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IO MI RICORDO

Québec, un po' di Canada

Montréal - Baie-Saint-Paul - Tadoussac - Québec City - Immagini - Piccolo Me

Metti che nascevo in Québec

I tuoi antenati sono stati stupidi. Dovevano vendere il Québec e tenersi la Louisiana.
(Mordecai Richler, "La versione di Barney")

Ci vuole fortuna nella vita, per esempio io sono molto riconoscente di essere nata in Italia. Metti che nascevo in Québec: sarei stata convinta che il formaggio "mozzarellissima" abbia davvero qualcosa in comune con la mozzarella, avrei chiamato il salame pepperoni, e poi, quanto avrei dovuto spendere ogni volta per venire in Italia?
Se fossi nata in Canada, anch'io di certo sarei stata una cliente fissa di questa compagnia low cost che effettua voli diretti che collegano alcune città europee con le principali città canadesi. Questa compagnia è molto nota ai canadesi oriundi europei, ma viene opzionata anche da quei bon vivant non oriundi che decidono di trascorrere le proprie vacanze in Europa e perfino da quel minuscolo manipolo di europei ai quali è balenata la stravagante idea di andare a visitare il Canada. Io avevo già preso alcuni voli intercontinentali disastrosi, però Air Transat è peggio perfino di Argentina Aerolineas, e ho detto tutto.
Per ottenere un posto finestrino devi essere in possesso di conoscenze evidentemente riservate solo agli habitué, visto che essi erano già tutti occupati sin da quando ho fatto il check-in online. I sedili sono minuscoli e per attraversare i corridoi, se sei appena cicciottello, devi metterti di profilo. Inoltre ti consiglio di non avventurarti per nessuna ragione al mondo nei paraggi della prima classe, perché se osi varcare il confine il personale è addestrato a insultarti e persino a metterti le mani addosso; se gli rispondi a tono ti danno un cartellino giallo di ammonizione e un modulo da compilare, che se non ho capito male ti impedirà di compiere altri viaggi sullo stesso velivolo per un certo periodo.
Se hai la fortuna di prendere un volo con lo schermo individuale ma non hai gli auricolari personali, li puoi acquistare al prezzo di otto dollari canadesi; l'unica forma di pagamento consentita è la carta di credito e solo se gli fai una sfuriata con i fiocchi (rischiando il cartellino giallo), lo steward o la hostess potrebbe regalarteli sottobanco facendoti segno di non dirlo a nessuno (ma comunque per fortuna nella maggior parte dei casi lo schermo individuale non c'è). Stessa storia vale per la coperta e il cuscino (nove dollari). I pasti sono accompagnati da un bicchiere di vino minuscolo, ma che viene pubblicizzato negli altoparlanti sin da quando ti siedi come se fosse uno dei motivi per cui vale la pena di prendere il loro volo.

In aereo ho visto uno di quei programmi nei quali il conduttore gira il mondo ad assaggiare i piatti tipici di tutte le latitudini. Per tutta la puntata Anthony Bourdain (questo è il nome del gourmand in questione) non faceva altro che incontrare cuochi o semplici golosi in compagnia dei quali varcava le porte di ristoranti e bar di Montréal. Quindi, ripeteva con insopportabile frequenza la parola “delicious” indirizzando gli occhi al cielo, mentre si sbafava enormi porzioni di halibut in crosta, patè di fegati di oca e pinne di foca, filetti di castoro alti quattro dita e affogati in burrose bechamelle. Secondo il nostro, la scena culinaria di Montréal è davvero unica al mondo.
Purtroppo, molto rapidamente ho realizzato che la cucina tipica del Québec ha davvero poco a che fare con le delikatessen propinate dall'elegante cuoco e scrittore. Già in uno dei primi inviti a cena ho fatto la mia conoscenza con il piatto nazionale quebecchese: la poutine. Dietro l'intrigante nome esotico, si cela una dozzinale porzione di patate fritte mescolate a tocchi di formaggio, il tutto ricoperto di salsa alla carne. La poutine è il classico piatto venduto nelle casse-croûte, i chioschi collocati al bordo della strada, ma pare sia presente anche nei menu di alcuni ristoranti e del McDonald's, abilmente americanizzata dal nome "McPoutine". Il resto della gastronomia popolare spazia dalla carne affumicata con cui riempiono enormi sandwich (rinomata quella di "Chez Schwartz's" a Montréal), ai vari tipi di paté, al salmone affumicato.
Viste queste premesse, e considerato che per poterti permettere una cena del calibro di quelle pubblicizzate da Bourdain devi come minimo venderti un rene, l'unica salvezza del viaggiatore squattrinato è rappresentata dalla pervasiva multiculturalità di Montréal. La quasi totalità dei miei pasti in città infatti è stata preparata dalle operose mani degli immigrati: sashimi giapponesi e dumpling cinesi, pho vietnamiti e kebab libanesi, biryani e kofta indiani. E anche quando ho mangiato a casa di qualcuno, sono stata una lieta commensale al desco dell'arcinoto cosmopolitismo canadese: tranne quando mi è stata servita un'insalata di fiori (colti nel giardino di una fantomatica vecchia zia di campagna e conditi con aceto balsamico), mi è stato sempre proposto un florilegio di tutte le più note cucine internazionali: dalla paella alla pizza, dalla pasta ai noodles, dall'english breakfast al cous-cous.

Fuori da Montréal purtroppo le offerte etniche calano sensibilmente e dunque la situazione diventa incresciosa: la mia fissazione per viaggiare low cost mi ha costretta a varcare con troppa frequenza le porte di untuosi pub dove ho dovuto cibarmi di hamburger, patatine e persino laidi nachos con formaggio e cipolla.
Che poi anche questi cibi non erano proprio regalati. In Québec infatti vige un sistema piuttosto subdolo di tassazione indiretta: se al ristorante noti un poulet B-B-Q all'abbordabile prezzo di 10 dollari, devi prima di tutto calcolare mentalmente una tassa del 15% circa. Poi, quando il tuo pollo costa ormai 11 dollari e mezzo, devi calcolarci sopra la mancia − che è obbligatoria (se non gliela dai sono capaci di sputtanarti davanti a tutti). Anche nei negozi tutti i prezzi esposti sono tasse escluse (ma almeno non c'è la mancia), mentre se fai ordinazioni al bancone di un bar, le tasse sono già incluse ma non si capisce per quale misteriosa ragione la mancia la devi lasciare lo stesso (un dollaro circa, indipendentemente da cosa ordini).
Il beneficio tangibile di tutto questo orribile pasticcio l'ho riscontrato soltanto all'aeroporto, dove i prodotti sono tax free e dunque costano meno che in tutto il Paese: ho potuto così allegramente spendere i miei 20 dollari residui in cuscini tempestati di renne e orridi biscotti allo sciroppo d'acero.
Lo sirop d'érable (come lo chiamano qua) effettivamente è l'unico prodotto alimentare quebecchese conosciuto in tutto il mondo: nonostante il suo sapore stucchevole, lo utilizzano per glasse e farciture, gelati, toffee e lecca-lecca e per rafforzare il già impegnativo contenuto calorico di ciambelle, pancake e beavertail (letteralmente “coda di castoro”, frittelle dalla forma allungata). A parte questo, avrei dovuto saperlo, la cucina canadese non è molto rinomata, e insomma sono stata proprio un'ingenua a farmi fregare da quel furbacchione di Anthony Bourdain.

LA CELEBRE JOIE DE VIVRE DI MONTRÉAL

Sept heures et demie du matin métro de Montréal / c'est plein d'immigrants / ça se lève de bonne heure / ce monde-là
le vieux coeur de la ville / battrait-il donc encore / grâce à eux
ce vieux coeur usé de la ville / avec ses spasmes / ses embolies / ses souffles au coeur / et tous ses défauts
et toutes les raisons du monde qu'il aurait / de s'arrêter / de renoncer.
(Gérald Godin, "Tango de Montréal")

Montréal, il centro più popoloso della belle Province, sorge su un arcipelago intrappolato nel fiume San Lorenzo. In questa nostra indagine alla ricerca della sua peculiare gioia di vivere, partiremo dal nucleo originario della città, Vieux-Montréal, che si trova a pochi passi dal vecchio porto fluviale. Qui tutto è turisticamente grazioso, i ristoranti turisticamente cari (e spesso pessimi), le gallerie d'arte turisticamente traboccanti di scorci incorniciati di taiga innevata e orizzonti del San Lorenzo color celeste chiaro; i negozi di souvenir turisticamente forniti di oggetti (magnetici e non) a forma di renna o castoro, inguardabili bottiglie di sciroppo d'acero e gingilli realizzati in piume e pelle (misero omaggio alle "First Nations"). Nei paraggi si eleva la Basilica di Notre-Dame, una stupenda chiesa cattolica ottocentesca dal soffitto blu decorato con stelle dorate, piena zeppa di candele colorate e famosa per aver ospitato il matrimonio di Celine Dion.

Di fronte al centro storico, spuntano l'Île Sainte-Hélène e l'Île Notre-Dame, raggiungibili con mezzi propri attraverso il grandioso ponte Jacques Cartier, oppure con la metro, il bus, il ferry. Su di esse si sviluppa il Parc Jean Drapeau, frequentato tra le altre cose per il parco divertimenti, la biosphère, il circuito "Gilles Villeneuve" di Formula 1, il casino (tutti avanzi della mitica Esposizione universale del 1967). Il parco divertimenti "La ronde" ogni mercoledì e sabato d'estate si riempie all'inverosimile a causa dello spettacolo pirotecnico: oltre che per i prestigiosi fuochi d'artificio a ritmo − ad esempio − dei Pink Floyd, i montrealesi vi accorrono per ingozzarsi di schifezze e per spassarsela sulle giostre. È qui, presso le aree fumatori del parco, che ho notato accalcarsi la maggior parte degli appassionati di junk food (a causa dell'assurdo prezzo delle sigarette è piuttosto raro che un quebecchese possa permettersi contemporaneamente di fumare e di mangiare qualcosa di salutare), mentre sulle montagne russe chiamate "Le Monstre", realizzate interamente in legno come quelle dei cartoni animati, ho vissuto alcuni degli attimi più tremendi della mia vita, in seguito ai quali ho provato il brivido di varcare la porta dell'infermeria del parco.

Le principali arterie cittadine, Rue Saint-Denis, Boulevard St-Laurent e Rue Saint-Urbain, conducono dritte dritte al Plateau Mont Royal, base bohémienne degli artisti locali e punto di aggregazione dei giovani trendy. Tutti questi nomi di santi appaiono molto anacronistici oggi, considerando che la città è sempre più atea e anticlericale e che molte chiese sono abbandonate o convertite addirittura in condomini. A sud-ovest del centro si incontrano la frequentatissima Rue Ste-Catherine (un'altra santa, in questo caso devota al dio dello shopping, del cibo e del divertimento) e l'elegante Rue Sherbrooke, dove hanno sede l'antica e prestigiosa Università McGill e il Musée Des Beaux-arts: la visita del padiglione dell'arte canadese e di quello dell'arte dei nativi risulterà molto utile per visualizzare in anteprima cosa ci aspetta del paesaggio del Québec (in sintesi: neve, pioggia, il fiume, laghi, case dai tetti molto spioventi e scarsa gioia di vivere invero).
Il folto mazzo di grattacieli presente qui nel downtown si può ammirare dall'alto (poco più di duecento metri) del Parc du Mont Royal, il polmone verde della città. Soprattutto di sera, il panorama dello skyline illuminato presenta il suo consueto fascino.

Allontanandosi dal centro le strade diventano prettamente nordamericane: muri di mattoni rossicci alti due piani, porte gemelle sormontate dal proprio elegante numero civico, scale esterne in ferro. Ben presto ho scoperto con orrore che le scale non sono d'emergenza, ma servono veramente per raggiungere gli appartamenti al primo piano: questo è davvero troppo per i montrealesi che d'inverno devono usarle (alcuni con la bicicletta in spalla) nonostante siano ricoperte da un imponente strato di neve. Forse anche per questo motivo oggi a Montréal impazza la moda del condo: abitare in condominio è il nuovo status symbol dei “Pepsi" (così vengono soprannominati gli abitanti di Montréal) e il nuovo business dei costruttori.
Come si è visto, Montréal è una delle città più multietniche del Nord-America. Circa un terzo della popolazione non discende dai primi abitanti del Canada, di nazionalità francese, e infatti oggi ci sono angoli o interi quartieri dedicati ad ognuno dei popoli immigrati. Per esempio Chinatown, delimitata da porte a pagoda rosse e gialle, brulica di gente che confeziona ravioli ripieni e negozi che espongono risi alla cantonese e polli alle mandorle di plastica. Nei bar cubani si balla la salsa a tutte le ore. Nel quartiere ebraico gli uomini hanno la kippah e i boccoli ai lati del viso e le donne sospingono i passeggini indossando il foulard. A Little Italy i bar hanno i banconi di zinco e trasmettono le partite di calcio mentre al Marché Jean Talon alcuni vendono frutta e verdura in calabrese arcaico. I ristoranti thailandesi, vietnamiti, giapponesi, cinesi, indiani pregano in doppia lingua di portare il proprio vino.
Un modo per fare il giro del mondo senza muoversi da Montréal consiste nel visitare il suo Jardin Botanique. In un'area di circa 75 ettari sono ospitate dieci serre d'esposizione e una trentina di giardini all’aperto; a parte i fiori tropicali, le rose, i lillà, le piante acquatiche e quelle tossiche, vanno segnalati il giardino cinese (copia di un tipico giardino della dinastia Ming, pagode e laghetto compresi), il padiglione giapponese (che ospita un giardino zen e una collezione di bonsai) e l'ambiente alpino (con tanto di cascate e conifere). Dopo 8 ore nel giardino botanico di Montréal, si fa molta fatica a ricordarsi in che Paese ci si trovi.

Nel mese di luglio è molto piacevole girare per la città in bici, grazie al comodissimo servizio di bike sharing alimentato ad energia solare, che permette di prendere e lasciare la bicicletta praticamente ad ogni angolo di strada. Mentre pedalavo sulla mia bixi, davanti ai miei occhi scorrevano le diverse facce dell'esemplare joie de vivre montrealese: murales e graffiti, vasi di fiori alti quanto un uomo e centri estetici dalle insegne piene di giochi di parole imbarazzanti, lavori in corso (coni di plastica arancione in ordinate file) e bandiere del Québec (una croce bianca che divide il rettangolo in quattro ulteriori rettangoli blu con giglio bianco al centro). Ma non dimentichiamoci che l'estate dura giusto una manciata di settimane e poi riprendono i rigori delle correnti artiche.
Sotto terra tutto resta identico per 12 mesi l'anno. La metropolitana è gialla, arancione e antiquata, e non ha nulla che giustifichi l'esorbitante prezzo del biglietto. Oltre alla metro, esiste una vera e propria città sotterranea: oltre 30 chilometri quadrati di negozi, cinema, alberghi, ristoranti collegati tra loro. Purtroppo, nonostante io abbia trascorso diversi giorni a Montréal, non solo non mi sono minimamente accorta della sua esistenza, ma nessuno me ne ha mai fatto cenno (questo a ulteriore conferma della proverbiale discrezione degli abitanti del Québec).

LA ZOPPICANTE IDENTITÀ QUEBECCHESE

Quasi tutto quello che sapevo a proposito del Canada lo avevo appreso dagli statunitensi, e in particolare da South Park. Non che mi aspettassi davvero che i canadesi avessero la testa a forma di sfera divisa a metà o che le ruote delle loro auto fossero quadrate, ma avevo pur sempre appreso − ad esempio − che in Canada ci sono più di due partiti politici, che si spendono molti soldi per il sistema sanitario, che le distanze si misurano in chilometri e le temperature in gradi Celsius, che il latte si vende in busta e non in cartone.
In merito ai soldi, avevo sentito dire che le banconote canadesi sembrano quelle del Monopoli, perché sono di plastica. Potete immaginare dunque la mia curiosità la prima volta che sono andata a prelevare al bancomat. Bene, fuori dall'apposita bocca sputasoldi ho visto accumularsi una sull'altra le facce della regina d'Inghilterra (con tanto di triplo giro di perle al collo) stampate su banconote in polimero flessibile, con inserto trasparente. Si trattava naturalmente delle banconote da 20 dollari, perché solo su questo taglio campeggia il viso di Elisabetta Seconda, circondato dalle immancabili foglie d'acero. Nonostante sapessi che la regina d'Inghilterra è il Capo di Stato della monarchia federale canadese, in quel momento la cosa mi è sembrata alquanto bizzarra, visto che ero circondata da persone che parlavano solo francese.
Per capire come si è arrivati a questo, bisogna risalire al 1763, quando le colonie francesi − fondate nel Seicento − passarono all'Inghilterra (che aveva appena vinto la Guerra dei sette anni). Per i poveri francofoni cominciò un periodo buio, in cui si rinchiusero un po' in se stessi (permettendo tra l'altro alla lingua francese quebecchese di mantenere quelle caratteristiche rétro che oggi fanno così ridere quegli snob dei francesi). Per un lungo periodo, nell'area dell'attuale Québec, furono i minoritari anglofoni a fare il bello e cattivo tempo e ad imporre la loro lingua.
Dobbiamo attendere gli anni Sessanta del Novecento per assistere alla leggendaria Révolution tranquille, quando i quebecchesi − oltre a dare un forte impulso alla laicizzazione dello Stato − dimostrarono di aver preso coscienza della dignità della propria lingua e iniziarono (spalleggiati nientepopodimeno che dal generale De Gaulle) a rivendicare i propri diritti.
Nel 1977 il Québec si dotò della gloriosa Legge 101, che riconobbe al francese il ruolo di unica lingua ufficiale della provincia, rendendola tra l'altro obbligatoria per tutti i nuovi immigrati. Finalmente a Montréal insegne, manifesti, cartelli stradali tornarono in francese (e, nel caso di scritte bilingui, venne stabilito che il testo in francese dovesse apparire per primo e in caratteri più grandi rispetto a quello in inglese).

Da allora la minoranza anglofona della provincia ha fatto registrare un continuo declino numerico e oggi rappresenta solo l'8% della popolazione provinciale: molti di loro non conoscono il francese, ma per vari motivi potrebbero essere obbligati ad impararlo (una sorta di vendetta storica che oggi va a tutto vantaggio degli insegnanti di francese). D'altra parte io, erroneamente, pensavo che entrando in un negozio e rivolgendomi in inglese, chiunque mi avrebbe capito, ma non sempre è stato così (nemmeno a Montréal, figuriamoci nella sperduta provincia). Insomma, una volta estromessa definitivamente la Chiesa cattolica dall'argomento, un idioma nato moltissimi secoli fa, a migliaia di chilometri di distanza, parrebbe oggi l'unico elemento distintivo dell'incerta identità quebecchese.
A partire dagli anni Ottanta, non paga dei notevoli successi, una parte dei quebecchesi ha iniziato a dedicarsi alla successiva missione: l'indipendenza. Finora due sono stati i referendum a cui la popolazione è stata sottoposta, e in entrambi i casi hanno vinto i contrari (la seconda volta, nel 1995, davvero per una manciata di voti). Se avremo pazienza forse ci ritenteranno (anche se la dedizione alla causa nel tempo si sta un po' intiepidendo) e così, nel futuro, dai bancomat quebecchesi magari non vedremo più sbucare la faccia di Elisabetta Seconda, su banconote di polipropilene sottile, trasparente e flessibile, ma forse Giovanna d'Arco (o addirittura Brigitte Bardot), ovviamente circondata dalle immancabili foglie d'acero.

LE VACANZE DELLA COSTRUZIONE

Non che non lo sapessi: la Lonely Planet mi aveva avvertito sin dall'inizio che le lunghissime distanze avrebbero potuto spingermi a compiere errori di valutazione e che gli spostamenti sarebbero potuti risultare più lenti del previsto, ma non immaginavo fino a che punto.
La mia prima improvvisata escursione nella natura quebecchese si svolge a nord di Montréal. La strada si snoda monotona tra fattorie, fabbriche di legname, case (singole o agglomerate in paesucoli) dai colori chiari e tetti spioventi. I villaggi hanno nomi di santi: Saint-Roch-de-L'Achigan, Sainte-Julienne, Saint-Jacques, Saint-Calixte. La regione è piena zeppa di laghi minuscoli, pochi dei quali accessibili ai turisti della domenica in quanto riservati a quelli che hanno la casa sulla riva. Presso uno dei tanti Lac Rond ci accoglie Ivan (capelli brizzolati, lunghi dietro e corti davanti), che qui passa le sue giornate in compagnia di un cocker beige spelacchiato, bevendo birra sulla sua sedia da regista. Per la cronaca, nel lago tondo abbiamo fatto il bagno, abbiamo rotto un pedalò e siamo tornati a nuoto; il resto della giornata, tranne la sosta per il pranzo in uno snack bar, lo abbiamo trascorso fondamentalmente in auto.
Al ritorno, mentre eravamo in coda in un serpentone di auto che come noi cercavano di rientrare a Montréal, tracciando un bilancio della giornata mi si è chiarito il motivo per cui ben pochi pittori quebecchesi abbiano scelto l'estate per rappresentare la bellezza del proprio Paese.

Il problema di viaggiare in Québec è che per farlo degnamente devi possedere una forma mentis quebecchese. Prima di tutto devi programmare con largo anticipo le tue mete e prenotare gli hotel per non rischiare di trovare tutto riservato già da mesi. Anche il tuo stipendio deve essere abbastanza quebecchese per poterti permettere i costi degli alloggi, e soprattutto ti consiglio di avere uno stato di famiglia in linea con gli standard quebecchesi, cioè essere dotato quanto meno di un partner e possibilmente di minimo due figli, altrimenti dovrai accollarti tutto da solo il prezzo delle camere doppie − se non quadruple − e non potrai approfittare degli immancabili sconti famiglia. Per quanto riguarda gli spostamenti invece, sappi che i limiti di velocità raramente superano i 90 km all'ora, la maggior parte delle persone viaggia su mezzi di dimensioni sproporzionate (SUV, camper, auto con roulotte, camper con auto, auto con barca ecc. ecc.), tutti vanno nella stessa direzione, gli autobus costano un'enormità − nonostante il prezzo della benzina si aggiri intorno a un euro al litro − e inoltre sono lentissimi.
Quanto appena esposto va preso alla lettera se la partenza avviene nelle ultime due settimane di luglio, ossia durante le cosiddette "vacanze della costruzione", quando architetti, saldatori, capisquadra, ingegneri sono in ferie, tutti lasciano la città e riempiono le località di vacanza nella provincia.
Per questo e altri motivi, sabato e domenica notte ho dormito da Yvette. Di fronte a un personaggio come Yvette, non sapevo se ringraziare il cielo oppure mangiarmi le mani per non aver mai studiato il francese come si deve. Intanto la fortuna di Yvette è che possiede una bella casa spaziosa in città, che adibisce a bed & breakfast (anzi, "gite", come si dice da queste parti). Considerando che a Baie-Saint-Paul c'era il festival di arte di strada, non avevo molta scelta (a dirla tutta, questa era l'unica opzione disponibile).

Per farvi capire che tipo di persona è Yvette vi basti sapere che il problema che quel pomeriggio la affliggeva era l'acquisto di un paio di calze, pagate ben 10 dollari, ma che purtroppo le finivano di continuo dentro le scarpe. Io non mi sono allarmata più di tanto, nemmeno quando lei furbescamente ha intuito che qualche parola ogni tanto la afferravo: ho continuato beatamente a fare la gnorri e tutto è andato per il meglio. D'altra parte il rischio maggiore sarebbe stato assaggiare una delle sue colazioni, cosa che mi sono guardata bene dal fare non appena Yvette, la mattina dopo, ha aperto il frigorifero inondando la casa di un nauseabondo odore di cadavere. Fingendo poco appetito, ho rifiutato la proposta di quel disgustoso croque-monsieur surgelato e mi sono servita cautamente del caffè, non invidiando affatto l'uomo che occupava l'altra stanza della casa, il quale non solo aveva avventatamente accettato la colazione, ma si era trovato a dover sorbire con pazienza sovrumana l'inarrestabile parlantina di Yvette.
Mentre bevevo il caffè, la logorroica vegliarda stava allietando il suo interlocutore con la storia di quando aveva vinto non so quanti mila dollari al "La Poule aux œufs d'or", questa lotteria quebecchese che − da quanto ho capito − ha portato Yvette nientemeno che in televisione. Poi la conversazione si è spostata sul matrimonio di un imprecisato parente al quale lei ha partecipato o avrebbe dovuto partecipare e per il quale manifestava un enorme entusiasmo. Ma io a quel punto, con la faccia meno espressiva del mondo, sono tornata nella mia camera per vestirmi. Mi aspettava l'eccitante festival "Le Festif!", a causa del quale la località era intasata − e durante il quale non ha smesso un attimo di piovere.

A parte Yvette, una delle cose che meno mi è piaciuta del Québec è che mi ha obbligato a dormire negli ostelli. Io di solito cerco di evitare questo tipo di alloggi, specialmente se devo prendere posto nei tipici letti a castello di cui sono dotati i famigerati dorms, ma purtroppo a volte era la sola sistemazione che mi potevo permettere. A Tadoussac, ad esempio, una nutrita masnada di fricchettoni era allegramente distribuita in questo enorme edificio pieno di poltrone e divani uno diverso dall'altro, chi con in mano una tazza di caffè, chi appena uscito dalla doccia, chi stravaccato con il tablet in mano, chi raccoglieva firme per petizioni di Greenpeace. È stato lì, osservando questi giovani scalzi e con i capelli sporchi (molto dei quali si ostinavano a suonare la chitarra pur essendone incapaci), e ripensando a Ivan, a Yvette, alle famiglie col bovindo sul camper, ai capisquadra e ai saldatori, che mi sono finalmente spiegata come mai così tanti quebecchesi vanno in vacanza all'estero.

LA NOTA FAUNA SELVAGGIA QUEBECCHESE

Questi giovani rilassati e anticonformisti, stravaccati con naturalezza sui divani male assortiti dell'auberge de jeunesse di Tadoussac, parlavano tutti francese: prestando orecchio, riuscivo a riconoscere la differenza tra lo sguaiato accento quebecchese, pieno di vocali apertissime e rasoianti zu zu, e quello più raffinato della Francia, ma in ogni caso capivo poco o niente; solo a volte sentivo echeggiare le ipnotiche parole baleine baleine.
Tadoussac, luogo bello e selvaggio e prima base commerciale europea nel continente nordamericano, è infatti uno dei migliori posti al mondo per vedere le balene. È qui che il San Lorenzo comincia a mescolarsi con il mare, favorendo − grazie alle variazioni di profondità e temperatura dell'acqua combinate con l'azione delle maree − l'ampia varietà di vita marina che attira i teneri mammiferi. Le specie principali che visitano questo pezzo di estuario nonché parco marino sono la balenottera comune e quella rostrata, la megattera e il beluga, uno dei cetacei più rari al mondo. Queste notizie le ho lette in loco, seduta anch'io su uno dei divani sfondati e anch'io, ahimè, con i capelli poco puliti.

Una volta che ero arrivata fin là sarebbe stato assurdo perdermi questa esperienza, ma mi sarei risparmiata volentieri i 65 dollari che richiedevano i signori delle “Croisières Dufour” (comunque soldi più che giustificati considerando che navigano nelle acque del San Lorenzo da più di 30 anni).
Ho tentato allora una spedizione in autonomia nella speranza di adocchiare almeno un pezzo di balena dalla terra ferma. La mattina sono uscita molto determinata, ho superato la più antica cappella di legno del Canada, fondata dai gesuiti, e il Grand Hotel Tadoussac (dove hanno girato il film ‘Hotel New Hampshire’) e ho raggiunto la spiaggia. La passeggiata è stata molto suggestiva con tutti quei bellissimi blocchi di granito, ripide scogliere, calette, picchi alberati e gabbiani stridenti, ma purtroppo, pur avendo camminato per circa tre ore e mezza sul Sentier de la Plage (ho pure dovuto scalare delle altissime dune e fare l'autostop per tornare all'ostello), non sono riuscita a scorgere né una pinna, né una coda, né tanto meno uno spruzzo d'acqua.
Alla fine ho capitolato e mi sono decisa a prenotare una gita di due ore sul gommone Zodiac, famoso per aver regalato un'esperienza emozionante e indimenticabile a migliaia di turisti avventurosi (“Un vrai coup de coeur”, c'era scritto in cima al dépliant delle “Croisières baleines & fjord”).

Prima di tutto ci hanno fatto firmare un consenso scritto in cui declinavamo la responsabilità della “Croisières AML” in caso di incidenti, e ci hanno fatto leggere questa importantissima raccomandazione: “Devi assolutamente seguire le istruzioni del Capitano e restare seduto tutto il tempo!”.
Io non vedevo l'ora che il Capitano (naturalista con tanto di certificazione) ci raccontasse la storia di questi impressionanti mammiferi marini, ma purtroppo il mio Capitano, un flemmatico ventenne biondo, non parlava una parola di inglese e non ho capito praticamente niente della vita delle balene, nonostante avessi speso ben 65 dollari. Ma il peggio è stato pensare che, se fossimo stati in pericolo e lui ci avesse dovuto dare un'istruzione fondamentale per la nostra sopravvivenza, tutti la avrebbero capita e si sarebbero salvati, mentre io sarei morta miseramente infagottata dentro a una salopette e a una giacca a vento rossa di 4 taglie più grande, nel fondo del gelido fiume San Lorenzo, probabilmente mangiata da una balena (anche se, non conoscendo affatto la loro dieta, non posso esserne certa). Se a ciò aggiungiamo che mi si sono congelati i piedi perché non avevo afferrato il consiglio di indossare scarpe chiuse, se ne deduce che quello con le balene non è stato proprio amore a prima vista, nel mio caso.

È per questo che ho detto addio al magnifico Saguenay Fjord, scolpito da un ghiacciaio e profondo di più di  300 metri, e il giorno dopo ho trovato un passaggio grazie al quale, attraversato con il traghetto il fiordo stesso fino a Baie St. Catherine, me ne sono tornata mestamente verso Québec City.
La balena è praticamente l'unico animale che ho intravisto nel suo vero habitat naturale in Québec. Nonostante il Paese sia noto nell'immaginario collettivo per i paesaggi incontaminati, gli spazi selvaggi pieni di fascino, le sterminate foreste popolate da alci, e anche se qualunque guida o opuscolo turistico vi comunicherà con entusiasmo che gli incontri con qualche possente creatura sono garantiti, personalmente io non ho visto né caribù né castori né niente. Ovviamente non do la colpa al Québec, né tanto meno agli opuscoli turistici, per non aver incontrato la fauna selvaggia, visto che è stata colpa mia se non ho fatto l'escursione − ad esempio − al Lac Taureau e alla sua relativa foresta boreale, né al Parc Oméga sulla via per Mont-Tremblant, né al Lac Saint Jean e relativo parco della biodiversità, ma erano tutti talmente lontani.
Gli animali che ho visto io invece erano poco o nulla selvaggi, anzi sembravano proprio a loro agio nel contesto urbanizzato di Montréal: nel giardino botanico due volpi passeggiavano tranquillamente tra i piedi dei visitatori, mentre su uno dei punti panoramici del Mont-Royal una folta comitiva di orsetti lavatori a tarda sera scassinava i bidoni della spazzatura appositamente (e inutilmente) piombati. Per non parlare degli scoiattoli, numerosissimi non solo in parchi e giardini, ma perfino nei piccoli giardini privati su cui si affacciano le normali case a schiera.

NON ERA PIÙ FACILE ANDARE IN FRANCIA?

Il mio è stato un viaggio nel Québec urbanizzato, anche perché qua pure le aree naturali negli anni sono state addomesticate e imborghesite: campeggiare è costoso e le piazzole vanno prenotate in anticipo; quando si visitano i parchi naturali bisogna pagare un biglietto di ingresso che permette di usufruire dei servizi degli onnipresenti “centri di interpretazione della natura” − come se gli esseri umani dei nostri tempi non fossero più capaci di interpretarsela per i fatti propri, la natura.
Una delle località urbane più prese d'assalto dai turisti è Québec City, la capitale dello Stato, che si vanta di essere la più antica città del Nord America, visto che l'esploratore francese Samuel de Champlain la fondò nel 1608. In realtà, anche il comune di St. Augustine, in Florida, si fregia della stessa nomea in quanto fondato addirittura nel 1565 (anzi, sarebbe persino il secondo più antico dell'intero continente americano), ma forse, secondo il punto di vista degli esperti di record, la Florida non fa parte del Nord America.
A Québec City ci sono andata due volte, la prima delle quali per assistere allo spettacolo del Cirque du soleil, compagnia fondata a Montréal e nota in tutto il mondo. Lo show, intitolato “Kurios. Cabinet de curiosités”, si teneva in un tipico tendone di circo a righe gialle e blu posizionato nell'area del porto, sul fiume San Lorenzo. Da qui la città vecchia, in cima a un promontorio, si stagliava invitante con i suoi pinnacoli e tetti colorati. Dopo due ore di oniriche e ardite evoluzioni con musica e costumi mozzafiato, all'ora del tramonto siamo entrati nell'accogliente centro città, dove abbiamo ammirato l'originalità dei negozi di souvenir e i ristoranti con il menu scritto alla lavagna, i muri di mattoni, le installazioni artistiche, i murales, le chiese, i fiori alle finestre, i gigli sulle bandiere, i tetti d'ardesia e gli abbaini.

Saliti un sufficiente numero di gradini e superata la statua di Samuel de Champlain, ci siamo trovati di fronte al fiabesco Château Frontenac, l'hotel più fotografato al mondo. Percorrendo la Terrasse Dufferin, pavimentata in legno, sulla sinistra si vedeva la dirimpettaia città di Lévis al di là del fiume, che in questo punto diventa sottilissimo (non a caso il nome Québec si crede che derivi dall'algonchino "kebek", che vuol dire "strettoia"). Poi abbiamo cercato un posto per mangiare, ma abbiamo dovuto scartare quasi tutti i locali della città alta e accontentarci di un hamburger in un pub (l'unico modo per spendere meno di trenta dollari). Per quegli europei che, dopo aver speso alcune centinaia di euro di volo e aver passato una notte intera in aereo, sono contenti di provare l'impressione di trovarsi in Francia, allora Québec City è il posto giusto.

Dato l'affollamento turistico, per dormire ci siamo diretti all’Île d'Orléans. Questo gioiello di isola, luogo di nascita della Nuova Francia e abitata da tempo immemorabile, festeggia la tradizione rurale del Québec con i suoi splendidi paesaggi, dicono i dépliant turistici. Un'unica strada permette di perimetrarla interamente, per ammirare scenari bucolici di aceri, pini, papere e prati, fattorie, chiesette di pietra e rivendite di antiquariato, e fermarsi a mangiare dolci e frutti di bosco e a degustare diversi tipi di sidro accompagnati da anatra, confetture e mostarde. Ed è quello che abbiamo fatto per l'intera mattinata.
Tornati sulla terraferma ci siamo immediatamente imbottigliati sull'unica strada che va da Québec verso il nord, parallela al fiume: era il giorno di Sant'Anna e tutti si recavano in pellegrinaggio al santuario di Sainte-Anne-de-Beaupré, che si intravedeva sulla sinistra, circondato da fast food. Sant'Anna è patrona dei marinai e famosa per i miracoli: dentro la basilica − oltre a una copia della Pietà di Michelangelo − ci sono infatti centinaia di stampelle offerte in segno di ringraziamento. A causa dell'intasamento, non ci ha nemmeno sfiorato il pensiero di cercare un parcheggio e scendere, e dunque non ho visto né le stampelle né l'attiguo Cyclorama di Gerusalemme, un enorme dipinto circolare della Crocifissione di Gesù che mostra la città di Gerusalemme come verosimilmente sarebbe dovuta apparire al momento della morte del Messia.

Al ritorno da Tadoussac, ho deciso di dare una seconda opportunità a Québec City. Ma prima, insieme a questa coppia di giovani francesi mutangheri che mi avevano dato un passaggio, ci siamo fermati alle cascate di Montmorency, 30 metri più alte rispetto alle famose cascate del Niagara. Abbiamo parcheggiato la macchina gratuitamente fuori dal parco e poi abbiamo seguito tutti gli altri visitatori lungo i numerosi sentieri, fermandoci ad osservare la cascata da ogni possibile angolazione; infine siamo giunti al bellissimo ponte sospeso, dal quale si poteva osservare il salto da vicino e spaziare con lo sguardo fino al San Lorenzo, alla verde Île d'Orléans e alla città di Québec.

Il mio secondo ingresso nella capitale inizialmente mi ha spiazzata: sono stata lasciata infatti proprio davanti all’edificio del Parlamento Provinciale. Superata la fontana fiorita, però, ho rivisto le note mura della città vecchia, le ho attraversate e mi sono incamminata lungo Rue St. Louis fino all'ostello. Ripercorse per un po' le strade già viste (stavolta molto più ridenti perché c'era il sole), mi sono diretta verso la cittadella, una fortificazione a forma di stella che separa la città vecchia dal parco della piana di Abraham, dove a metà del 1700 i francesi furono battuti dai coloni inglesi.
La maggior parte del tempo però l'ho trascorsa al Musée de la Civilisation, dove ho visitato due esposizioni. La prima si intitolava “This is Our Story: First Nations and Inuit in the 21st Century” ed era dedicata alle undici “nazioni” indigene (o aborigene) tutt'ora presenti in Canada, le quali hanno dato il loro contributo per la realizzazione della mostra stessa. Alla scoperta della loro cultura e alla riflessione su cosa vuol dire essere un “amerindio” oggi, mi hanno condotto centinaia di oggetti come sculture Inuit, costumi cerimoniali, pettinature e abiti, cinture realizzate con perline e conchiglie, tamburi, coltelli, canoe e kayak, alcuni filmati e opere d'arte aborigena contemporanea. Io avrei preferito conoscere gli abitanti originari dal vivo e non dentro ai musei, ma se già non sono riuscita a raggiungere i parchi naturali a nord del San Lorenzo, figuriamoci se riuscivo a raggiungere i territori artici del Nunavik.

L'esposizione “People of Québec… Then and Now” ripercorreva invece i principali eventi che hanno costituito l'attuale Québec. Si parte dal Rinascimento, quando il re Francesco I mandò Giovanni da Verrazzano a esplorare le coste nordamericane e quando Jacques Cartier approdò sulla penisola di Gaspè e proclamò la sovranità francese, piantando una croce in terra. Lo stesso Cartier, al ritorno dal suo terzo viaggio, portò in Francia delle pietre che lui credeva fossero oro e diamanti, invece non erano altro che pirite di ferro e cristalli di quarzo: da allora si usa dire “falso come un diamante canadese”. Tra gli oggetti esposti vi era il modellino del Don-de-Dieu (il veliero con il quale Champlain nel 1608 attraversò l'Atlantico per la terza volta, giunse a Tadoussac e poi fondò Québec) e vari strumenti che mostrano come, molto prima dell'arrivo di Champlain, il San Lorenzo era frequentato da pescatori di merluzzi e cacciatori di balene baschi, normanni, britannici, spagnoli, portoghesi.
Quando arrivarono gli europei, l'attuale Québec era abitato da migliaia di anni; furono gli irochesi e gli algonchini a entrare per primi in contatto con gli europei. I francesi opportunisticamente strinsero forti legami con gli autoctoni, e cominciarono a scambiare con loro non solo beni in cambio di pellicce, ma anche metodi e credenze: ad esempio gli autoctoni adottarono le pentole, i fucili e – alcuni – il cristianesimo; i francesi invece scoprirono le canoe e le racchette da neve. La storia della colonizzazione proseguiva (glissando elegantemente sul genocidio dei nativi) fino a giungere agli splendidi anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, anni di boom economico, Expo, giochi olimpici e consumismo.
E infine ecco le molte facce del Québec odierno, orgoglioso di accogliere immigrati da tutto il mondo, specialmente dai Paesi del Sud afflitti da crisi economiche e politiche, e di aver raddoppiato i suoi sforzi per integrarli. Grazie alla cucina etnica e agli eventi culturali, la faccia del Québec si è ringiovanita, diventando sempre più multiforme; a testimoniare tutto ciò nella teca erano collocati: un cappello portoghese, delle babbucce nordafricane, una darbuka magrebina e un portadocumenti senegalese.

Il paese dei balocchi

La verità è che il Canada è un paese dei balocchi, una terra fastidiosamente ricca governata da idioti i cui problemi, inventati di sana pianta, sono una specie di intermezzo comico rispetto alle piaghe che affliggono il mondo reale: carestie, odi razziali, microdelinquenza diffusa.
(Mordecai Richler, "La versione di Barney")

Devo ammettere che sono stata un po' ingiusta con il Québec. Vi sarete fatti l'idea che si tratti di un posto tremendo, e mi rendo conto che l'esperienza su "Le Monstre" potrebbe aver condizionato in negativo le mie impressioni. Effettivamente essere rimasta tre giorni interi immobilizzata da una contrattura al collo che mi impediva perfino di dormire, in una casa piena di farfalle e altri insetti imbalsamati, in compagnia di una coppia che parlava solo francese e di un cane bassotto, non è stato proprio un finale col botto. Mi dedicherò dunque ad elencare tutte le caratteristiche positive del Québec.
Intanto il Canada è una delle nazioni più sviluppate del mondo (è all'ottavo posto per PIL pro capite e al sesto posto per indice di sviluppo umano), il tasso di disoccupazione è molto basso, possiede più laghi ed acque interne di qualsiasi altro paese al mondo, la cultura ecologista è molto presente nelle coscienze civiche e il matrimonio omosessuale è legalizzato.
Il Québec poi non solo è il maggior produttore al mondo di energia idroelettrica e di sciroppo d'acero, ma ha anche dato le origini alla cantante Céline Dion, detta non a caso l'usignolo del Québec.
L'uso del cellulare non è così pervasivo come in Italia: sarà che quel tipo di abbonamento mensile che in Italia costa 9,99 euro, là costa 40 dollari, fatto sta che le cabine telefoniche sono ancora molto usate, così come i telefoni fissi e le segreterie telefoniche.
Il bilinguismo arricchisce il mondo scanzonato del copywriting di molte più possibilità, senza contare che vivendo qui hai molte più possibilità di imparare due lingue.
Ad ogni angolo di strada vi è un dépanneur, ossia un negozio aperto 24 ore su 24 in cui si vende di tutto: dallo spazzolino da denti alla spazzola per capelli alle spazzole tergicristallo.
Anche se è difficile trovare locali che hanno i tavoli all'aperto (e in questo, va detto, non hanno imparato niente dai francesi), ci sono diversi club dove suonano dal vivo. E infine, visto che si frequentano poco i locali (soprattutto in inverno), si risparmiano un sacco di soldi.

Gallerie fotografiche 

Montréal e dintorni:

Québec City e dintorni:

Lungo il San Lorenzo: