si coprono le vergogne con un asciugamano, la sala del trono con straordinarie decorazioni e soffitto in legno e lampadari maestosi. Bevendo il tè sulla terrazza puoi guardare tutta la città vecchia spalmata davanti ai tuoi occhi.
Venti secondi dopo essere entrata nel suq compro due chili di sapone di Aleppo all'olio di oliva e alloro (ero stata io a dire: non compriamo niente se no non arriviamo più alla moschea). Dentro la grande moschea, pentita, cerco di sbolognare l'enorme quantitativo di sapone in uno zaino altrui. In quel momento appoggio imprudentemente le scarpe da ginnastica sul tappeto e un fedele — gravemente urtato dalla mia immorale condotta — mi urla dietro con molte vocali aspirate. Io non posso far altro che sopportare malvolentieri l'umiliazione: intabarrata in un pudico mantellone grigio col cappuccio a punta, i saponi odorosi in mano, le colpevoli scarpe sporche per terra e uno zaino misericordiosamente aperto accanto sul tappeto. Torno nel cortile, pavimentato in marmo infuocato, dove i musulmani si lavano i piedi, ed entro contrita nell'ala riservata alle donne. All'uscita, viene condotta a braccia una bara bianca, aperta e coperta da un velo. È il funerale di uno importante, deduce l'onnisciente Hisham soppesando la folla ivi radunata.

Il pomeriggio lo trascorro interamente in quel teatro all'aperto che è il suq. Lo spettacolo si dipana sotto il tetto di lamiera ondulata. Sacchi di spezie: cumino, zafferano, cannella in colorati coni. Secchi ricolmi di vaselina e gusci di pistacchi. Pashmina e seta. Reggiseni di paillette e chador sui mezzi manichini. Vestaglie di piume di struzzo rosse e abiti da Barbie Sposa di primavera. Body traforati e abiti lucidi incellofanati. Carretti itineranti ricolmi di dolci colorati ripieni di frutta secca. Baffi e kefiah. Caffè tostato. Piramidi straordinarie di saponi. Me ne tagliano uno a metà, per farmi vedere quanto verde c'è dentro.
Contrattazioni in arabo-casertano. Urla di richiamo marchigian-siriane. Barzellette goliardiche per attirare i compratori. Tre donne e un uomo mezz'ora di fronte a un tavolino pieno di orecchini spaiati, cercando inutilmente di accoppiarli. Piatti smaltati e tappeti da preghiera. Acquisti mancati per puro puntiglio. Finti bronci e teatrali espressioni inorridite. Sorrisi e inviti in molte lingue. Il tempo si dilata in gioielleria a misurare il peso di collane e bracciali.
Poi trovo marito: si chiama Aledin e vive in Australia, dove lavora al controllo bagagli dell'aeroporto di Sydney. Mi ricopre di megalomani metafore amorose tra un banco e l'altro di tessuti e tovaglie, tutti appartenenti a qualche membro del suo numeroso parentado. Lo show – intervallato dai suoi lunghissimi attacchi di risate, simili ai ragli di un asino sofferente – alla fine è suggellato da un regalo per la sua futura moglie: una sciarpa blu.
Nel quartiere cristiano c'è l'imbarazzo della scelta tra la chiesa greco-cattolica, quella greco-ortodossa, quella maronita, quella siro-cattolica. E siccome è la domenica delle palme, vi sono interi enormi rami di ulivo a disposizione dei fedeli. Per cena provo il decantato e squisito kebab alle ciliegie in un'altra stupefacente casa ristrutturata, che oggi ospita il ristorante Za man. E infine andiamo a fumare la shisha al bar Milano. L'omino della carbonella fa continuamente il giro dei tavoli per sostituire i tizzoni consumati. Quest'inverno è stato molto freddo e un ridacchiante Hisham ci mostra sul cellulare il video in cui sua moglie e i nipotini giocano con la neve in giardino.

VIAGGIO NEL TEMPO

In nessuna parte di terra mi posso accasare / A ogni nuovo clima che incontro / mi trovo languente / che una volta già gli ero stato assuefatto / e me ne stacco sempre straniero / nascendo / tornato da epoche troppo vissute / godere un solo minuto di vita iniziale / Cerco un paese innocente.
(Giuseppe Ungaretti, “Girovago”)

Bando alle ciance, qui dobbiamo collezionare momenti indimenticabili, la maggior parte dei quali richiede un viaggio indietro nel tempo, scorrazzando tra millenni affollati di invasori, colonizzatori, condottieri, viaggiatori, santi e profeti.
Prima fermata: Quinto Secolo, Qala'at Samaan, nord di Aleppo. San Simeone lo Stilita usava soggiornare appollaiato su una colonna, sempre più alta di anno in anno man mano che la sua insofferenza nei confronti del genere umano cresceva. Da lì urlava risposte definitive a chi dal basso lo interpellava. Dopo la sua morte tale era la fama acquisita, che sorse intorno alla colonna la chiesa più grande del mondo di allora, che si ergeva maestosa in cima a questo sperone roccioso circondato da colline. La facciata e numerose arcate e parti di colonne sono ancora in piedi e spuntano dal prato, tra i papaveri. If you will have any questions don't hesitate and ask.
Musica turca, mandorle acerbe, nuvole.

Seconda fermata: avvento dell'Islamismo, Città Morte, Serjilla. I resti sorprendentemente integri degli edifici bizantini sorgono su una collina calcarea spazzata dal vento. Il motivo per cui centinaia di villaggi furono improvvisamente abbandonati intorno al Settimo Secolo non è chiaro a nessuno, c'è chi lo considera addirittura un mistero con la maiuscola. Ma Hisham, questo favoloso militare in pensione e ora guida dal sorriso sempre pronto, pare non curarsene: le ragioni furono senza ombra di dubbio di natura economica (i musulmani ormai imperanti avevano proibito la produzione e il consumo di vino, su cui si reggeva la fiorente economia di questi popoli) e naturale (terremoto). Se avete qualche domanda, non esitate a chiedere. Appunto: non potevano restaurarsi la loro città invece di costruirsene una nuova di zecca? Erano ricchi, preferirono fare così. Problema risolto. Passiamo oltre, avete 45 minuti per visitare: la necropoli, l'hammam, la taverna, la chiesa. Una bimba ci lava le mani con la brocca appena usciamo dalla toilette.
Pane appena cotto, suonerie arabe, tende di pastori.

Terza fermata: Undicesimo Secolo, epoca di crociate, Ma'arat An-Nu'aman. I valorosi (e affamati) uomini al seguito del conte Raimondo di Tolosa massacrarono migliaia di abitanti di questa cittadina e poi si abbandonarono (si dice sempre così) ad atti di cannibalismo. Ma noi siamo venuti qui per ammirare i mosaici provenienti dalle Città Morte di cui sopra, custoditi in un apposito museo. A dire il vero, i mosaici mi hanno sempre annoiato a morte, così me ne vado a zonzo con l'autista fino al khan abbandonato, dove ci scattiamo foto sceme.
Dolcini al miele, banane, bambini con i libri sotto braccio.
Quarta fermata: Terzo Millennio avanti Cristo, sud di Aleppo, Ebla. Una delle più potenti città stato della Siria sorgeva tra queste colline verde Mongolia, oggi brucate continuamente da pecore e capre e percorse a passo di corsa da bambini colorati col fiatone. Fu il solito contadino degli anni Sessanta che, mentre scavava con la zappetta per dissodare il suo misero fazzoletto di terra, scoprì il muro di una casa di cinquemila anni prima. Gli archeologi italiani hanno fatto il resto. Gli oggetti preziosi e le mitiche tavolette d'argilla scritte in sumero sono conservati al museo di Damasco.
«L'attuale presidente (Bashar al-Assad, immortalato in tutte le foto con un mezzo sorriso, N.d.A.) è migliore di quello di prima (suo padre),» confida Hisham «ma comunque lasciamo la politica ai politici.» «Già, parliamo di musica,» interviene provvidenziale l'autista «la cantante preferita dai siriani è Fairouz, ma è libanese. La vuoi ascoltare?»
Quinta fermata: giorni nostri, quartiere cristiano di Aleppo: clacson, arance, collant traforati e mobili in formica. Tavolo imbandito dalle mezze, ceci e melanzane in tutte le fogge, insalatina fresca, arrosto misto di montone, concerto di oud. In chiusura di giornata, tra i fantasmi del polveroso hotel Baron, tornano alla mente vecchie storie.

NEL DESERTO

Lì nel deserto, invece, non c'era niente che osservasse, salvo gli dèi. Nessuna meraviglia, perciò, che la religione fosse nata da quelle parti o che, bene o male, da quelle parti avesse prosperato.
(Tom Robbins, "Feroci invalidi di ritorno dai paesi caldi")

In viaggio verso l'Eufrate fuori dal finestrino scorrono pini, ulivi e pecore. Superati i posti di blocco, si giunge al castello Qal'at Ja'bar, che oggi, dopo la realizzazione della diga, sembra emergere dal lago artificiale Al-Assad, mentre all'epoca in cui è stato costruito (prima ancora degli arabi) nessuno se lo sarebbe mai immaginato. Ciò che resta delle sue doppie mura che spiccano in cima ad una roccia (utili per difendersi, ad esempio, dai bizantini, dai crociati e dai mongoli) è stato accuratamente restaurato dai giapponesi. Abdullah ci apre il portone con una chiave enorme e ci fa entrare in uno spazio desolato, dove si possono osservare alcuni mozziconi di torri in mattoni e il panorama sul lago.

Il pranzo viene consumato in un negozietto sulla strada dove l'intera comunità locale, come sempre accade, si affolla per guardare con quanta avidità questi occidentali spazzolano shawarma e hummus spalmato sul pane arabo. L'addetto alla friggitoria ha le braccia fittamente tatuate di cuori trafitti, colombe e volti di donna. "I love you", ha dedicato a Leila, che fra due mesi sarà sua moglie. Il suo amico, con le mani sporche di falafel e maionese, dispiega il poster della nazionale di calcio, per la solita equazione secondo la quale Italia uguale Azzurri. Dietro producono il pane, dischi volanti che volteggiano tra la farina, ma non posso andarci da sola: sbirciare in un posto così maschile sarebbe inopportuno per una donzella come me. Risaliamo in bus in un nugolo di studenti che aprono i quaderni e chiedono l'autografo.
La sorprendente Rasafa (a.k.a. Sergiopolis) appare isolata in mezzo al deserto. Centro cristiano, poi persiano, poi omayyade, poi abbaside, infine abbandonato con l'arrivo dei mongoli. È così che lo trovo ancora oggi, mentre costeggio sotto grandi nuvole la cinta muraria, ammirando resti di navate, arcate, colonne e cisterne.

DAL CIELO DI PALMIRA

Quando scesi dal cielo di Palmira / su palme nane e propilei canditi / e un’unghiata alla gola m’avvertì / che mi avresti rapito.
(Eugenio Montale, "Luce d'inverno")

Arrivo a Palmira, il sito archeologico siriano per eccellenza: già prefiguro negozietti polverosi, gruppi organizzati, prezzi salati e molti hotel. A posto, sono tutti qui: gli spagnoli, i francesi, i tedeschi, i romani e chissà chi altro, in bilico sulla cresta ai piedi del castello, frustati da un vento gelido, ad aspettare il tramonto. Siamo arrivati in anticipo per lo spettacolo, e inoltre a me sembra di averlo già visto: lo stesso cielo che diventa sempre più arancione, le rocce che si liberano lentamente della luce accumulata, le macchine fotografiche pronte al collo, lo scattare all'unisono per immortalare l'ultimo spicchietto. Fine, spettacolo terminato, tutti in massa verso i bus.
Per la cena ci vogliono alla tenda beduina: dopo il buffet, rigonfi di ceci, non è facile sopportare il balletto beduino e non possiamo far altro che scolarci una bottiglia di vino rosso (molto poco beduino in verità). Dando un'occhiata alle vetrine prima di andare a dormire, sembra proprio giunto il momento per vincere la gara dell'acquisto dell'oggetto più kitsch, ma tale tenzone non può proprio aver luogo in concomitanza con la fiera dell'acaro. Piuttosto, mi bevo un bicchiere di arac con gli autisti.

Sia il nome arabo di questa città (Tadmor, città dei datteri), sia quello romano (Palmira), ribadiscono un concetto inequivocabile: siamo in un'oasi fitta di palme. Qui c'era uno dei crocevia commerciali più importanti sulle rotte che collegavano l'Oriente all'Occidente, fino all'arrivo della mitica Zenobia. Bisogna sapere che nella seconda metà del Terzo Secolo, proprio quando la colonia romana di Palmira stava vivendo il suo periodo più prospero, la bella ed eroica Zenobia, la seconda moglie del re Odenato, assunse la reggenza dopo l'assassinio del marito. Colpita nell'orgoglio perché sospettata di uxoricidio, la regina diede battaglia ai legionari romani, invase l'Egitto e dichiarò la propria indipendenza da Roma. Ma poi fu sconfitta a sua volta dall'imperatore Aureliano, fu catturata presso l'Eufrate e portata a Roma, dove la fecero sfilare in catene d'oro. In seguito Palmira fu colonizzata dagli arabi e la maggior parte dei suoi edifici fu sepolta dalla sabbia. Le prime campagne di scavo furono eseguite negli anni Venti del Novecento e ancora adesso vengono estratti interessanti reperti.
Al mattino eccoci puntuali alle otto e mezzo insieme agli stessi spagnoli, francesi, romani, tedeschi e chi sa chi altro della sera prima, spazzolati da un vento drammatico e accecati dal deserto, incolonnati davanti alla torre di Elahbel (una camera funeraria di quattro piani, tipo un condominio di sarcofagi) e poi presso l'ipogeo dei tre fratelli, famoso per la statue sdraiate a cui sono state mozzate le teste (sui motivi come al solito non ci sono pareri univoci). Di fronte al tempio di Bel (il re degli dei) sfilano cammelli di rappresentanza tutti belli infiocchettati, che con le colonne e la hammada di sfondo creano una pittoresca iconografia, non a caso già piazzata da quelli della Lonely Planet sulla copertina della guida. Poi, attraversato l'arco monumentale, si entra nel grande colonnato, si costeggiano il tempio di Nabo e le terme, e si entra all'anfiteatro restaurato. Proseguendo lungo i due chilometri di colonne si raggiunge il tempio funebre e il palazzo di Zenobia.
L'azzurro intenso del cielo, la fortezza in lontananza, qualche spruzzo di verde tra i "propilei canditi" e le "palme nane" di cui parlava Montale, i cammelli giovani: tutto questo si riflette negli occhiali a specchio del cammelliere. «La luce della Siria può essere accecante di giorno» mi aveva messo in guardia il profetico Hisham. «Ti rovini gli occhi senza occhiali, your beautiful eyes

LE DONNE DI HAMA

Lasciata Palmira, ci sciroppiamo almeno due ore di tragitto nel deserto siriano fino a Homs, la bellicosa (shawarma per pranzo, jeans attillati e magliette scollate, giardini) fino a raggiungere Hama, una cinquantina di chilometri più a nord.
In un hammam del centro storico vengo derisa da donne grasse in mutande e sottovesti leopardate, che mi versano interi pentolini di acqua bollente sulla testa, mi strofinano le braccia e le gambe con un guanto di crine e indicano ridendo la pelle morta prodotta; mi intricano per sempre i capelli sfregandoli con una saponetta dozzinale e mi parlano a voce troppo alta e troppo araba per capirci qualcosa.
Pomeriggio inoltrato coi capelli stopposi tra le norie di Hama, grandi ruote di legno che servono ad attingere l'acqua dal fiume. La serenità di passeggiare sull'Oronte tra le prime luci che si accendono, curiosare nelle botteghe e acquistare nel suq completini intimi con piume e uccelli di plastica, luci colorate e suonerie incorporate (e voi donne del mistero, sotto a quei teli che vi coprono, è inutile che fate quei sorrisi maliziosi che si vedono dagli occhi, vi ho scoperto). Alla ricerca di balsamo occidentale, tra rivendite di tabacco per la shisha, negozi di barbiere pieni zeppi di utensili, caffetterie.
Le donne nell'hammam, enormi e sguaiate, capelli sfibrati dalla saponetta del supermercato, sembrano aver dimenticato Zenobia, fiera regina di un impero, miseramente finita a fare la casalinga a Tivoli. E così si consolano con la depilazione totale (lotta eterna ai peli superflui) e gli uccellini sulle tette. Il kajal sugli occhi, i polsi depilati, le sopracciglia disegnate, l'oro e l'argento, si intravedono sotto il velo. Ma oggi c'è la crisi, lo stipendio non basta, le donne devono andare a lavorare anche qui (non gli si dedica più neppure una città). Le famiglie non sono più unite e i cinesi ci invadono di merci (lavorano tutti insieme, loro). Mentre noi dobbiamo comprare il cellulare, guardare i siti porno, ascoltare l'ipod invece delle cassette, guardare "Avatar" al cinema e dare lezioni private per arrivare a fine mese.

BREVIARIO MEDITERRANEO

Mi portano verso occidente, seguendo le condotte di petrolio che partono dall'Iraq, fino a raggiungere il verde dei pini, degli eucalipti, degli ulivi e del grano. Arriviamo al Mediterraneo, dove tutti ci affacciamo, muretti a secco e tutto. Il Mediterraneo inquinato, da cui arrivarono i popoli del mare, molto prima del petrolio, prima dell'inchiostro e della carta, della poesia, della retorica e della spiritualità in pillole. Mandorle verdi e olive nere a colazione. Anice e fragole, spremute d'arancia e formaggio di capra.
Altri schizzi di papaveri nei prati, e ancora rovine di grigio granito sul cardo di Apamea, cittadina fondata da quel generale che la battezzò col nome della sua consorte persiana (il nome della mamma lo diede invece, molto prudentemente, alla città di Laodicea, o Latakia). Venditori di monete antiche false, greggi di capre, manichini e galline nella selvaggia brughiera verde risaia. I fantasmi di Antonio e Cleopatra, dei crociati di Tancredi e soprattutto dei trentamila cavalli per cui era famosa, fanno capolino nei due chilometri di colonnato restaurato.

Il castello del Salah Ad-Din — feroce sui nostri sussidiari, eroico per il popolo siriano (punti di vista) — si erge a strapiombo, circondato da frutteti e cipressi. Per arrivarci bisogna attraversare in 4x4 un canyon profondissimo creato incredibilmente dai crociati per separare il castello dal resto del roccione; nel corso del lavoro lasciarono in piedi solo una colonna di pietra a forma di obelisco, che c'è ancora adesso e che serviva a mantenere il ponte levatoio. In realtà i crociati compirono inutilmente questo enorme sforzo, poiché furono immediatamente scacciati dall'esercito del Saladino che, con l'ausilio delle catapulte, li colpì su due fronti, e per questo ancora oggi vengono derisi. "I love you" sul cuore di plastica che si illumina di lucine rosse e gialle quando nei pressi del castello l'autista preme il freno. "I love you" su un quaderno: la copertina è l'ultima pagina.
Da Ugarit, il primo porto internazionale, provengono poemi e documenti in un alfabeto nuovo, l'antenato del nostro, e note musicali e una canzone di migliaia di anni fa. Anche qui, nel 1928, fu un contadino munito di zappa che scoprì accidentalmente una sepoltura antica. E per il resto dobbiamo ringraziare gli archeologi francesi. Oggi le rovine visibili sono ridotte ad un informe ammasso di pietre e dunque l'uomo della strada non capisce assolutamente nulla della straordinaria città che (dicono) c'era eoni fa.
Siamo seri. In Siria ci sono una miriade di moschee e di chiese. In Siria, senza retorica, sono passati gli eserciti di ogni provincia guidati da condottieri dai nomi esotici. In Siria può capitare di diventare pedanti e di usare parole come Spiritualità, Culla delle civiltà, Sincretismo. Si può presentare la fugace di illusione di aver compreso, magari davanti alle colonne denudate dalla sabbia.
Sul lungomare di Latakia, dopo un equivoco bagliore, tutte le luci si spengono. Mentre il senso di tutto sfugge, si cerca di inseguirlo con le parole, ci si aggrappa alle parole, ma... la "magica danza della tua vita"? Ho capito bene? L'oud, il violino e la darbouka vanno bene, ma a basso volume. Datemi dolci ripieni di pistacchi e miele, ma non fatemi aspettare tutto questo tempo in un ristorante con le vetrate sul mare senza una birra ghiacciata ("Latakia non vanta particolari attrattive").

VENERDÌ SANTO

«Siamo tutti palestinesi»! In fondo abbiamo tutti perso la Terra. L'abbiamo persa rendendola inabitabile attraverso l'inquinamento, gli ammassi di metallo nelle ore di punta, i muri e i reticolati a protezione della rapina privata, le vedette guardia coste per evitare l'arrivo dei poveri, i mille metaldetector del conflitto tra civiltà... Quando la vita è insopportabile la Terra è persa! Riconquistare la Terra dunque non è solo affare dei palestinesi.
(Paolo Dall'Oglio, "Voglio tornare")

Venerdì è giorno di festa per tutti i musulmani, ma oggi è santo anche per i cristiani, che rivisitano le tappe della via crucis. Per me è come una scatola di dolciumi.
Il Krak des Chevaliers ha la consistenza di un biscotto. È una gigantesca fortezza costruita dai Crociati intorno al 1200, situata in un punto strategico. Oltre alle torri, ai corridoi, alle sale, c'è una cappella trasformata in moschea dal sultano Baibar (lì andiamo a lezione di punti cardinali). Al castello dei cavalieri approdano famiglie numerose e comitive di amici vestiti per la festa: scarpe a punta, pantaloni stirati e variegati strati di foulard. Musica ad alto volume dall'interno delle auto.

Deir mar Musa è appiccicoso e zuccherino. Sulla strada per raggiungere il monastero il deserto è polveroso e, a guardarlo bene, ricoperto di cartacce. Il picnic del venerdì ha luogo per terra, accanto alle auto, ai trattori e ai camion, oppure sotto tende di fortuna, con il bricco del tè, del caffè e del mate, il fuoco per arrostire il kebab, porzioni di hummus e melanzane. Poi, 450 gradini per raggiungere l'affascinante sede di questa comunità monastica di rito siriaco-cattolico (pietre e mattoni sono dello stesso colore).
Padre Paolo è nella piccola saletta adornata da meravigliosi affreschi medievali privi di prospettiva, scrostati ma nitidi, accovacciato sul tappeto, tra i cuscini e le bibbie in tutte le lingue. In mezzo al deserto, queste persone continuano a fare esperienza della privazione, del silenzio, del lavoro, della preghiera; ma anche dell'accoglienza e dell'ospitalità, visto che il monastero è affollato di visitatori che come noi si sono arrampicati fin lassù (cristiani, musulmani o altro, non ha importanza), alcuni per rimanerci anche a dormire. Voci arabe e napoletane dai toni concitati rimbalzano tra le pareti dell'orrido. In questo Paese dove tutte le religioni sono la stessa religione e tutti i tempi sono lo stesso tempo, questo è un viaggio nel viaggio (illudersi che qualcuno ne sappia più di noi: compartir. Muoversi a seconda del sole: seguirlo attenderlo assecondarlo).

Maalula si scioglie sulla lingua. Nella Positano della Siria (casette gialle e azzurre abbarbicate alla falesia) si parla ancora l'aramaico: un bambino neorealista sciorina a memoria la sua canzoncina nella lingua di Cristo, in cambio di una moneta e una pacca sulla spalla. In cima in cima c'è l'antichissima chiesa di San Sergio. Poi si percorre uno strettissimo canyon di pietra chiara (che a molti ricorda la gola di Petra) punteggiata di donne vestite di nero, per giungere in discesa fino al convento di Santa Tecla, riservato al culto greco ortodosso. La santa era una discepola di san Paolo che fu perseguitata dai romani perché cristiana: secondo la leggenda si rifugiò su questa montagna, che si spaccò in due tanto da creare questa sacra grotta e poi si richiuse sbarrando la strada ai suoi inseguitori. Oggi Santa Tecla è venerata anche dai musulmani.

UN PUGNO DI MOSCHEE

Ma in quel crepuscolo eri tu sul vertice: / scura, l'ali ingrommate, stronche dai / geli dell'Antilibano; e ancora / il tuo lampo mutava in vischio i neri / diademi degli sterpi, la Colonna / sillabava la Legge per te sola.
(Eugenio Montale, "Sulla colonna più alta")

Un'intera giornata a bere tè e caffè nella città vecchia di Damasco. La notte non potevo dormire e mi chiedevo «Are you happy?», figurandomi l'espressione di Hisham come se fosse veramente interessato a saperlo tutti i giorni. O come se davvero avesse sentito la mia mancanza nell'anfiteatro di Bosra. Una giornata tra i vicoli e i negozi a fumare sigarette e spiluccare frutta secca, parlando di me e di loro, dei soldi e del lavoro, del matrimonio e dell'amore, di un dio qualunque e di dove abita: i bicchierini accanto alla zuccheriera sul vassoio di ottone decorato, e intorno tappeti e sciarpe, gioielli d'argento e pietre colorate, lampadari di perline e ferro battuto bucherellato, vetri colorati e tovaglie. Regali e inviti a cena per l'italiana chiacchierona con cui ridere fino alle lacrime.
Il primo negoziante del suq ha gli occhi scuri e una pancia importante, mi offre il tè alle rose e mi regala un portacenere di ottone e un portapenne di legno e madreperla intarsiato. Il secondo ha gli occhi azzurri che si fanno languidi mentre mi consiglia ingombranti specchi e tavolini da backgammon. 

Nei paraggi del quartiere ebraico un ex professore di francese, con indosso pantaloni lisi e pochi denti, mi conduce all'interno di un meraviglioso hotel nascosto tra i vicoli e mi costringe a fotografare una per una tutte le opere d'arte di uno scultore locale. Poi mi offre una birra nel cortile umido e scrostato di casa sua e mi parla degli scolari di oggi, così condizionati dai mezzi informatici e poco disposti alla concentrazione. E poi due ore seduta accanto ad Ali Baba, con il quale commentiamo con amabile accuratezza le varie tipologie di turisti che passano e non comprano («International crisis, no money!»).
Sulla Via Recta, che taglia a metà tutta la città vecchia, sono tenuta a bere altro tè insieme al libanese Yousef, che ha vissuto molti anni a Losanna e preferisce parlare francese, anche se riesce persino a comunicare in un dignitoso italiano. Mangiamo carne di cammello alla brace e mi accomiato con una darbuka e una sciarpa di seta fuxia, gialla e celeste. Con Houssam, nel suo negozio di tappeti, ci appassioniamo a confrontare le nostre opposte visioni della vita. «Io non vi capisco voi europei» fa lui. «Vi sposate per amore, fingendo di dimenticare che l'amore finisce!» 
Prima di trovarla, vago a lungo alla ricerca della lampada dei miei sogni, da appendere in camera da letto per illuminare le mie mille e una notti, ma le lampade sono arrugginite e impolverate da anni di tè e chiacchiere e contrattazioni e nessuno che pulisce
Al ristorante nel suq il fumo dei narghilè viene deviato dai ventilatori e si mischia alle lucine in serie, mentre un ipnotico derviscio rotante di un biancore accecante si esibisce sul palco. E al suono delle darbuka e degli oud le ragazze improvvisano una danza del ventre, mentre le loro mamme e sorelle le fotografano col cellulare. Di notte la collina che sovrasta Damasco è interamente ricoperta di lumini da presepe che scendono verso valle.

La Moschea degli Omayyadi è la sorella maggiore di quella di Aleppo. Il pavimento in pietra chiara del vasto cortile è caldo e riflette le ragazzine in gita che corrono e le donne vestite di nero (tutti camminano sull'acqua). Nella grande sala della preghiera, che ha la pianta a tre navate risalente alla basilica bizantina su cui è stata costruita, la luce proviene sia dai vetri colorati delle finestre sia dagli enormi lampadari. Per terra, sui tappeti, è un brulicare di gente: grappoli neri di donne di cui si vedono solo gli occhi, uomini con la kefiah che si scattano a vicenda foto col cellulare, fedeli in pantaloni e maglione che sembra che dormano appoggiati alla parete, altri seduti a gambe incrociate con gli occhi chiusi, persone inginocchiate che si piegano battendo la fronte contro il pavimento mentre un tizio con la sciarpetta verde legge a voce alta il Corano, uomini e donne che si affollano intorno alla tomba di Giovanni Battista, venerato nell'Islam come profeta, stringendosi con tutta la forza alle grate dorate che la circondano. E infine c'è la tomba di Hussein, il nipote del Profeta, circondata da sciiti che la puliscono con fazzoletti verdi e neri, la fotografano, piangono e si disperano, e alcuni mettono la testa dentro ad una specie di forno argentato.

Prima della partenza ho ancora poche ore per farmi incantare dai damasceni: gli artigiani che realizzano opere d'arte battendo col martello la filigrana d'oro, i calzolai e i sarti che mi sorridono dai loro micro-laboratori, i pulisci-scarpe che scherzano brandendo la spazzola, i venditori ambulanti di frutta secca che vogliono sempre che ne prenda un po', i panettieri che sollevano la testa incipriata di farina e si mettono in posa, i negozianti sfaccendati seduti all'aperto e tutti quelli che fumano.
E poi, siccome è Pasqua, assisto a una parata in cui un pulcino gigante, condotto per le strade in una macchinina lilla, fuoriesce da un uovo e viene circondato da boy scout e bambine vestite da apine e coccinelle, in un trionfo di bande e bandiere. Per le strade i cittadini di fede cristiana sfoggiano gli abiti della festa, che già la notte precedente avevo osservato assistendo alle celebrazioni religiose, prima che in verità scoppiasse una rissa molto poco cristiana.
«Ho notato che scatti delle bellissime foto» osserva Hisham all'aeroporto. «Vorrei chiederti una cortesia, però. Potresti evitare di rendere pubbliche quelle immagini che ritraggono gli aspetti meno gradevoli del nostro Paese?» In pratica, la Siria è la nostra seconda casa, ma non siamo liberi di fotografarla.

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