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Il grande mare di sabbia

All'ingresso del Parco nazionale dell'Acacus, un altopiano trasformato in opera d'arte dalla natura, ci accolgono formazioni rocciose a forma di vecchine, funghi, tartarughe, santi, conchiglie, uomini col cappello, fidanzatini che si baciano, pile di frittelle, pupazzi di neve.
Torri, monoliti, pinnacoli, grotte, archi — ossidati e scolpiti dal tempo — sembrano resti di statue greche senza braccia, piramidi precolombiane corrose, templi indiani coi bassorilievi sciupati, sfingi egizie levigate dalla sabbia, misteriosi obelischi con le iscrizioni ormai illeggibili.
È qui, in questo territorio lunare e misterioso, dai cui spiragli di rado si intravedono delle enormi dune rosa pesca, che scorrazzeremo per i primi due giorni.
Il primo campo lo montiamo nei pressi dello uadi Auis. È la prova del nove: ognuno deve verificare se la propria attrezzatura è adatta, se il cognato per errore gli ha prestato i picchetti da terra e non da sabbia, se i sacchi a pelo sono abbastanza caldi, i pigiami sufficientemente termici, i teli di plastica del numero adatto per non intridere i bagagli di sabbia e benzina, le stoviglie della tipologia utile a consumare risotti Knorr, tortellini, tè e caffè bollenti, cous cous e spaghetti al tonno, i materassini comodi e isolanti e così via.
Da quel momento, le stesse operazioni verranno effettuate in maniera sempre più agile e spedita. Le tende vengono disposte in fila sotto il profilo di un'alta duna, oppure in cerchio, protette dalle rocce scure. Grandiosi tramonti segnano l'arrivo della notte: dipinti con tutte le sfumature del giallo, oppure abbaglianti di rosa e di viola; limpidi e puri oppure striati dalla nuvolaglia. Disegnano porzioni geometriche di luce e ombra, soffondono ed appicciano. La mattina sono albe da primo giorno sulla Terra quelle che ci danno il buongiorno, poi sfumano gradualmente durante la colazione, e infine vengono sostituite dalla luce piena quando ormai le tende sono smontate e siamo pronti per salire in macchina.
Ogni pomeriggio montiamo il campo in un posto diverso. Le soffici dune di Wan Kasa assomigliano a dei crème caramel: la loro forma, impercettibilmente e senza tregua, si modifica grazie al vento che soffia, cancella i passi umani e i segni degli pneumatici, affila gli spigoli. Nell'Erg Murzuq un'immensa luna bianca ci attende seduta in groppa alle dune, ma per quanto scaliamo non riusciamo a toccarla. Quando ci arrampichiamo sulle dune una specie di vertigine ci prende di fronte al vuoto, ai granelli mobili, al giallo, alle ombre. A volte ci dobbiamo sedere per non cadere.
Allontanandoci dall'erg Murzuq, il paesaggio cambia: una stupefacente distesa verde appare in lontananza. Le luci della fattoria di Berjuj, dove si coltivano cereali in maniera intensiva, irrigati da enormi pompe a forma di idrovolanti, stimolano riflessioni frutto di opposte vedute.
Esplorando in jeep il parco, nuovi prodigi si susseguono. La sabbia come una colata di oro liquido glassa il terreno, a volte lasciando spuntare qua e là strati basaltici color cioccolato. C'è una roccia che è stata erosa fino a creare la trionfale incurvatura di Fozzigiaren; un'altra che ha assunto l'aspetto dello snello colonnato di arenaria di Tin Ghalega, arrotondato e deformato dal tempo.
Poi, attraversando la piana del Reg Taita e il passo di Abahoa, si entra nei territori piatti e spazzati dal vento del Messak Settafet, un vasto altopiano ricoperto da detriti resi lucidi e scuri dalla sabbia e dal caldo. Nelle soste giochiamo a bocce con le colaquinte, una specie di cocomeri delle dimensioni di una palla da tennis, color giallo chiaro striato di verde.
Uno dei motivi per visitare il Tadrart Acacus, oltre agli incredibili scenari naturali, è la presenza di una quantità enorme di testimonianze artistiche rupestri, ossia graffiti e pitture risalenti al periodo in cui il Sahara era un'immensa savana, percorsa da enormi fiumi e popolata da giraffe, rinoceronti, elefanti, gazzelle.
Gli studiosi ipotizzano che la popolazione che abitava in questi territori abbia addirittura influenzato culturalmente la grande civiltà egizia. La prima spedizione nell'Acacus fu compiuta solo negli anni '50 dall'italiano Fabrizio Mori, che scoprì i tesori delle pitture rupestri e dei graffiti nascosti negli uadi dell'Acacus, i letti dei fiumi risalenti alla preistoria che hanno scavato giganteschi canyon e scolpito le rocce di arenaria. Lì, negli anfratti ricavati sotto le pareti, trovavano rifugio i nostri antenati che forse più di 10mila anni fa cominciarono a incidere o dipingere immagini a loro familiari come scene di caccia, animali selvaggi e domestici, figure umane impegnate in gesti quotidiani, ruote ed altri utensili.
Negli Uadi Tanshalt e Anshal ci aspettano pitture di umani dalle mani grandi con le dita visibili, cavalli e cammelli rossi e bianchi. Proseguendo, incontriamo due siti che sono stati transennati da poco, novità che stupisce anche gli autisti. D'altra parte mi chiedevo come fosse possibile che praticamente tutte le pitture dell'Acacus siano prive di protezione. Il primo sito è Wan Amil, dove si trovano i dipinti più interessanti, che raffigurano scene di vita quotidiana, di battaglia e di caccia e che, essendo in sequenza tra loro, dimostrano per la prima volta la precisa intenzione da parte dei nostri antenati di testimoniare qualcosa per i posteri. Il secondo è Wan Amalun, famoso perché il professor Mori qui ha ritrovato un bambino mummificato.
Raggiunto il Messak, percorriamo lo Uadi Markendush dove saltelliamo come caprette tra le rocce che un tempo costituivano il letto del fiume, per giungere a quello che sta per diventare un sito archeologico con tanto di biglietti d'ingresso. Per il momento l'addetto allo sbigliettamento non si vede e le recinzioni sono nuove di zecca, così entriamo gratis. Dopo esserci liberati dai finti tuareg nigerini che ci vorrebbero vendere ciondoli, bracciali in finto argento e altra paccottiglia di pelle colorata, andiamo ad ammirare i famosissimi "gatti mammoni" (battezzati così dall'archeologo Leo Frobenius) incisi in una roccia piatta. Qui nel Messak sono stati ritrovati solo graffiti, forse a causa della particolare conformazione delle rocce, che non offrivano grotte naturali. Lo uadi Matkendush in particolare contiene la maggior parte delle stazioni rupestri: oltre ai gatti mammoni, si possono ammirare ad esempio giraffe e coccodrilli.

Racconto di viaggio completo "ERASE YOUR EGO. Il deserto dell'Acacus"

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