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Phnom Penh e i Khmer rossi

Avevo prenotato una singola in una guesthouse semplice e accogliente nel centro di Phnom Penh, dove mi sono rifocillata e ho intrecciato i primi contatti sociali al bancone del bar, di fronte alla piccola piscina. Poi, nonostante la stanchezza e anche un inizio di raffreddore, siccome non sono una che va all'altro capo del mondo e passa la giornata a dormire, mi sono attivata per visitare il Museo del genocidio di Tuol Sleng, un edificio scolastico che fu utilizzato come "centro di rieducazione" dai Khmer rossi. Comincia così il film dell’orrore che mi ha accompagnato per tutto il viaggio e che narra le raccapriccianti vicende di questi paranoici comunisti cambogiani che in meno di quattro anni massacrarono circa un quarto (qualcuno dice un terzo) della popolazione cambogiana.
Quando nel 1954 l’Indocina era diventata indipendente dalla Francia, al vertice dello Stato cambogiano c’era il fascinoso Norodom Sihanouk, un sovrano dispotico ma abile nel tenere il Paese fuori dalla guerra del Vietnam. Nel '69 la Casa Bianca fece bombardare i cosiddetti «santuari», luoghi cambogiani da cui partivano i vietcong per compiere incursioni nel Vietnam del Sud; l’anno dopo ci fu un colpo di stato di destra, guidato dal Ministro della Difesa Lon Nol, che andò al potere con l’appoggio dagli Stati Uniti. Sihanouk invece si rifugiò a Pechino e decise di allearsi con i cambogiani filovietnamiti e con i suoi ex-nemici: i Khmer rossi. I bombardamenti e la guerra civile tra le opposte fazioni proseguirono finché nell’aprile 1975, subito dopo che l'ambasciata americana ebbe fatto evacuare i suoi dipendenti, i Khmer rossi entrarono a Phnom Penh, accolti con inevitabile entusiasmo dalla popolazione, che non ne poteva più né delle bombe americane né del governo del palindromo Lon Nol che aveva fatto crescere terribilmente l'inflazione, la corruzione e la miseria. L'euforia si trasformò ben presto in sconforto perché gli abitanti furono obbligati a lasciare immediatamente la città e furono deportati nelle campagne, al fine di realizzare il folle proposito di trasformare il Paese in una repubblica socialista agraria, dove il denaro non aveva più valore, le scuole non avevano più senso, i legami famigliari venivano brutalmente recisi e le persone erano considerate niente più che bestie da soma.
In meno di due anni il regime impose una collettivizzazione integrale ed eliminò totalmente le distinzioni sociali, annientando i ceti più agiati e colti (il solo fatto di portare gli occhiali poteva portare automaticamente alla morte). Le tecniche agricole erano a dir poco antiquate e le opere di irrigazione realizzate mediocri per cui il riso venne ben presto a mancare, la gente moriva di fame e si ammalava di colera, di malaria, di dissenteria, mentre le medicine erano vietate.
In questo carcere, conosciuto come centro di detenzione S-21, furono imprigionate e torturate famiglie intere, accusate di avere tramato contro il regime, anche se la maggior parte di loro non conosceva o comprendeva le ragioni che motivavano l’accusa. I prigionieri erano sottoposti a violentissimi interrogatori e torture irripetibili affinché confessassero al partito (il temibile Angkar) i loro crimini inesistenti. Gli stessi torturatori che lavoravano qui furono a loro volta eliminati da altri aguzzini che presero il loro posto quando cominciarono a intensificarsi le purghe tra i quadri del partito.
Le condizioni degli internati erano spaventose: ricevevano razioni alimentari da fame e nessuna cura medica, le celle erano stipate fino all’inverosimile e i prigionieri erano perennemente incatenati, non c'erano gabinetti né alcuna possibilità di lavarsi. Da qui in particolare era praticamente impossibile uscire vivi, infatti alla fine si sono contate circa 18 mila vittime (più di mille dei quali bambini), mentre i sopravvissuti furono solo dodici, oggi ritratti in grandi pannelli nel cortile del museo.
Il complesso di edifici fu scoperto nel gennaio 1979 durante l’invasione vietnamita e fu convertito già nel 1980 in un museo per testimoniare i crimini del regime appena destituito, infatti la struttura era stata mantenuta come fu lasciata dai Khmer rossi in fuga, con le aule trasformate alla bell'e meglio in celle. Lavate via le tracce di sangue e coperti alcuni graffiti sui muri, le sale del museo oggi contengono migliaia di foto scattate dai carnefici alle loro vittime. Le donne hanno tutte lo stesso taglio di capelli, infatti sia gli uomini sia le donne dovevano portarli corti, e inoltre tutta la popolazione era obbligata a vestirsi di nero. Gli immigrati dalle città (il cosiddetto "popolo nuovo") dovevano tingere con coloranti naturali i propri vestiti, che però con il sudore tornavano ai loro colori originali, mentre alla popolazione rurale vennero consegnati dei completini neri per davvero. Una parte del museo è dedicata appunto ai vestiti ritrovati nel campo, che testimoniano in maniera concreta i crimini che hanno avuto luogo qui; tra gli altri oggetti esposti figurano brande arrugginite, sbarre di ferro e strumenti di tortura, foto e dipinti degli ex-internati e infine l'immancabile, macabro cumulo di teschi.
Il più noto dei famigerati "killing fields" del Partito Comunista della "Kampuchea democratica" si chiama Choeung Ek Genocidal Center e si trova nella periferia sud di Phnom Penh: per andarci assoldo per dodici dollari un guidatore di remork, il quale resta ad aspettarmi e mi riporta indietro. In questo ex-frutteto venivano spediti a bordo di un camion i prigionieri della già citata prigione di Tuol Sleng e di altri "centri di rieducazione": una volta giunti sul posto venivano costretti a scavare da soli la propria fossa e poi venivano uccisi da guardie dei Khmer rossi che in molti casi non avevano più di tredici anni. Qui sono state scoperte decine di fosse comuni contenenti migliaia di corpi, ma altre attendono di essere portate alla luce (si presume che in totale ce ne possano essere fino a 10.000). Molte di esse sono visibili e infatti non è raro imbattersi nelle ossa, nei denti o nei brandelli di vestiti delle vittime sparsi sulla superficie, soprattutto dopo forti piogge. Uno stupa commemorativo con le pareti in plexiglass è occupato da alcune migliaia di teschi umani, prova inconfutabile del modo in cui venivano effettuate le esecuzioni: per risparmiare munizioni, si utilizzavano infatti armi improvvisate come martelli, machete, coltelli, asce, mazze di legno, attrezzi agricoli. In alcuni casi, i bambini e i neonati venivano soppressi sbattendoli violentemente contro gli alberi o infilzandoli con le baionette davanti alle loro madri. Gli altoparlanti diffondevano musica rivoluzionaria a tutto volume per coprire le grida di agonia.
La scioccante esperienza "museale" è organizzata molto bene e mi ha molto colpito il fatto che ci siano addirittura le audioguide in italiano, che già in Europa sono molto rare, figuriamoci qui. Tra l’altro la traduzione e la pronuncia sono perfette e anche i contenuti sono interessanti e per niente retorici: si possono ascoltare i racconti delle vittime e viene proposta anche della musica, invitando il visitatore a sedersi in un posto ameno e a riflettere su quanto è accaduto. Il fatto è che noi visitiamo musei, memoriali, leggiamo libri e vediamo film su tutte le tragedie della storia, ci commuoviamo, ci chiediamo come è stato possibile, a volte siamo morbosamente attratti dagli strumenti di tortura, celle, ceppi, teschi e tutte le carneficine e i massacri (che siano definiti genocidi oppure no) succedono di nuovo e di nuovo e tutti siamo impotenti di fronte alla violenza che certi popoli subiscono anche in questo momento in cui sto scrivendo.
All'uscita c’è un signore con un banchetto che vende libri. “Good mo'ning madàm, I su'vived killing fields.” Io ho appena sentito per quasi due ore la storia dei modi orribili in cui i Khmer rouge hanno ucciso, torturato, umiliato, distrutto un popolo e mi trovo davanti un signore che mi dice che è stato una vittima di tutto ciò... Resto senza parole come a Sarajevo quando incontrai un sopravvissuto ai campi di prigionia serbi. Lui è il famoso Sum Rithy e il libro che compro per dieci dollari si intitola "Surviving the Genocide in the Land of Angkor".

Racconto di viaggio completo "IN VIAGGIO A RIMORCHIO. Cambogia in solitaria"

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