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CAPODANNO AD ABOMEY

Dopo la cena, nel suo immenso giardino popolato da statue incantevoli, Monique mi offre un bicchierino di un liquore colmo di erbe dagli effetti curativi. Tornata in camera, mentre le pale del ventilatore girano veloci, tutte le immagini di Abomey che mi vengono in mente mi sembrano troppo sature e fasulle come quelle di un film: mura impastate di sangue umano e teschi che sorreggono un trono di legno, donne guerriere che si affilano i denti e covoni di paglia che ballano, ratti e cani in gabbia e scimmie alla catena, litanie di un guaritore tradizionale e vino di palma bevuto in un solo sorso, ernie ombelicali e bassorilievi a forma di coccodrillo, uomini inseguiti da maschere colorate e lucertoloni nella polvere, percussionisti e venditori che gridano come degli ossessi all'indirizzo di una macchina fotografica.
L'impegnativa giornata è iniziata presso i palazzi reali, fatti edificare e abitati dai 12 re che si sono succeduti alla guida del mitico regno del Dahomey. Questi governanti sanguinari al termine di ogni guerra catturavano caterve di prigionieri e ne vendevano una parte ai portoghesi, ai francesi e agli inglesi in cambio di oro, armi, rum e tabacco, contribuendo in maniera determinante al fenomeno della tratta di merce umana destinata al continente americano. La guida ci parla delle amazzoni, le donne-guerriero al servizio del Re Ghezo, allenate sin da bambine alla pratica della guerra. Se promettevano di portare al loro re due teste del nemico ma al ritorno, malauguratamente, ne portavano una sola, l’altra testa che veniva mozzata era la loro; lo stesso trattamento era riservato al boia se svolgeva il suo compito maldestramente, e a chissà quanti altri sudditi.
Qui purtroppo non si presenta l'opportunità di essere ricevuti da sua altezza reale (e se tanto mi dà tanto, meglio così), ma ci dobbiamo accontentare di osservare gli oggetti rituali appartenuti alla schiera di re defunti, esposti nel museo storico. Nelle sale degli unici due palazzi rimasti integri sono esposti arazzi, costumi, armi, gioielli, altari portatili di metallo, strumenti realizzati usando crani umani, parasole reali che un addetto aveva il ruolo di far roteare senza tregua. Prima di andare via ammiriamo gli ambienti funerari presenti nel cortile, ottenuti mischiando fango, conchiglie e sangue dei prigionieri uccisi, e infine, come se niente fosse, facciamo acquisti nel mercatino artigianale.
Poco dopo, veniamo mollati nel mezzo di niente. Un gruppo di percussionisti ha già dato il via al tambureggiare ossessivo e i bambini hanno già preso posto. Quando li raggiungiamo, in uno spiazzo di terra battuta, compaiono dei grossi covoni di paglia che roteano come dei matti, si alzano e si abbassano, sollevando nuvole di polvere, guidati da uomini dotati di un bastone. Da uno di loro ogni tanto viene lanciato qualche oggetto: un lucertolone vivo, un sacchetto pieno di monete, una bambolina di legno con un vestito rosso da cui sbuca un pene sproporzionato. Ogni tanto il covone si butta a terra mostrando l'interno apparentemente vuoto, per dimostrare che sotto il costume non ci sono uomini, ma sono gli spiriti a muoverli. Grazie allo stato di trance i loro corpi posseduti acquistano dei superpoteri che gli permettono di visualizzare le cattive azioni della gente. Si tratta degli Zangbeto, i guardiani notturni nella tradizione del popolo Fon: essi pattugliano le strade proteggendo la gente e scovando i criminali, che eventualmente poi vengono condotti davanti alla comunità − o direttamente in caserma − per la punizione. Prima di andarcene, ci comunicano che per questa cerimonia in nostro onore sono stati sacrificati un montone e quattro polli, ma non si può mai sapere se quello che viene detto ai turisti è vero oppure serve solo per fare effetto.
La tappa successiva è il mercato dei feticci Gbedagba, dove oltre alle consuete carcasse figurano numerosi animali vivi come gatti, ratti, cani, galline in gabbia e anche una scimmia. Qui siamo protagonisti di un altro caso diplomatico, perché un ennesimo bancarellaro iconoclasta inveisce al nostro indirizzo chiamando in causa tutte le generazioni di spiriti degli antenati e tutte le divinità vudù a lui note, per cui siamo costretti a riporre le macchine fotografiche.
Nell'afa del pomeriggio ci dirigiamo a Detohou per conoscere Monsieur Salanon, di professione guérisseur traditionnel (come è vergato a mano sul cartello fuori dall'ingresso). Il vegliardo ci accoglie in una piccola stanzetta e ci fa accomodare per terra. Gli abbiamo portato una bottiglia di liquore all'ananas, ma ci vuole offrire un suo personale potente vino di palma in piccoli bicchierini che dobbiamo bere tutto d'un fiato, non prima di averne versato qualche goccia per terra come ringraziamento. Mentre l'alcol brucia l'apparato digerente, Salanon solleva il coperchio di una teglia di spezzatino rituale, intinge il dito indice nel sugo e lo inserisce dentro l'ombelico. A quel punto entra in trance cominciando a proferire lamentose litanie accompagnato dalla tipica maraca beninese. Poi ci spostiamo nel suo studio vero e proprio, dove si mette ad armeggiare con conchiglioni, corni, polvere magica e campanelli: su una parete è disegnata una grande vipera, per terra sono accatastati pupazzetti di legno, piume, bottiglie vuote, gusci, barattoli, stracci e una vecchia radio. Mi è sembrato che Salanon non conduca una brutta esistenza: oltre a tracannare un discreto numero di drink, possiede un numero spropositato di mogli, ognuna delle quali, a turno, dedica una intera giornata a servirlo.
Per partecipare alla seconda danza tradizionale, l'Egungun, raggiungiamo un villaggio dalle parti di Bohicon, dove già la popolazione, allertata sin dal mattino, è schierata come di consueto attorno ad uno spiazzo di terra battuta. Ci accolgono dei musicisti itineranti che ci fanno accomodare accanto ad un altro gruppo di percussionisti, alla maman che ci aveva organizzato l'evento e a tutti gli altri. Anche qua uno dei tamburellisti, non so se in stato di ubriachezza molesta o a causa della ben nota mania persecutoria, comincia ad adirarsi e a pretendere che non scattiamo fotografie; dunque si offende ostentatamente e si rifiuta di suonare. Quando riescono a sedarlo e a fargli riprendere posto, appaiono le maschere: le due principali indossano ingombranti vesti sui toni dominanti del rosso, decorate con motivi patchwork, conchiglie, paillette, nappe e amuleti ripieni di medicinali protettivi; gli strati di tessuto svolazzano durante le loro giravolte, creando la cosiddetta brezza benedetta.
Anche il compito degli Egungun, posseduti dagli spiriti degli antenati, è quello di liberare la comunità dai mascalzoni, indirizzando i vivi sulla retta via; per questo si divertono ad inseguire gli spettatori, che scappano velocemente per non farsi toccare: in questa sorta di acchiapparello africano infatti essere sfiorati dall'Egun significa cadere immediatamente in catalessi.
Col passare del tempo la danza diventa sempre più vorticosa, i tamburi più ossessivi, le richieste di banconote più insistenti, le nostre trachee più intasate di terra, le bottiglie di superalcolici che girano tra gli spalti più vuote. Un paio di inseguiti, malauguratamente toccati dall'Egun, sono crollati a terra e poi vengono portati via a braccia. Prima che accada qualche evento imprevedibile, ci dirigiamo rapidamente verso l'autobus, inseguiti a nostra volta da gente che pretende un cadeau.
Dimenticati gli antichi fasti sanguinari del Dahomey e le tetre pratiche dei féticheurs, il giorno dopo Abomey mi mostra la sua faccia più variopinta e festosa. Sulle insegne fatte a mano c'è scritto “Palais de beauté”, “Style coiffure”, “The Best Coiffure & Trèsse” accanto al disegno di teste acconciate, treccine e rasoi elettrici; tazze e chicchi di caffè illustrano l'offerta merceologica delle cafetariat; macchine fotografiche e videocamere attirano l'attenzione sugli studio photo e sui servizi di “photo identité en 2 mn”, donne che rimestano in pentoloni avvisano che c'è un maquis (piccolo ristorante), pesci e pezzi di pollo allertano in merito alla presenza di un negozio di Poissonnerie et divers. A volte sull'insegna appare la faccia del negoziante, come nel caso di Zola − che tra l'altro è contemporaneamente venditore di congas e parrucchiere (nel suo listino propone il taglio “Karl-Lewis” a 400 CFA). Molti esercizi commerciali per il naming attingono al vocabolario introdotto dai missionari, come testimoniano il maquis “La gloire de dieu”, i minimarket “La grace divine” e “Dieu est grand”, il parrucchiere “Jesus is winner”.
C'è molta confusione nelle strade e nei mercati, è l'ultimo dell'anno e bisogna solennizzarlo: nelle botteghe sulla strada le bottiglie di rum, gin o whisky schierate in ordinate file vanno a ruba (a volte le stesse bottiglie sono colme di arachidi o anacardi tostati); i sarti stanno ultimando gli ultimi completini fantasia seduti davanti alle loro macchine per cucire a pedale o preparano il ferro da stiro, riempiendolo con pezzi di carbone incandescente, per l'ultimo tocco; decine di capigliature vengono organizzate in minuscole treccine; nel mercato i pesci stanno ad arrostire sulle griglie, le foglie vengono riempite di polentine di mais, farine bianche e rosse sgorgano da piccoli mulini. Al Cyrano club (sottotitolo: dieu dispose) si festeggia invece giocando a dama beninese e alla playstation, o semplicemente guardando la TV.
La più importante di tutte le mascherate propiziatrici tipiche del luogo si chiama Gelede ed è stata inserita dall'UNESCO nel patrimonio immateriale dell'umanità. Le espressive maschere scolpite nel legno vengono indossate come copricapo, ossia in cima alla testa del danzatore, la quale è coperta da un pareo. In genere la maschera rappresenta una testa umana oppure di animale, a volte sormontata da sculture diverse: ad esempio un uccello, un militare, un omino nudo con un pene enorme, un bambino con una bacinella in testa che va a prendere l'acqua dal pozzo (l'acqua esce veramente). Nello spiazzo di terra battuta dunque, tra le percussioni d'ordinanza e alcuni uomini armati di scacciamosche, si alternano i diversi personaggi in una recita apparentemente solo comica e divertente, ma che come al solito ha anche un fine educativo (in sintesi, secondo gli Yoruba, il mondo è fragile e per vivere in armonia bisogna praticare cautela, diplomazia e rispetto).
Alla base di questa pantomima, che celebra il potere delle “madri” nella società, ci sono le storie della mitologia Yoruba (che, mischiandosi con il cattolicesimo, ha dato origine ai famosi culti sincretici afroamericani). La leggenda alla base della danza narra che Yemoja, la madre di tutti gli orisha e di tutte le cose viventi, non poteva avere figli, così consultò un oracolo che le consigliò di fare sacrifici e ballare con immagini di legno sulla testa e cavigliere metalliche ai piedi. Il rituale funzionò ed ebbe due figli (un maschio e una femmina), i quali incontrarono le sue stesse difficoltà e le risolsero con lo stesso balletto − e infatti una delle maschere più carine raffigurava una donna incinta, che sfoggiava un enorme pancione di legno.
Un uomo vestito di giallo passa tutto il tempo a raccogliere i crini dello scacciamosche e i minuscoli fili di paglia che cadono per terra, essi infatti sono dei portafortuna: vengono conservati e poi consegnati agli studenti al momento degli esami.
A bordo dell'autobus la guida e Rafiu stanno parlando di politica. Quando viene nominato Hollande, il tono diventa aggressivo e si mettono quasi a urlare che lo avrebbero voluto morto: «Pilota le cariche politiche del Benin per biechi motivi di interesse economico, la corruption est une véritable catastrophe». Nemmeno Sarkozy riscuote il loro favore: «Quando venne in visita ufficiale, ebbe il coraggio di dire che da noi non c'è sviluppo perché la gente è ancora troppo attaccata alle tradizioni»; di fronte alle vibranti proteste, lui interruppe la visita e non si fece mai più vedere. «Ma il suo primo impardonnable errore è stato quello di uccidere Gaddafì, l'ago della bilancia negli equilibri tra Europa e Africa e grande benefattore per il Benin: sai, ha fatto costruire moschee, scuole e anche l'università... Lui sì che stava lavorando per la vera libération de l'Afrique
L'hotel di Abomey è sprovvisto di wifi e sembra di essere tornati ai vecchi tempi, quando un viaggio significava davvero staccare in ogni senso con la vita normale. Dopo essermi scrostata di dosso gli strati di terra rossa con l'acqua della cisterna, nell'attesa di raggiungere il ristorante di Jean-Luc (un francese che abbiamo conosciuto in città) per il réveillon du nouvel an, mi spaparanzo su una bella sedia di legno intarsiato a godermi la sensazione di benessere e di sospensione temporale. Sono in Africa, ci sono più di trenta gradi e fra poche ore finirà il 2015. L'anno è iniziato nel continente americano (precisamente a San Cristobal de las Casas), mi ha visto scorrazzare in varie località dell'Asia e dell'Europa e terminerà qui, nel Golfo di Guinea, dove la sabbia e l’argilla del Sahel incontrano l’Oceano.

Racconto di viaggio completo "PICCOLI ANTROPOLOGI CRESCONO. Viaggio on the road in Togo e Benin" 

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