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Dolce vita eritrea

Eccomi qua, sono una dei duemila turisti che nel 2024 hanno viaggiato in Eritrea, collocandola al non invidiabile quinto posto della classifica dei Paesi meno visitati al mondo. Il mio aereo, proveniente dal Cairo e atterrato ad Asmara nel cuore della notte, è pieno di eritrei della diaspora che tornano a casa per le vacanze di Natale: altri bianchi non ce ne sono. L’aeroporto è aperto solo tre giorni alla settimana, in cui sono concentrati gli sporadici voli che collegano l'Eritrea con Dubai, Istanbul e poco altro (la compagnia Ethiopian Airlines tre mesi fa ha cancellato tutte le tratte).
La fila per il controllo passaporti e visti è molto lenta, ma mi viene spiegata subito la ragione: i ragazzi che ci lavorano sicuramente non andavano molto bene a scuola. In questo Paese infatti l'ultimo anno del percorso di istruzione deve essere svolto presso un centro di reclutamento militare situato a 280 km da Asmara. In questa accademia (già attenzionata dagli osservatori internazionali per abusi e torture) ogni anno tra gli 11 mila e i 15 mila studenti seguono un primo addestramento militare, seguito dal servizio civile: solo chi ha una buona media svolgerà quest'ultimo presso uffici governativi o ambasciate, gli altri in luoghi meno di prestigio come questo aeroporto, o molto peggio.
Le valigie sono accatastate senza ordine in una grande sala scarsamente illuminata. Quelle provenienti da Milano non sono arrivate – evento così prevedibile che a Roma mi ero tenuta stretta il mio bagaglio a mano quando un'impiegata della compagnia aerea ha insistito per farmelo imbarcare. Il "duty free" è uno spartano magazzino dove si stagliano imponenti muraglie di scatoloni di pasta Barilla, olio Coppini, birra Heineken, tutti prodotti provenienti dagli Emirati Arabi o altri Paesi vicini, poiché con l'Europa vige un ferreo embargo. 

Un viaggio senza notifiche

Il nostro hotel è dotato di un bar/ristorante al chiuso e di alcuni tavolini all’aperto, ha molti comodi divani e due grandi schermi, uno sintonizzato perennemente su Al Jazeera e l’altro prevalentemente dedicato alle partite di calcio, ma – soprattutto la mattina – anche ai documentari sugli animali selvaggi. Diversi ospiti sono clienti fissi della caffetteria dell'albergo e nel corso dei giorni in cui ho pernottato qui sono diventati familiari come i divani grigi, le notizie che scorrono senza volume sul teleschermo, la foto incorniciata del Presidente, gli orologi delle più importanti città del mondo con gli orari tutti sbagliati.  
Per esempio c'è questa donna sempre molto accappottata con cappello e sciarpa, che ha vissuto 47 anni in Germania. La sua storia è che il marito tedesco, già forte bevitore, prima era diventato novax e poi era entrato in un gruppo di neonazisti: fu in quel periodo che cominciò a maltrattarla, incoraggiando anche il suo entourage del quartiere a tormentarla e minacciarla in vari modi, finché lei non ha deciso di divorziare e tornare in Eritrea. E ora, ogni volta che la incontro ripete la stessa frase: "Tedeschi cattivi, italiani cuore grande".  

Poi c’è l’avvocato Mikele, un distinto signore con i capelli bianchi e i baffi che sorbisce il suo “makiato” pieno fino all'orlo. Ai suoi tempi si studiava anche italiano a scuola, ma lui non lo ha più praticato e dunque conversiamo in inglese (tutte le persone istruite lo parlano abbastanza bene perché è in questa lingua che si tengono le lezioni dalle superiori in poi). "Perché non possiamo essere amici noi e l'Italia?" mi fa Mikele "Se non ci sono gli accordi non possiamo importare niente da voi...". Quindi mi racconta speranzoso che l'anno scorso il Presidente Isaias Afewerki è venuto a Roma per incontrare la Meloni. In quell'occasione si è parlato di programmi di investimento, ma anche ad esempio degli ascari (i soldati eritrei arruolati forzatamente dall'Italia), che secondo Isaias – molti lo chiamano così, visto che i cognomi nell'onomastica eritrina non esistono – possono diventare un ponte per la cooperazione tra i due Paesi, se solo il governo italiano si decidesse ad aprire gli archivi. 

In Eritrea gli stranieri non possono acquistare una SIM card, che è riservata ai residenti, e comunque internet mobile è assente. Negli internet point e in alcuni alberghi si può acquistare un'ora di connessione, ma non è detto che funzioni nel vero senso del termine (di certo non si può usare Whatsapp, che è proprio vietato). La disconnessione forzata rende arduo un viaggio in solitaria, ma dà la possibilità di immergersi pienamente nella vita eritrea, proprio come un tempo, quando in viaggio staccavi davvero da tutto ed entravi nelle storie del Paese, come quelle di Mikele, della donna freddolosa o dell'asmarino che da piccolo fu adottato da una famiglia romana ricca sfondata.  
La notte del nostro arrivo è andata via l'elettricità, ma al mattino è tutto in regola. Mi vengono serviti rapidamente un'omelette e un succo di guava; le comande relative al settore caffetteria accumulano invece sempre un certo ritardo, forse a causa delle ragazze che stanno sempre a chiacchierare. 

GLI EROI DI CHEREN

Munito del permesso governativo, senza il quale è impossibile recarsi in qualunque luogo dell'Eritrea all'infuori della capitale, il nostro gruppetto parte per Cheren, percorrendo una delle strade costruite nel periodo coloniale, che ci farà scendere di alcune centinaia di metri fino a raggiungere la seconda città più grande del Paese. La deviazione per Filfil è impraticabile poiché la strada è crollata: "Non a caso l'avevamo costruita noi, mica gli italiani!" ironizza l'ingegnere che ci fa da guida. "Non abbiamo imparato da voi..." Il paesaggio naturale è avvincente non solo per la presenza di montagne, campi terrazzati, acacie nane, eucalipti, fichi d'India e gigantesche euforbie, ma anche per i cammelli e gli asini sempre stracarichi, nonché per gli occasionali, vivaci babbuini. Rare le auto (la benzina costa due euro al litro), sporadici i bus strapieni, un po' più frequenti i camion. Ogni tanto potrebbe capitare di avvistare dei ciclisti professionisti, impeccabili con i loro completini aderenti in lycra. 

Fu a Cheren, nei primi mesi del 1941, che si decretò l'inizio della fine dell'Africa Orientale Italiana. In una delle battaglie più sanguinose della Seconda guerra mondiale, tra le file dei valorosi militari sconfitti dai britannici (alpini, bersaglieri, camicie nere, soldati dell'aviazione e della marina) si sono stimati oltre dodicimila morti, dei quali solo tremila "nazionali": la maggior parte dei caduti furono infatti i soldati indigeni. Nel cimitero di guerra italiano ed eritreo di Cheren, che ci accoglie con la scritta "eroi" sul cancello di ingresso, riposano attualmente i resti di 618 italiani e 622 ascari, "popolazioni italiane e native unite in un solo pensiero di fede". Passeggiando tra le lapidi bianchissime, accarezzate da splendide cascate di bouganville fucsia e rosse, troviamo nome e cognome soltanto degli italiani, mentre sulle tombe degli ascari c'è sempre scritto IGNOTO. In realtà anche metà dei nostri connazionali non poterono essere riconosciuti, visto che le autorità inglesi di occupazione per circa un anno non acconsentirono al recupero dei resti dei caduti. Dall'altra parte della città c'è anche il cimitero inglese, dove hanno avuto degna sepoltura sia i soldati britannici sia quelli del Commonwealth (indiani del Punjab, sikh, senegalesi, sudanesi ecc.)
Nella periferia settentrionale, un po’ in collina, sorge il Santuario della Madonna di Dearit, "un luogo sacro preghiera e di accoglimento e non di divertimento o scenario per fotografare", dove "bisogna comportarsi con descenza nel vestirsi e nell'agire". Una piccola statua della Madonna nera vestita di rosa è stata messa dentro al tronco di questo grande baobab in omaggio a dei soldati italiani che a quanto sembra si salvarono dai bombardamenti inglesi nascondendosi proprio qui dentro. Poi i monaci cistercensi hanno costruito questo compound dove coltivano tantissime cose e dove ogni domenica mattina c'è la messa. 

Nel centro di Cheren, proprio accanto a una grande rotonda, sorge la chiesa di Sant'Antonio. Un lungo dipinto murale nei toni del blu situato al bordo della strada racconta l'epopea della guerra di liberazione dall'Etiopia, la più lunga lotta d’indipendenza d’Africa, che tenne impegnati gli eritrei per circa trent'anni. Nel 1991 le ostilità finirono e due anni dopo il 98% della popolazione votò in un plebiscito popolare per la definitiva separazione. La celebrazione della vittoria contro l'Etiopia è al centro della narrazione nazionale eritrea: le immagini dei “tegadelti" (combattenti di entrambi i sessi) sono presenti letteralmente ovunque nel Paese, con indosso dei pantaloncini cortissimi diventati iconici, per far vedere che risparmiavano persino sul tessuto dei vestiti ("più succinti erano gli shorts, più coraggioso era il soldato", scrive Michela Wrong). In seguito c'è stato un lungo periodo di “guerra non guerra” fino alla pace firmata l’8 luglio 2018, ma in realtà ancora adesso la tensione tra i due Stati cova sotto la cenere, soprattutto a causa delle dispute di confine (che non è mai stato chiaramente demarcato). 

Ogni lunedì a Cheren si tiene un pittoresco mercato del bestiame: l'Eritrea è ancora un Paese per lo più rurale e l'economia è basata principalmente sull'agricoltura di sussistenza e sull'allevamento di ovini e bovini. Il mercato è dedicato in primis ai dromedari, che qui sono molto chiari, quasi bianchi (quelli che cercano la fidanzata stanno schiumando letteralmente dalla bocca). Poi c'è l'area dei bovini, ancora molto usati come animali da traino, infatti alcuni venditori stanno mostrando l'efficienza di una coppia di buoi che trascina un aratro che credo di aver visto sul libro di storia del Medioevo. Man mano che raggiungiamo la zona più elevata della vasta area aumentano sempre di più le capre con il loro caratteristico odore: da quassù si può ammirare con un unico colpo d'occhio il grande numero di animali presenti, nonché l'eleganza dei compratori con i loro camicioni immacolati, zuccotti, turbanti e occasionali bastoni sulle spalle. Mi viene offerto un chai in una specie di bar ai margini del mercato, sotto una rudimentale tettoia: a caval donato non si guarda in bocca, ma avrei assaggiato anche il caffè scenograficamente versato dal bricco di terracotta in un bicchiere poggiato sul tavolino accanto a me. Mentre raggiungo l'uscita del mercato, noto due avventori che mi guardano di sottecchi mentre chiacchierano tra loro: stando alla traduzione della guida, uno dei due sta dicendo all'altro che sono la bianca più bella che abbia mai visto (forse non ne ha viste tantissime). 

Il lunedì c'è anche il coloratissimo mercato generale, ospitato nel letto del fiume, e in città c'è molta animazione: soprattutto le donne attirano la mia attenzione, sia le islamiche di cui si vedono soltanto gli occhi, sia le ortodosse con lo scialle bianco in garza di cotone. Una ragazza con il chador mi chiede un selfie.
A Cheren, come in tutto il Paese, sono molto diffusi i negozi di film e serie: visto che lo streaming non può prendere piede a causa della scarsa copertura di internet, i video – venduti a prezzi irrisori – vengono scaricati via bluetooth (e c'è già chi si lamenta dei "nostri giovani" sempre appiccicati al cellulare). In un ristorante mi mostrano i coupon che il governo socialista concede ogni mese ai privati cittadini e ai gestori di locali commerciali. Grazie alla consulenza di una guida al seguito di un influencer siberiano (uno dei pochissimi turisti stranieri incontrati durante il viaggio), apprendo che con questi buoni le famiglie eritree possono acquistare a prezzi scontati una serie di prodotti di base come carburante, olio da cucina, alimenti ecc. 
La vecchia stazione di Cheren cominciò ad operare nel 1923: oggi la linea ferroviaria Asmara-Biscia è stata smantellata, ma l'inconfondibile e famigliare edificio che ospitava la stazione, con la vecchia pensilina, è ancora presente, anche se necessiterebbe di un importante opera di restauro. Di fronte c'è un grande spiazzo che funge da stazione degli autobus, dove sono presenti alcuni venerandi mezzi non più in funzione. 

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Torniamo ad Asmara percorrendo la stessa strada panoramica dell'andata. Ogni tanto nella boscaglia compare un autoblindo o un carro armato arrugginito, in genere di fabbricazione russa, risalente alla guerra di indipendenza, che non so per quale ragione attira moltissimo la componente maschile del gruppo. Inoltre andiamo a curiosare in un villaggio di tucul abitato dai Bilen, una delle nove etnie che vivono in Eritrea. Essi costituiscono circa il 2% della popolazione, a fronte di una maggioranza assoluta di tigrini e tigrè. All'interno dell'abitazione, divisa da una tenda in zona giorno e zona notte, al momento ci sono solo la mamma cinquantenne e la figlia diciottenne – bellissima – affaccendate in lavori donneschi, mentre i bambini sono a scuola. A giudicare dalla croce in cima alla capanna e dalle immagini religiose appese alla parete, si tratta di una famiglia cristiana, ma esistono anche i Bilen islamici. Le donne Bilen sposate si riconoscono da un gioiello posizionato al centro della fronte: si tratta di una specie di medaglia tenuta ferma da una serie di cordini.

Debub, la regione del sud

La strada per Adi Keyh si snoda dalla capitale in direzione sud-est, attraverso la rotabile aperta nel 1903 dal regio corpo di truppe coloniali "per promuovere la prosperità della colonia governando Ferdinando Martini" (come leggiamo su un masso tondeggiante al lato della carreggiata). Ogni tanto ci dobbiamo fermare a un posto di blocco: dopo il controllo delle carte, di solito uno dei personaggi che stazionano nei pressi si alza e va ad abbassare il cordino per farci passare. Probabilmente anche loro stanno svolgendo quelle mansioni obbligatorie nell'ambito del cosiddetto servizio nazionale, di cui abbiamo tanto sentito parlare. L'ONU chiede da tempo all'Eritrea di abolire questo sistema perché si tratta di lavoro forzato, non pagato e soprattutto senza una fine certa, che viola le convenzioni sui diritti umani. Anche oggi ci addentriamo nella campagna per vedere da vicino mezzi militari arrugginiti, ma anche edifici crivellati dai colpi di arma da fuoco all'epoca della guerra di liberazione. 

A Dekemhare possiamo prendere un ottimo caffè o una fresca birra Asmara nel bar Imperiale o nell'attiguo bar Castello, prima di dirigerci a piedi alla chiesa cattolica, gestita dai cappuccini. A mezzogiorno e mezzo i ragazzi sciamano fuori da scuola con le magliette dello stesso colore turchese, parecchio entusiasti della nostra presenza. Uno studente mi mostra un quaderno con i caratteri del complicato alfabeto ge'ez: i giovani eritrei sembrano abbastanza ferrati in inglese, qualcuno con cui ho parlato ha sostenuto che la lingua tigrina è così difficile che allena moltissimo gli studenti nell'apprendimento delle lingue straniere. 
Il berberè è una miscela di spezie che costituisce uno degli ingredienti chiave della cucina eritrea. L'operazione di macina del peperoncino, nonché di altre spezie e cereali, avviene in laboratori come quello di Dekemhare, dove l'odore pungente dopo pochi secondi già ti pizzica in gola e ti fa starnutire. È impossibile non commiserare i poveri lavoratori, soprattutto donne (alcune con i bebè legati alla schiena), che devono respirare la polvere urticante per molte al giorno, mentre sbriciolano i vari prodotti con macchinari arcaici o addirittura con rudimentali pestelli. Nello spiazzo di fronte stazionano i cammelli (sul cui dorso è caricato il classico barile aperto in due) e gli asini aggiogati ai carri. 

Segheneiti è un villaggio più piccolo di quello precedente, dove ci fermiamo per il pranzo dell'autista. C'è poca gente in giro, tranne dei ragazzini che giocano a pallone in un grande spiazzo. Un gruppo di giovani, anch'essi probabilmente impegnati nel servizio nazionale, appena finito di mangiare sta salendo su un grande autobus scassato.
A parte tutti gli interessanti annessi e connessi, il piatto forte della giornata è la bellissima Valle dei Sicomori, dove abbiamo passato un paio d'ore tra questi giganteschi alberi, alcuni vecchi centinaia di anni, tra cui quello raffigurato sulla banconota da cinque nakfa. Il ficus sycomorus è un albero non solo altamente scenografico, ma anche molto utile a proteggersi dal sole tropicale. È molto piacevole passeggiare nella valle tra i fichi d'india selvatici e i cactus candelabro, cullati dal continuo cinguettio degli uccelli.

Poco prima di entrare ad Adi Keyh costeggiamo il College of Arts and Social Sciences, un edificio enorme con i panni stesi sulle ringhiere della recinzione esterna: si tratta di uno dei sette istituti di alta formazione che dal 2003 hanno sostituito l'Università nel Paese. Intorno alle sei le strade della città sono piene di bambini e ragazzi di tutte le età, vestiti con colori diversi a seconda dell'istituto che frequentano. In Eritrea la scuola di base è gratuita ed obbligatoria per sette anni, ma le strutture scolastiche sono insufficienti ad accogliere tutti gli allievi in età dell’obbligo, dunque il doppio turno è una consuetudine molto diffusa. Mentre sono lì in mezzo alla strada, all'imbrunire, che passeggio circondata da migliaia di giovani, un ragazzino mi dà un piccolo buffetto sui capelli e subito dopo, con la coda dell'occhio, mi accorgo che il piccolo riceve un calcio ben assestato da un anziano. Ogni volta mi dimentico che in Africa i bambini sono figli di tutti: a chiunque è permesso rimproverarli duramente e perfino dargli uno schiaffone. "A scuola per fortuna gli insegnanti più giovani non usano più il bastone" mi spiegano "al massimo umiliano davanti a tutti lo studente indisciplinato". 
A questo proposito, mi raccontano un episodio che ha come protagonisti i membri di una famiglia della diaspora, che ora vivono in Inghilterra. Una volta sono venuti in Eritrea per le vacanze e la figlia tredicenne era depressa, stava sempre col cappuccio calato e non voleva parlare con nessuno (un comportamento che nonni e zii locali non sapevano spiegarsi). I genitori erano disperati: ogni tentativo di aiuto portava la ragazza a chiudersi di più in se stessa e inoltre avevano paura che chiamasse la polizia e li denunciasse. Insomma, per farla breve, dopo due mesi di vacanza è guarita.

Adi Keyh è la base per visitare ciò che resta di Kohaito, importante snodo sulla rotta commerciale che portava dall'antico porto di Adulis ad Axum. I resti dell'insediamento coprono un'area piuttosto vasta situata ad oltre 2.500 metri sul livello del mare, su un affascinante altopiano ai margini della Rift Valley.
Prima di tutto una bella passeggiata sul bordo della vasta gola di Adi Alauti ci conduce a delle pitture rupestri risalenti a migliaia di anni fa, protette da una specie di grotta. Poco distante ci sono le rovine del tempio precristiano di Mariam Wakiro, risalenti al V-VI secolo a. C. In realtà, tranne quattro colonne e altre sporadiche macerie, non c'è praticamente niente da vedere. È ancora quasi tutto da scavare, ma il governo recalcitra perché dimostrare che sono rovine del famoso regno di Axum vorrebbe dire dare un merito all'Etiopia - afferma la guida. Non sono certa di aver capito bene, ma quando chiedo delucidazioni lui diventa una sfinge. Poco dopo mi fa notare che se faccio cadere una pietra si sente il rimbombo del vuoto sotto terra. Il Meqabir Ghibtsi è un sepolcro probabilmente ottomano, conosciuto come "tomba egiziana" a causa delle sue notevoli dimensioni, dentro il quale si può accedere attraverso uno stretto passaggio. L‘ultima tappa è la diga di Saphira, un bacino di forma quadrata per la raccolta dell'acqua, dove una donna sta appunto riempiendo una tanica gialla.

Quando visitai l'Etiopia del Nord, più di dieci anni fa, ciò che mi colpì maggiormente furono gli originali oggetti sacri e le paradossali credenze religiose della chiesa ortodossa etiope. I tamburi, i sistri, gli ombrelli colorati, gli affreschi, i libri antichissimi, ma anche le storie e gli aneddoti relativi al re Salomone, alla Regina di Saba, all'Arca dell'Alleanza. In Eritrea la religione è la stessa, ma è praticata da meno della metà della popolazione. Non credo che ci siano monasteri o chiese scavate nella roccia favolosi come quelli etiopi, né mi è stato riferito alcun miracolo incredibile. Nella chiesa di Enda Mariam di Asmara ho ritrovato i dipinti didattici con i profili dei cattivi che sgozzano o decapitano i santi martiri, ma erano di fattura moderna.
Insomma, l'unica scena religiosa emozionante di questo viaggio ha avuto luogo nella chiesa ortodossa di Adi Keyh. Non saprei dire quali celebrazioni stessero avendo luogo: trattandosi del 25 dicembre di regola non ci dovrebbero essere dubbi, ma il fatto è che qui il Natale lo festeggiano tra il 6 e il 7 gennaio. In ogni caso la chiesa era piena di gente e l'atmosfera molto sacra, peccato che dopo pochissimi minuti qualcuno si è accorto della mia presenza, mi ha chiesto chi cavolo mi avesse fatto entrare e mi ha invitato poco cortesemente ad affrettarmi verso l'uscita.

L'autista del pulmino già da un po' era alla ricerca di un gommista, ma aveva trovato tutte le officine chiuse a causa del giorno festivo. Prima di lasciare Adi Keyh e affrontare le tre ore di viaggio verso Asmara, però, non potendo più rimandare, ha telefonato all’addetto e l'ha fatto venire ad aprire l'attività.
Nell'attesa che si svolgano tutte le fasi del lavoro, socializzo con alcuni bambini molto espansivi. China! China! mi gridano in coro sfregando pollice e indice, e a nulla vale spiegargli che vengo dall'Italia: per loro infatti questa parola ormai ha preso il significato di "straniero". I cinesi sono sempre più numerosi sul territorio (da qualche anno gestiscono le miniere d’oro del sud-est) e hanno questa usanza, sempre sconsigliata dagli abitanti del posto, di dare i soldi ai bambini.
Sistemato il problema agli pneumatici, ci mettiamo sulla via del ritorno. Lungo un tornante, l’apparizione del nostro pulmino spaventa un dromedario, il quale si getta nella boscaglia, scappando dal ragazzino che lo stava pascolando ai margini della strada. "Maledetti China!", ci grida dietro il piccolo, in tigrino.
La divertente scenetta fa venire in mente alla guida una storiella molto popolare tra i bambini eritrei. Un autobus si ferma per far scendere un asino, il quale paga il biglietto e se ne va. L'autobus prosegue e alla fermata successiva scende una gallina, ma senza pagare il biglietto. Infine è il turno di un cane, il quale paga, ma non gli danno il resto. Ecco perché adesso le galline (come il dromedario) scappano appena vedono un automezzo. Gli asini invece, che hanno la coscienza pulita, proseguono pacificamente per la loro strada. E i cani? chiedo io. Lo inseguono per avere il resto.

Eritrei bella gente

Il Medebar Market di Asmara è un ex caravanserraglio dove viene riciclato di tutto: pneumatici, lamiera, lattine, pezzi di ferro, frigoriferi, assi di legno, parti di container. Il recupero e il riuso sono essenziali in questo Paese così isolato ed è per questo che qui, nei laboratori o all'aperto sotto il sole, gli uomini per tutto il giorno martellano, tagliano, dipingono, assemblano, utilizzando utensili e accessori a dir poco artigianali. Tuttavia, nonostante il caldo e le difficili condizioni di lavoro, sono tutti allegri. "Italiani?" mi rivolge la parola un falegname con un sorriso sornione. "Dopo tanto tempo, siete di nuovo qua?" 
Effettivamente siamo di nuovo qua proprio per vedere con i nostri occhi cosa è rimasto della vecchia "colonia primogenita", acquisita dal governo italiano nel 1890 e battezzata con il nome che ha ancora adesso. 

Il colonialismo è una macchia nella coscienza dell'Europa e i libri di storia (in primis quelli di Del Boca) ci hanno insegnato che anche gli italiani non sono stati sempre "brava gente". Furono i nostri antenati a creare, molto prima del Fascismo, uno dei primi esperimenti di apartheid della storia, quando trasformarono la parte centrale di Asmara in un campo recintato riservato soltanto agli italiani: i "sudditi coloniali" furono spinti fuori e vi potevano accedere solo se in possesso di un lasciapassare. La segregazione vigeva anche negli spazi urbani, nei bar e ristoranti, negli autobus e perfino a scuola, dove l’amministrazione italiana cercò di limitare l’accesso all’istruzione degli eritrei alla quarta elementare. "L'unico posto dove non c'era questo era il mercato, dove si incontravano tutti: italiani, greci, eritrei eccetera" mi ha detto Phil, un antropologo che ho conosciuto al Museo nazionale. Inoltre i coloni italiani si distinsero per altri comportamenti eccepibili: nazionalizzarono le terre portate via ai contadini, mandarono un cospicuo numero di eritrei a combattere e morire sotto il tricolore e infine, considerando che i nomi di alcune particolari torture sono ancora oggi in italiano, si può facilmente immaginare cosa avveniva nelle carceri. Esposti nel Museo nazionale ci sono degli enormi scarponi di ferro, pesantissimi, utilizzati in epoca coloniale nel famigerato campo di concentramento italiano di Nocra, un'isola del mar Rosso: con queste calzature addosso, impossibili da togliere, se i prigionieri avessero provato a scappare sarebbero affogati.

Nonostante tutto ciò, a giudicare dal caloroso benvenuto che abbiamo ricevuto ovunque, il mito degli "italiani brava gente" sembrerebbe fare ancora una certa presa sul cuore eritreo. "L'Italia è nostra madre" mi ha detto, addirittura, un quarantacinquenne che lavora nell'azienda tessile Dolce Vita Eritrea, filiale del bergamasco Gruppo Zambaiti. "Gli italiani hanno fatto palazzi, strade, ferrovie... e anche i cervelli! Abbiamo la stessa voglia di fare festa, lo stesso amore per la famiglia..." Concetti simili hanno espresso molti degli eritrei che ho incontrato, alcuni dei quali ci tenevano a parlare male degli inglesi che, dopo aver sconfitto l'Italia, come bottino di guerra hanno smantellato il sistema industriale e rubato o distrutto ciò che era rimasto della vecchia colonia. 

La più grande sorpresa di questo viaggio sono stati appunto gli eritrei, "la popolazione più simpatica del mondo". Fu Pasolini a definirli così quando, alla fine degli anni Sessanta, nel corno d'Africa effettuò i sopralluoghi per il film "Il fiore delle Mille e una notte". Degli eritrei diceva che "sorridono subito", sono amichevoli, spiritosi e virili, "senza né troppa dolcezza né eccessivo servilismo"; ne apprezzava naturalmente la bellezza (corpi asciutti, "teste di statue", lineamenti perfetti, occhi che brillano "di una luce stupenda e senza profondità"), ma soprattutto la "grazia", che consisteva "soprattutto in un ingenuo e quasi gioioso distacco dalle cose". Pasolini rimase così folgorato dagli eritrei che scelse tra loro molti attori del suddetto film – tra l'altro li fece doppiare in salentino, creando un effetto piuttosto grottesco –, ma dopo averci lavorato ci tenne a ridimensionare il suo entusiasmo perché alcuni di loro erano diventati invadenti e rompiscatole. 

Costi quel che costi

La strada statale che collega Asmara a Massaua in poco più di cento chilometri precipita dai 2400 metri dell’altopiano fino al livello del mare e con i suoi tornanti e dirupi è molto panoramica. Parallela ad essa scorre la ferrovia, una "stupefacente prodezza" oggi inattiva se non per un breve tratto rivitalizzato a fini turistici (non sempre funzionante). Anch'essa costruita dagli italiani, fu definita "ottava meraviglia del mondo" dai giornali dell’epoca: i numerosi ponti, viadotti e gallerie ancora in buono stato meritano alcune soste. Per pochi anni sulla stessa tratta era operante anche una funivia (la più lunga del mondo), poi smantellata dagli inglesi come la ferrovia stessa. Percorriamo questo itinerario a bordo del pulmino più piccolo tra tutti quelli che ci sono stati assegnati in questi giorni, proprio ora che siamo carichi non solo dei bagagli, ma anche delle provviste che ci serviranno per il soggiorno alle isole Dahlak.

Lungo la strada attraversiamo il ponte sul fiume Dessèt con inciso il motto della Brigata Aosta "custa lon ca custa" (costi quel che costi, in torinese), che si riferisce all'acquisto della baia di Assab. A poca distanza, su un colle circondato dalle tipiche montagne piatte dette ambe, sorge il monumento che commemora le centinaia di "italiani qui valorosamente caduti" nella battaglia di Dogali, che ebbe luogo il 26 gennaio 1887: sul basamento della colonna un epitaffio onora i soldati "dalla insidia circuíti e dal numero sopraffatti delle orde nemiche". 
Nonostante quella sconfitta, l’Italia continuò la sua espansione verso l'entroterra, finché nel 1896 si verificò una delle peggiori disfatte italiane nel Corno d'Africa (un evento ancora oggi festeggiato in Etiopia), che determinò un brusco stop della politica espansionistica. Il Sacrario di Adua si trova nella periferia di Adi Quala e lo avevamo visitato qualche giorno prima, percorrendo a piedi una strada in salita insieme agli abitanti dei villaggi che si recavano al mercato cittadino carichi di mercanzia. Anch'esso infatti è situato su una collina, dove la vista spazia lontano sul territorio etiope, distante pochi chilometri. "O Italia per te ridenti gittammo l'anima al fato nero", sta scritto su un obelisco ornato di croci e fasci littori.

La città apocalittica

Massaua fu occupata dagli italiani, con il beneplacito della Gran Bretagna, dopo Assab e divenne per un breve periodo la capitale del possedimento d'oltremare. La città è costituita da due isolette collegate alla terraferma da dighe: la prima si chiama Taulud e ospita il Memoriale per le vittime della battaglia di Massaua, costituito da alcuni carri armati strappati all'esercito etiope, e il Grand hotel Dahlak, dove alloggiamo per una notte a prezzi non proprio popolari. Di proprietà di un italiano settantenne, apparentemente è una struttura abbastanza lussuosa, con una grandissima hall in stile coloniale che crea grandi aspettative, ma poi sempre più dettagli raccontano una storia di decadenza: la piscina è vuota, le stanze necessiterebbero di importanti restauri, l'acqua va e viene. Sulla stessa isola sorge il palazzo imperiale di Hailé Selassié, costruito alla fine dell'Ottocento quando il controllo della costa – dopo circa due secoli – fu ceduto dagli Ottomani all'Egitto: inizialmente infatti fungeva da sede del governatore Werner Munzinger, un avventuriero svizzero a capo del principato egiziano. Oggi è poco più di un rudere, ma non abbastanza malridotto da nascondere la magnificenza orientale di un tempo.

Sulla seconda isola sorgono il porto (il più importante dell'Eritrea) e la città vecchia, una "piccola città apocalittica, di struttura completamente araba". Pasolini la definì “una cosa stupenda": "il centro affastellato e stretto, con le sue casucce coi portici, azzurrine, gialline, insomma intonacate di quei tristi colori di biancheria sporca che danno all'europeo sensuale e avventuroso, senza mezzi termini, l'ebbrezza dell'esotico realistico". Oggi dà l’impressione di essere stata appena bombardata, e invece alcuni edifici sono in macerie da più di trent'anni: Massaua infatti fu teatro di pesanti scontri, con molte vittime e gravi danni, durante la guerra d'indipendenza, e ancora oggi ben poco è stato ristrutturato. Alla fine degli anni Sessanta la città non aveva ancora subito i bombardamenti etiopi, ma forse mostrava ancora qualche eredità del terribile terremoto che l'aveva devastata nel 1921. Chi lo sa. In ogni caso, nel primo pomeriggio si percepisce la "soffocante aria corruttrice dell'apocalisse tropicale" di cui parlava il poeta: il sole è cocente perfino a dicembre e le vie sono deserte.
Nella vecchia Massaua dovrebbe esserci la moschea più antica fuori dal territorio dell'Arabia, costruita già nel VII secolo dai primi seguaci del profeta Maometto, scappati dalle persecuzioni dei musulmani che impazzavano alla Mecca. In realtà senza una guida non è facile identificarla tra le macerie e gli edifici diroccati, anche perché di moschee ce ne sono diverse. L'edificio più appariscente e simbolico è comunque la vecchia banca d'Italia, o meglio ciò che resta di essa.

Mentre vagabondiamo senza meta, apprezzando le temperature via via più clementi, veniamo invitati a una festa di battesimo. Ci fanno accomodare sulle sedie di plastica all'aperto insieme ad amici e parenti, ci viene offerta l'injera da mangiare con le mani e un idromele piuttosto selvatico; il viso della bambina battezzata campeggia nelle foto plastificate appese tra i festoni (la faccia è duplicata, infatti inizialmente avevo capito che si festeggiassero due gemelle). L'invitato Mikele all'epoca della guerra d'indipendenza era un giovane soldato, come si vede nella foto che ci mostra sul cellulare, dove comprare insieme ai suoi commilitoni imbracciando un fucile. Mikele lavora come giardiniere nel nostro hotel, ma quando lo incontro il giorno dopo non ricorda nulla del nostro incontro, durante il quale – va detto – era piuttosto su di giri.
Ceniamo ai tavolini di plastica di uno dei ristorantini lungo la costa, con piatti di pesce e musica americana. A seguire, una delle esperienze più memorabili del viaggio: la passeggiata notturna tra i vicoli di questa città fantasma, completamente bui se non fosse per una serie di "bar cattivi" e "disperati night clubs", adornati di lucine e dotati di grandi altoparlanti da cui proviene musica ritmata ad alto volume. Così li aveva definiti Pasolini il quale, anche lui, rimase folgorato dalla Massaua by night, quando all’epoca i marinai scesi dalle navi ballavano sotto i portici con le "donne di vita eritree", "bellissime e infantili", ma non brave a ballare quanto le altre donne africane.

L'isola che non c'è niente

Alle nove del mattino siamo tutti pronti sul piccolo molo ad aspettare la barca che ci condurrà nel paradiso incontaminato delle isole Dahlak. Tuttavia, in perfetto "african style", per circa quattro ore nulla accade, il tempo passa e il nostro entusiasmo iniziale scema gradualmente. Finalmente arriva l'imbarcazione insieme ai tre marinai della Dancalia che costituiscono il nostro equipaggio, i quali di primo acchito ci sembrano un po' recalcitranti, ma poi si riveleranno affabili e collaborativi. Caricata tutta la mercanzia a bordo e azionati i motori, bisogna consegnare i permessi ad un addetto che dovrebbe stazionare in un ufficetto presso il faro, ma che bisogna naturalmente andare a chiamare perché si è allontanato. Una volta lasciato il porto, non si vede altro che il vasto, monotono mare (solo per un attimo, in lontananza, qualche delfino). Circa un'ora e mezza dopo avvistiamo una striscia di terra e poco dopo realizziamo che questa isola piattissima di nome Dahret sarà il posto dove trascorreremo quasi quattro giorni.

Scaricate tutte le nostre cose, mi tuffo subito ad esplorare i fondali a pochi metri dalla costa. La giornata è splendida, ma abbiamo poco tempo prima che il sole, e di conseguenza le temperature, comincino a calare. Non c'è fretta, ci aspettano altri tre giorni pieni – mi dico. E invece la sera si alza un forte vento, piove anche un po', e tutto il giorno dopo restiamo bloccati come naufraghi sotto una poco allegra coltre di nubi. Il mare è agitato, il periplo dell'isola a piedi dura appena una mezz'ora e comunque non c'è nulla, non dico le palme (che qua non è zona), ma nemmeno un albero, solo arbusti bassi. L'avifauna non è niente di speciale e anche le albe e i tramonti non sono propriamente mozzafiato. La delusione ci si dipinge in volto. Chi non si è portato niente da leggere riguarda foto salvate sul telefono, o addirittura vecchie chat di whatsapp. I più sportivi percorrono l'isola in lungo e in largo diverse decine di volte. Un partecipante a un certo punto ha comunicato che voleva tornare non solo sulla terraferma, ma addirittura in Italia.
Alle sette e mezza di solito abbiamo già finito di cenare, compreso il 31 dicembre, quando abbiamo sintonizzato l'ora del capodanno sul fuso orario di Dacca, tanto nessuno avrebbe potuto contattarci per farci gli auguri.

Quando finalmente le condizioni meteo ci consentono di salire in barca, ci allontaniamo prudentemente in mare aperto per lo snorkeling, che trovo abbastanza piacevole ma non il migliore della mia vita: il fondale non sempre è limpido; oltre ai pesci colorati ci sono anche grosse tartarughe, ma non sono facili da avvistare. Sembra che le temperature molto elevate dell'acqua stiano rovinando irrimediabilmente la barriera corallina. A un certo punto vedo un grande pescecane che sonnecchia seminascosto dagli scogli e me la do a gambe, ma il marinaio non ritiene che sia un pericolo.
L'arcipelago è formato da alcune centinaia di isole, ma la maggior parte sono lontanissime: in pochi giorni al massimo se ne possono visitare due o tre. Nel nostro caso, l’ultimo giorno raggiungiamo Dul Baut, che comunque non è molto diversa dall'isola su cui dormiamo, e Dohul, una delle poche abitate. Allo sbarco sulla battigia ci accoglie un gruppetto di donne e bambini che si disperde dopo poco. Anche quest’isola è completamente piatta, il suolo è pieno di conchiglie, il cielo come sempre nuvoloso. Poiché perdiamo la maggior parte del tempo per andare a vedere una piccola batteria di cannoni italiani arrugginiti, abbandonati lì da decenni, ce ne rimane molto poco per visitare uno dei due villaggetti dell’isola, abitati da popolazioni islamiche che vivono in baracche in legno e lamiera circondate da reti da pesca.

Sembrava ormai certo che l'unico pesce che avremmo mangiato alle isole Dahlak era il tonno in scatola, di cui possedevamo abbondanti scorte, e questa sarebbe stata una inaccettabile beffa. Dunque, mentre eravamo di ritorno dall’ultimissima escursione in barca, ormai a poche decine di metri dalla riva, ho insistito con il pescatore Afar affinché facesse almeno un altro tentativo di pesca con la lenza. Il primo pesce che ha abboccato misurava solo una trentina di centimetri di lunghezza, ma nonostante ciò ha generato un enorme entusiasmo tra i partecipanti presenti sulla barca. Il secondo invece era un gobbo bello grosso, che poi è stato immediatamente pulito e cucinato per cena.
Il giorno della partenza dobbiamo smontare l’accampamento e caricare sulla barca i bagagli e le provviste avanzate, tra cui decine di bottiglie di acqua Gulfa ancora intonse. I tre litri d’acqua al giorno a testa previsti erano effettivamente eccessivi (non era troppo afoso e abbiamo bevuto molto tè), ma non posso non menzionare il sapore scandaloso di quest’acqua made in Dubai. La prima volta che l’ho bevuta, ho pensato che qualcuno l’avesse usata per lavarsi i denti. Poi ho realizzato che le bottiglie di acqua Gulfa attraversano il mar Arabico in un container, a temperature elevatissime, insieme a vari prodotti che le donano quel gusto inconfondibile (a parte il dentifricio, c’è anche la variante all’essenza di sapone o al gusto detersivo.) Non sono tutte così le acque, ad esempio sono potabili le acque etiopi e sudanesi (e anche la rara Shamlan, yemenita), che non devono percorrere tanta strada per arrivare. Ma tutte sono carissime: un litro e mezzo costa minimo due euro. 

Prima di riprendere la statale e tornare alla capitale, dietro lauto compenso andiamo nella periferia di Massaua a trovare una famiglia di etnia Rashaida, una minoranza nomade di religione islamica, originaria della penisola arabica. Ci guida all’accampamento una donna velata carica di borse della spesa, con cui abbiamo preso appuntamento in città. Il capofamiglia è suo genero, un ventisettenne che indossa una jellaba bianca, mentre sua moglie e la suocera usano il velo integrale. Ci accomodiamo sui tappeti colorati all’interno della loro tenda insieme ad alcuni bambini e a sporadiche caprette e ci viene offerto un ottimo caffè accompagnato, come d'abitudine, da popcorn. I Rashaida si sposano solo tra loro e sono estremamente tradizionalisti, tuttavia mostrano grande disponibilità a farsi fotografare (a quel prezzo, lo avrei fatto anch’io).
Sulla strada del ritorno entriamo dentro una grossa nuvola, dalla quale spuntano qua e là pezzi di case e campanili, alberi e cime di montagne, in un'atmosfera fiabesca. "Questo è il Medio Piano, che in gennaio praticamente non si vede, - confermava Pasolini - perché si riempie di nuvole, così che pare di essere in mezzo a un triste e catastrofico nebbione europeo."

La piccola Roma

Asmara fu occupata dall'Italia dopo Assab e Massaua e nel 1897, per via del suo clima favorevole, fu scelta come nuova capitale. Oltre 50 anni di presenza coloniale hanno lasciato tracce indelebili sul territorio e sugli stili di vita eritrei, e anche i coloni, quando si sono dedicati alla modernizzazione di Asmara, ci hanno tenuto a riprodurre in terra africana l'ambiente più italiano possibile. Per questo ancora oggi la città ci appare così familiare, con le insegne in italiano (Bar Zilli, Farmacia centrale, Dentista), i barbieri, i gelatai, l'ufficio postale, le vecchie FIAT, i campanili, i capannoni industriali abbandonati, le scritte sui tombini (Acquedotto di Asmara - Fonderia Montini - Brescia). Asmara è "un esempio eccezionale di primo modernismo urbano dell'inizio del ventesimo secolo e della sua applicazione in un contesto africano" (come si legge nella dichiarazione dell'UNESCO), dove troviamo un incredibile numero di opere architettoniche di pregio. "Quando gli italiani sono arrivati hanno avuto una grandissima libertà di costruire. Mentre in Italia c'erano dei vincoli alla realizzazione di opere e palazzi, qui avevano come un foglio bianco su cui potevano sbizzarrirsi", mi ha detto Phil, l'antropologo sagace del Museo nazionale. 

Fra i primi edifici realizzati si annoverano la cattedrale in stile romanico lombardo e il teatro dell'Opera, che come tale non viene più usato da anni, mentre il suo foyer è oggi un frequentato bar affacciato sulla centralissima Harnet Avenue (il vecchio Corso Mussolini). La maggior parte delle opere architettoniche iconiche di Asmara furono però realizzate dopo la conquista dell'Etiopia: la ex stazione di servizio Fiat Tagliero, un edificio in stile futurista a forma di aeroplano dotato di due specie di ali in cemento non sostenute da niente, su cui si può camminare; il Cinema Roma, oggi più che altro usato come bar, mentre nella sala cinematografica proiettano le partite di calcio; la Casa del Fascio (ora municipio) in stile littorio, con i "fasci" che fino al 1941 decoravano la torre; il Cinema Impero, considerato uno degli esempi più emblematici in stile art déco. Inoltre in città sono presenti diverse ville in stile "coloniale italiano", alcune di esse attualmente sedi di ambasciate o residenze di diplomatici. 

Nel cimitero italiano di Asmara riposano numerosi soldati caduti eroicamente nell'adempimento del dovere, tra cui un "tenente prode e leale, padre integerrimo e camerata cordiale", una "medaglia d'oro con 17 vittorie aeree che raggiunse nel cielo degli eroi il padre caduto sul Carso", un "combattente nella grande guerra in Tripolitana e per la conquista dell'impero ferito e decorato", un "caduto sulla via del dovere all'alba dell'era coloniale nostra". Ma ci sono soprattutto civili, chi sepolto in una cappella di famiglia chi in una tomba singola come questa su cui è realizzato un tronco d'albero spezzato in due da un fulmine. Troviamo qui i resti dell'uomo che "visse nell'onestà e nella modestia null'altro desiderando che l'adempimento della rettitudine", di quello che "in questa terra a lui tanto cara dedicò per la grandezza della patria studi profondi", di colui il quale "nella maliosa terra d'Affrica venne con i primi vessilli d'Italia", dell'italiano che diede all'Eritrea "l'audacia nella guerra e nella pace il lavoro fecondo", del defunto che è "•ato in Firenze e •orto in Asmara" perché alcune lettere si sono staccate. 
Nella "piccola Roma" si trovano facilmente anche gli archivi del "Corriere Eritreo" degli anni della colonia, dove avrei trascorso giorni interi a leggere le notizie della storia e soprattutto la piccola cronaca quotidiana di un tempo che fu (che fu anche nostro). Questo piccolo tesoro è presente ad esempio nell'albergo Italia (gioiello dell'architettura italiana ed elegante set per foto nuziali) e presso l'istituto di cultura Casa degli italiani (dove hanno finalmente riavviato i corsi di lingua).

Il viaggio nel tempo è reso più verosimile dai molti anacronismi dell'Eritrea odierna: poiché bancomat e carte di credito non funzionano, si paga in contanti con banconote lacere; nel famoso bowling di Asmara i birilli abbattuti vengono riposizionati manualmente, i punti si scrivono su un foglio di carta, i giovani giocano alla Playstation e i più anziani giocano a boccette o a stecca; e soprattutto dovunque, sensazione ben strana, ben pochi stanno con il cellulare in mano.   
Ritroviamo la nostra amata Italia non solo nella retorica antica e negli edifici d'epoca, ma anche nella lingua. Nei bar la gente beve deliziosi makiati e cappuccini, nei ristoranti si mangiano la pizza e la pasta, ma l'italiano ha regalato molte altre parole al tigrino: finestra, porta, tavola, martello, cemento, municipio, biro, forchetta – ma non cucchiaio, che si dice "manca" (anch'essa in realtà è una parola italiana: secondo una storiella che mi è stata raccontata cominciarono ad usarla quando una governante indigena fraintese le parole del suo datore di lavoro italiano, il quale non voleva insegnarle come si dicesse cucchiaio, bensì voleva dirle che quella posata, appunto, mancava). Fino a tre anni fa c'era ad Asmara una prestigiosa scuola italiana, ma il governo eritreo l'ha chiusa insieme a tutti gli istituti privati e stranieri, creando indignazione sia nel nostro Paese sia tra le migliaia di studenti eritrei, anche giovanissimi, che la frequentavano. 

In un "cocktail lounge" molto frequentato durante il week-end ho conosciuto due ragazze ventenni che hanno imparato la nostra lingua alla scuola italiana, mentre adesso studiano arti e scienze sociali al College che avevamo visto ad Adi Keyh. Quando ho chiesto ad un avventore molto socievole come mai le ragazze che vedevo nel locale – a differenza dei maschi – fossero così giovani, mi ha detto che i ragazzi stanno tutti al militare, mentre le donne un po' più grandi non escono perché stanno a casa con i figli. Lui – ci ha tenuto a dire, cercando di abbracciarmi – non è così conservatore, infatti sua moglie lavora e certe sere anche lei esce con le amiche. Questo è l'unico posto dell'Eritrea dove ho visto fumare le sigarette elettroniche, che pensavo non esistessero proprio (l'autista che mi ha accompagnato all'aeroporto poi mi ha detto con aria di sufficienza che questo bar lui non lo frequenta perché ci vanno solo i figli di papà). Infine qui ho conosciuto un ragazzo di 27 anni, non ancora sposato, il cui più grande sogno è viaggiare per il mondo; in particolare ci terrebbe a visitare il Colosseo, perché vuole capire come è possibile che le persone morivano per far divertire gli altri. Quando gli ho sussurrato con tono vagamente interrogativo che ora non è un'opzione quella di viaggiare, ha ribattuto: “No, però... Inshallah! I governi non durano per sempre”.

Gallerie fotografiche

Asmara:

Debedar market di Asmara:

Cheren:

Adi Keyh e dintorni:

Adi Qala e Mendefera:

Da Asmara a Massaua:

Massaua e isole Dahlak: