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UN'OMELETTE NELL'OCEANO INDIANO

Viaggio in Madagascar

Il Madagascar è un Paese ricco di meravigliose specie vegetali e animali uniche, ma con un reddito pro capite tra i più bassi al mondo; è diviso in diciotto etnie, ognuna con i suoi tabù e i suoi riti religiosi. Il Madagascar, se lo gratti, ti accorgi che è stato costruito su un enorme campo da tennis di terra battuta.
Il Madagascar, nell'estate del 2007, indossava in massa la maglietta del Presidente Marc Ravalomanana, magnate dello yogurt, il cui bel faccione sorrideva sopra i seni delle donne che ricamavano tovaglie, e si sforzava di crescere schierando cinquanta persone con la pettorina gialla fosforescente a riparare un pezzo di strada di duecento metri, dotandole di un'unica zappetta e di un martello che passava di mano in mano.

PECUNIA (NON) OLET

Una volta scrissi che il Madagascar è come una omelette mal rivoltata nell'Oceano Indiano, al largo della costa orientale dell'Africa, dalla quale è stata strappata milioni di anni fa. Come tutte le buone omelette, ben rivoltate o meno, l'isola è piena di cose ghiotte.
(Gerald Durrell, "Io e i lemuri")

Nel 2003 l'Ariary ha sostituito il Franco Malgascio, che non è un cantante confidenziale degli anni '70 dotato di basettoni e camicia sbottonata sul petto villoso, bensì la vecchia moneta del Madagascar. Sulle banconote dell'Ariary sono stampate le seguenti immagini: due lemuri di specie diverse aggrappati a un ramo, esemplari vegetali tipici come la palma ravenala, il baobab, il cactus e l'agave, zebù accompagnati da pastore con cappello tondo e coperta sulle spalle, donne che intrecciano cesti e cappelli di rafia, totem di legno infilzati nel terreno, villaggio degli altipiani con capanne di paglia, baie di Fort Dauphin e di Antsiranana, piroga con vela triangolare raffazzonata e pescatori al lavoro al sorgere del sole.
Poi, incredibilmente, sulla banconota da 10.000, un cantiere con una ruspa, una gru e degli omini impegnati in lavori stradali: gli operai sono tre silhouette nere sullo sfondo giallo di un sole stilizzato e scintillante e solo il primo dei tre è dotato di una preziosa vanga bianca. Su ogni banconota, indipendentemente dal taglio, è piazzato il disegno miniaturizzato di questa orma di piede sinistro che è il Madagascar.
Cosa mi aspettava, dunque, lo avevo visualizzato in anteprima una volta cambiati i soldi a Tanà, come viene chiamata amichevolmente la capitale Antananarivo in questo Paese dai toponimi e nomi propri infiniti e impronunciabili. Poiché la banconota di maggior taglio è quella da 10.000 Ariary, che equivalgono oggi a circa 4 euro, serve un portafogli ben grande per un vazaha (in gergo, straniero di pelle bianca) che intenda visitare il Madagascar. E i malgasci lo sanno. Questo giusto per chiarire l'impronta che accomuna virtualmente ogni tipo di relazione umana che si può intrecciare sulla quarta isola più grande del mondo. E tralascio il colore e l'odore dei soldi di carta malgasci, perché è meglio non riflettere sulla certezza assoluta dei posti in cui sono transitati prima di giungere nelle mani bianche e morbide dei vazaha.

LA ROUTE NATIONALE N° 7

Vedendo che Clerici guardava il planisfero, Adriano disse che solo sulle mappe l'isola appariva vicina all'Africa poiché dal suo punto di vista l'isola era in tutto e per tutto un piccolo continente a sé stante. «Qui» disse «non siamo in Africa, non siamo in Asia e non siamo da nessun'altra parte».
(Enrico Brizzi, "Razorama")

Nella patria della biodiversità bisogna obbligatoriamente visitare riserve e parchi naturali per poter ammirare quel che di protetto resta in un Paese dove il disboscamento è la pratica comune, dove cioè è abitudine consolidata bruciare foreste per ricavare nuovi terreni da coltivare o su cui far pascolare le bestie (così tutto scorre, la terra verso i laghi, che sono rossi come ciotole di sugo, e verso i fiumi, simili a colate laviche annacquate). A questo fine procediamo da Tanà a Tuleàr percorrendo la Route Nationale n° 7, una delle tre strade asfaltate di tutta l'isola. E non ci si immagini un'autostrada, poiché non è altro che una doppia corsia in alcuni tratti talmente stretta che due grossi camion quasi si sfiorano, anche se tutto questo gran traffico a dire il vero non ci sta, poiché la benzina costa un euro al litro e lo stipendio medio mensile di un malgascio non supera i 25 euro.
Lasciata la capitale, la strada si snoda tra mattoni d'argilla impilati a seccare e vestiti stesi sull'erba ad asciugare dopo essere stati strofinati vigorosamente in canali e pozze d'acqua. Nel mese di luglio, finita la raccolta del riso, ci si può imbattere in una delle cerimonie più rivoltanti delle popolazioni che abitano qui sugli altipiani centrali: la riesumazione dei cadaveri, o Famadihana. Più del matrimonio, più del funerale, è questa la festa più importante per un'etnia che considera i morti entità da ingraziarsi in quanto tramite tra i viventi e Dio. Così un certo tempo dopo la morte riaprono il sudario, scarnificano e puliscono eventualmente le ossa, le coccolano e ci parlano come se fossero ancora attaccate a un corpo vivo, spesso gli fanno fare un giretto per informarli sulle novità, e poi le mettono in un lamba nuovo e le seppelliscono di nuovo. Intanto festeggiano anche per una settimana — avendoci i soldi, visto che è consuetudine offrire carne a volontà e rum, ballare e divertirsi. Ed è ciò che stanno facendo questi uomini, donne e soprattutto bambini e ragazzini nello spiazzo davanti a questa casa al lato della strada, dove ci invitano a ballare e ci mostrano la stanza al piano terra (che è piena di nauseabondi pezzi di carne pronti per essere cucinati), felici perché domani andranno a vedere come stanno messe le ossa dei loro cari.
Per la notte ci fermiamo ad Antsirabe, dove si produce la birra Three horses e si lavorano le pietre preziose, in un orrendo hotel gestito da cinesi, dotato di labirintici corridoi che conducono alle stanze site in un agglomerato che comprende un night e un casinò. A causa delle sue acque termali la città è considerata la Vichy malgascia (adesso, in verità, un po' in decadenza) ed è la capitale dei pousse-pousse, come qui chiamano i coloratissimi risciò condotti da atletici uomini scalzi.

AL MERCATO DI AMBOSITRA

La strada si snoda poi tra risaie terrazzate in cui si specchiano le nuvole bianche e gonfie che sembra di stare in Indonesia, e passa per Ambositra, dove c'è il mercato. I malgasci e le malgasce ci vanno a piedi e, in base a dove abitano, si fanno anche 15 o 20 chilometri con in testa sacchi di riso, ceste, secchi, borse colorate pesanti di pomodori, insalata, verdura, frutta, legna, stoppie o involti misteriosi in buste di plastica sovrapposti, com'è loro costume. Anche qui sfilate di risciò colorati sui quali gli sfaccendati conducenti schiacciano un pisolino riparati dal sole sotto enormi poinsezie, che poi non sono altro che le stelle di Natale, ma di dimensioni paurose.

Luca, dodicenne che ha imparato l'italiano nella vicina missione, accompagna i turisti alla scoperta di questa città specializzata nell'artigianato del legno. Ci mostra dove fanno il rodeo degli zebù e il resto e poi vuole che gli compriamo il pallone e vorrebbe anche le scarpe per quando tornerà a scuola a settembre, che ha solo questo paio di infradito rovinate (e comunque è già fortunato perché la maggior parte della gente qua le scarpe non le tiene proprio). A dire il vero Luca è solo il nom de plume del giovanotto, che in realtà risponde al nome di Andriamampiomina Ando Nirina Louis, anzi non so se fa in tempo a rispondere o se nel frattempo è già scappato via, e non so nemmeno se esistono cartoline abbastanza grandi affinché qualcuno possa scrivergli davvero, come lui pretenderebbe. Ci sono anche due cinema, in uno danno "Terminator" con Arnold Schwarze, come è scritto sulla lavagna col gesso bianco, e poi c'è un film di karate. Che poi non è che sono cinema, sono baracche di legno e da fuori si sente l'audio dei film e tutti si accalcano sulla porta dietro la tendina.
Fabio è un italiano che gestisce un atelier di tessuti specializzato nella lavorazione di una raffinata seta selvatica ottenuta dai bachi della tapìa, un albero con il tronco spesso e robusto simile a quello dell'ulivo. Poiché questo legno non prende fuoco facilmente, quella di tapìa è una delle pochissime foreste originarie ancora esistenti in questo paese con la fissa degli incendi. Fabio organizza eventi e festival musicali e insomma si dà da fare per portare un po' di sviluppo: «Sai, nelle zone più povere degli altipiani esiste ancora il fenomeno del brigantaggio, anche perché rubare gli zebù è molto cool, fai il tuo bel figurone con le donne.»

MI PIACE SE TI MUOVI

E se muovete la coda siate sempre intriganti!
(Re Julian, "Madagascar")

Il Parco Nazionale di Ranomafana è una foresta pluviale di circa 40mila ettari, intricata e pelosa, dove regna la solidarietà tra le varie specie che vivono in simbiosi o in rapporti di parassitaggio. Ci sono enormi orchidee e bambù giganteschi, piante medicinali e carnivore, felci ataviche e palme ravenala che si aprono a ventaglio — soprannominate palme del viaggiatore perché ripiene d'acqua con cui, teoricamente, il viandante assetato può abbeverarsi. C'è una cascata e pietre viscide o ponticelli di fortuna per attraversare i piccoli corsi d’acqua che vanno a gettarsi nelle acque spumeggianti del fiume Namorona, ma soprattutto questo è il regno di diverse specie di lemuri, queste buffe proscimmie che si possono vedere soltanto in Madagascar e che noi avremo modo di scorgere qui, se avremo pazienza.
Al calar delle tenebre è possibile avvistare il fossa, l'unico predatore dell'isola, una specie di zibetto che fa capolino nella radura ed è la star indiscussa fino all'apparire del microcebus rufus, un lemure piccolissimo ghiotto di banane. Il mitico aye-aye dal dito medio sproporzionato è invece impossibile vederlo e tanto vale mettersi l'anima in pace.
Di giorno invece si intravedono  tra i rami i sifaka della specie edwardsi (lemuri orsacchiosi che dormono abbracciati), l'apalemure dorato (una rarissima specie crepuscolare che mangia il bambù) e i lemuri a naso largo (che hanno il collare perché sono studiati da due ricercatori che stanno là con dei giubbotti arancioni e taccuini da ricercatore). Dentro un tronco, staziona incorniciato da un buco il lepilemur microdon, che è praticamente quel pupazzo Furby ed è buffissimo e dolcissimo con il suo unico dentone; non a caso nel film d'animazione "Madagascar" lo fanno scoppiare a piangere come un bambino piccolo quando, sfuggito ai fossa che se lo vogliono mangiare in insalata, si trova faccia a faccia con il leone Alex, che è un animale che loro sull'isola non conoscono affatto e ci credo che possa far paura.
A Fianàr, il secondo centro del Paese per estensione, la temperatura è scesa di brutto e gli abitanti Betsileo camminano scalzi, ma ben avvolti in queste pesanti coperte a scacchi. L'hotel qui è così orrendo che soppianta quello di Antsirabe: è una mastodontica costruzione a pagoda con ideogrammi e dragoni e una piscina col fondale dipinto a fiori orientali stilizzati. La sua architettura kitsch ha colpito molto anche lo scrittore ex giovane Enrico Brizzi che lo cita nel suo romanzo "Razorama", anche se gli cambia nome chiamandolo non so perché Sebastopòl invece di Soafia che è il nome vero.

MISSIONE COMPIUTA

Lungo le strade una teoria infinita di bancarelle dove vendono minuscole piramidi di quattro pomodori, otto patate, una manciata di noccioline, sette arance, dieci verzine microscopiche, cinque patate dolci, che  scorrono davanti al finestrino mentre l'autista cerca di condurci alla missione di Padre Maurice, che purtroppo adesso è andato a Tanà per una commissione, ma possiamo comunque parlare con i suoi collaboratori. In effetti questa missione non riusciamo a trovarla, nonostante la consulenza (non richiesta, a dirla tutta) di un forte bevitore endemico del luogo che insiste per salire sull'autobus.
Davanti al Villaggio "Ambalakilonga", una comunità gestita dalla fondazione Exodus, un abruzzese ex-tossico simpatico monta su al posto dell'alcolista logorroico e ci porta all'orfanotrofio gestito dalle suore nazarene di Torino. Ci spupazziamo questi dolcissimi meravigliosi cicciobelli negri, che sono per la maggior parte figli di ragazze madri morte di parto, o provenienti da famiglie troppo povere o numerose o problematiche per mantenerli. Sono fin troppo bravi considerando il fatto che, se a noi da bambini ci terrorizzavano con la storia dell'uomo nero che arriva e ci mangia, per simmetria il loro arcinemico dovrebbe essere l'uomo bianco (e questo non so se abbia, e fino a che punto, implicazioni anticolonialiste).
Il momento commozione e pelle d'oca si svolge in questi termini: Donatella scopre che la suora che ha avuto in cura pochi giorni prima, nell'ospedale di Cuneo dove lavora, è amica intima della suora che è lì ad accudire i pupi e le può così comunicare che l'operazione è andata a buon fine, senza che costei debba aspettare un mese per la risposta epistolare. La suora può approfittare di Donatella per consegnare direttamente a mano la lettera che era già pronta ed imbustata per la suora amica degente in quell'ospedale di Cuneo. La vita è fatta di coincidenze incredibili.
La madre superiora ci spiega che questi bambini e ragazzini vanno tutti a scuola, così hanno la possibilità di svolgere un lavoro dignitoso e avere un futuro migliore, e ciò può essere realizzato grazie alle donazioni e ai finanziamenti. Allora facciamo una colletta e in quel momento arriva un sedicente collaboratore dell'ineffabile padre Maurice.

SPECIE ENDEMICHE

Ad Ambalavao il mercoledì è il giorno del mercato settimanale degli zebù, le cui mandrie affollano le strade e la terra rossa punteggiata da vigneti, à côté. Si fanno una lunga lunga strada queste bestie dalle corna a mezzaluna e una volta arrivate devono subire l'umiliazione di passare sotto l'apposita commissione di valutazione prima di essere venduti.
In questo spiazzo immenso di terra battuta, centinaia di bambini cenciosi ci si fanno incontro: come in tutti i miseri villaggi e le bidonville sovraffollate della Terra indossano ex vestiti ridotti a brandelli e resi indistinguibili dalla polvere e dalla sporcizia di mesi e anni. Guardando bene si possono riconoscere vestaglie, accappatoi, camicie da uomo taglia XL, vestitini rosa a balze da prima comunione, abiti da fatina o da ballerina di tulle color pesca, cappottini di peluche viola con cappellino coordinato munito di finti capelli biondi incollati, magliette con personaggio di cartoni giapponese dagli occhi enormi (e dentro l'iride una stellina), t-shirt rosse con imitazione di Goldrake, maglioni di lana col panda bianco e nero disegnato a tricot, magliette nere con John Cena, pigiami rosa di flanella, felpe con il cappuccio decorate da scritte americane, divise da calciatore, calzoncini traforati di buchi, orli sfrangiati, bottoni persi o pendenti. È estate, autunno, inverno e primavera contemporaneamente. Spesso due bambini sono legati da un lamba e si fa molta fatica a distinguere il portatore dal portato, visto che hanno quasi la stessa età e stazza. E tutti questi incontri sotto il sole abbagliante avvengono con il sottofondo di un salmodiare continuo e monotono di bonjourvasà-bonbonvasà-styloperl'ecole-argentvasà.
Nei pressi del mercato una suora francescana italiana che opera sul territorio ci ragguaglia in merito ai problemi più seri del luogo, che sono la prostituzione delle ragazzine e l'alcolismo. Stanno attendendo che la scuola in costruzione ad Ambalavao sia pronta, mentre a Tanà hanno più strutture e hanno già salvato diverse donne e bambini.
Inoltre si può visitare il vicino laboratorio di carta degli Antemoro, l'etnia che abita nella regione costiera a fianco, fatta a mano e decorata con petali di fiori freschi. Qui si può osservare gratuitamente come avviene il processo di lavorazione, non dissimile da quello dei loro colleghi fabrianesi, a patto che poi si entri a fare acquisti nell'annesso negozio.
Nei paraggi, infine, si trova la Riserva di Anja, dove i lemuri catta – i più sympa, quelli con la lunga coda a strisce bianche e nere – passeggiano felpati e vicinissimi, con la loro mascherina nera e gli occhi gialli e ci manca poco che si facciano accarezzare. Il tutto in uno scenario naturale di incomparabile bellezza, tra farfalle e camaleonti.

I PARCHI NAZIONALI MALGASCI

«I francesi se ne sono andati e non ci hanno lasciato niente, non ci hanno insegnato niente, né a amministrare né a cucinare né a preservare i cibi né la profilassi venereologica né la scuola, niente, figuriamoci se ci lasciavano la ricetta della produzione dei formaggi. Il formaggio c'è, se lo vuole, ma tutto d'importazione. Francese. Carissimo, roba per i ricchissimi.»
«Scusa, ma io che sono?»

(Aldo Busi, "La camicia di Hanta")

Per raggiungere il Parco Nazionale di Andringitra è necessario farsi sbatacchiare per un'ora dentro un camion che avanza dentro ad un anfiteatro naturale di meravigliose montagne nude: è tutto giallo di graminacee e rosso di terra che emerge dalle cicatrici, e in alto il blu compatto del cielo terso e intenso che la sera regalerà una stellata indimenticabile.
Il Camp Catta è costituito da case tradizionali restaurate ed appartiene ad una ONG marsigliese che si preoccupa di sostenere la vita nei villaggi sparsi nella vallata. Poiché il massiccio comprende alcune delle vette più imponenti del Paese, c'è anche chi ci viene per arrampicare – e ci giungono a piedi, con la tenda e lo zaino in spalla, come questi due ragazzi svizzeri.
I meno sportivi possono compiere lunghe passeggiate e visitare i villaggi: in questa vallata abitano in case fatte di argilla e paglia circa 6000 persone che appartengono sia alla tribù dei Bara sia a quella dei Betsileo. Le due etnie convivono pacificamente per merito della divisione dei compiti: i Bara allevano gli zebù mentre i Betsileo sono coltivatori, e i rispettivi prodotti se li scambiano l'uno con l'altro. Gli unici screzi nascono quando un Bara vende uno zebù a un Betsileo e poi glielo ruba (per fare il figo, come abbiamo visto). Le case dei Bara sono a due piani: sopra vivono i genitori, sotto i figli, anche se sposati, e quando muoiono la casa viene distrutta e se ne costruisce un'altra. Sfoggiando con orgoglio una chiostra di denti di metallo, le donne ci mostrano l'interno delle loro abitazioni: al piano terra in bella mostra le foto elettorali del presidente Marc Ravalomanana, sbarazzino con la giacca sulla spalla.
Nella vallata c'è un dispensario dove le donne vanno a partorire o portano i bambini con la polmonite o la bilharziosi. Accanto all'ospedale figura uno spazioso edificio che ospita i parenti più robusti, le cui braccia sono fondamentali per trasportare fin qui il malato. Il problema è che queste popolazioni continuano a curarsi con le piante, ricorrendo ai consigli degli influentissimi guaritori, e dunque quando arrivano in ospedale spesso è l'ultima spiaggia e non c'è più niente da fare. Come il dispensario, anche la scuola è sorta grazie all'iniziativa della ONG francese, che fornisce anche i libri.
A quanto pare fino al 1975 i libri scolastici in Madagascar erano scritti in francese e contenevano tutte le informazioni per raggiungere Lione da Parigi ma non per andare da Tulear a Tanà. Praticamente iniziavano con la frase "i nostri antenati, i Galli", come se il fatto di essere stati un protettorato francese per qualche decina di anni avesse trasferito fisicamente il Paese nei paraggi dell'Île-de-France. Dopo quell'anno c'è stata una specie di rivoluzione culturale, infatti era il periodo in cui un cambio di regime aveva avvicinato il Madagascar all'area socialista, che ha reintrodotto la lingua e cultura malgascia nelle scuole, ma anche qui si sono dati la zappa sui piedi in quanto all'università si continuava a parlare in francese e dunque quelli che vi accedevano non ci capivano un'acca. Nel 1993 dunque si è tornati ai libri in lingua francese, ci si immagina purgati dal riferimento agli eroici Galli.

Al ritorno sulla via asfaltata, il paesaggio diventa una sconfinata savana fino a Ranohira, che praticamente non è altro che la base per raggiungere il Parco dell'Isalo e oltre a qualche albergo e negozietto che vende sigarette sfuse e maccheroni a peso non vi è. Il Parco è costituito dall'immensa prateria gialla stile Far West dell'altopiano dell'Horombe e da massicci di arenaria scolpiti dagli agenti atmosferici e nel pomeriggio sembra il Sahara, con le rocce che si scuriscono e le graminacee che da lontano assomigliano a dune di sabbia.
Nel canyon dei Maki si cammina a testa in su per spiare i sifaka che mangiano o saltellano sui rami, e poi si striscia lungo un torrente fin dentro alla gola, cercando di scansare le specie endemiche come la palma piuma, l'aloe dell'Isalo e il pachypodium, che è una specie di baobab nano chiamato anche piede di elefante. Intraprendendo un percorso di 3 km tra licheni multicolori e suggestive conformazioni rocciose si raggiunge una splendida piscina naturale circondata di felci e pandani dove bisogna per forza fare il bagno con cascata a idromassaggio.
In chiusura di giornata il tramonto bisogna guardarlo in un posto fatto apposta per guardare i tramonti che si chiama "finestra dell'Isalo", perché è una roccia affacciata sull'Occidente che ha un buco quadrato in mezzo.
Vicino al profilo della regina in pietra, c'è il Relais de la Reine, un hotel per miliardari con tanto di piscina alimentata da un ruscello, pista per elicotteri, centro d'equitazione, campi da tennis e trionfi di buganvillee. Quattro giorni dopo il mio soggiorno purtroppo è stato semidistrutto da un incendio scoppiato dal camino della cucina e rapidissimamente propagatosi e quindi probabilmente nessun altro ormai ci può andare più, e a saperlo prima mi sarei trafugata i candelieri, i portaincensi e anche quelle belle foto in bianco e nero che erano appese tra i mobili in legno nei cottage costruiti in pietra locale. Purtroppo non c'è molto tempo per godersi questo posto di lusso: la mattina alle 5 già si parte per arrivare a Tuleàr in tempo per il traghetto che ci aspetta là-bas.

LÀ-BAS

Tiako i Madagasikara ("Amo il Madagascar")
(Slogan di Marc Ravalomanana, Presidente del Madagascar fino al 2009)

A Tuleàr do l'addio all'autista dal torrido sguardo orientale tipico degli attori di Wong Kar-Wai: una barca mi condurrà ad Anakao, un pittoresco villaggio di pescatori ancora poco conosciuto dal turismo. E lì bisogna solo pregare che il motoscafo non si cappotti nel tragitto, poi se ne capita uno funzionante, o addirittura veloce, tanto di guadagnato.
Già l'inizio non è confortante, quando realizzo che per issare le mie chiappe a bordo devo farmi dare un passaggio da un carretto di legno trainato da zebù anfibi. La compagnia sul motoscafo è invece prestigiosa: vi è il sindaco di Sarodrano, villaggio à côté di Anakao, c'è un dj rasta fumatissimo tutto vestito di nero, con grandiosi occhiali a specchio, cappello trendy e ciondolo gigante, che nonostante le apparenze è nientepopodimeno che il nipote del re di Anakao e figlio del sindaco di Tuleàr, e infine ovviamente c'è il pilota, che è un energumeno di nome Rigoberto.
Il comitato di accoglienza a destinazione è costituito dal mesto titolare dell'hotel in cui dormirò, un francese spiegazzato e pallido con l'aria vagamente esistenzialista, e dai suoi dipendenti abbigliati con lucenti camicie a righe verticali. Questa è vita! Mi scappa da esclamare di fronte al drink di benvenuto e poi stesa al sole su un lettino imbottito in spiaggia. Alle 2 si alza il vento. Alle 4 fa freddo. Alle 6 è buio.

Mi trovo su un'infinita spiaggia bianca, protetta dalla barriera corallina, a ridosso della quale vi sono alcuni hotel e ristoranti più o meno scalcagnati, e a seguire il vero e proprio villaggio dei pescatori Vezo, che è il nome dell'etnia locale. La loro vita si svolge sulla spiaggia, dove costruiscono le loro piroghe in legno dipinto a colori sgargianti e dotate di vela realizzata con la tela dei sacchi di riso: le vele sono quadrate così che da lontano sembra un kolossal sull'Odissea con Ulisse che fa ciao ciao con la mano. Le donne utilizzano una polvere di legno gialla o arancione come maschera di bellezza e per proteggersi dal sole. I pesci li affumicano infilzandoli in bastoni piantati nella sabbia a formare un cerchio al centro del quale accendono il fuoco. La sabbia serve a molteplici scopi: lavare i piatti, seppellire i propri bisogni, disegnarci su opere d'arte (piroghe e zebù), trovarci conchiglie giganti da rivendere ai turisti. Di fronte, raggiungibile via motoscafo, c'è l'isolotto di Nosy Ve, riserva naturale marina dove nidificano i rarissimi fetonti dalla coda rossa, questi uccelli bianchi e neri appollaiati tra i cespugli.
I due giorni di soggiorno ad Anakao prevedono mare, sole, passeggiate e laute mangiate da "Emile aime île" (questo Paese è pieno di geni del copywriting) dove ci si può strafogare impunemente di aragoste, granchi, calamari, polpo, pesci grigliati.

Anche per andare a Ifaty, altro villaggio sul mare situato a nord di Tuleàr, salgo sull'imbarcazione dell'eroico Rigoberto. Questa volta ha come aiutanti i suoi 4 figli ed è una grande fortuna perché il motore ha un po' di problemucci e il nostro uomo deve trascorrere tutto il tempo della traversata a ripararlo in corsa, sostituendo candele ricoperte di ruggine millenaria.
Ifaty è costituita da: bungalow sulla spiaggia, enormi palme da cocco, bar e piroghe. Un'aria di desolazione circonda la donna con la muta che pulisce la piscina, la ragazzina magra che fa i massaggi, il cameriere rasta con i suoi orrendi cd, il ristorante pretenzioso ma deserto. Visito con le infradito la foresta spinosa Reniala: dalla terra rossa emergono i baobab con i loro frutti simili a maracas di alcantara marrone, e intorno erbe medicinali e piante succulente; su tutto incombono grigie nuvole rapide sospinte da un vento continuo.
Uscire da Ifaty via terra richiede stomaci forti e resistenza fisica: la strada è tutto un buco e raggiungere l'aeroporto di Tuleàr all'alba, quando è buio e freddo, è piuttosto scoraggiante. L'aeroporto è ancora deserto, sola sta nel parcheggio una Renault 4 arancione. Poi man mano arrivano alla spicciolata i turisti (tra cui la solita famiglia francese che, da Milano in poi, incontro ad ogni tappa), i malgasci ricchi (donne attillatissime dai lunghi capelli ricci mesciati, rossetto e orecchini a cerchio giganti) e alcuni raffinatissimi indiani.

UNA META ESCLUSIVA

A Tolagnaro (Fort Dauphin in francese) si potrebbe arrivare via terra, ma le condizioni stradali sconsigliano l'impresa e praticamente tutti ci vanno in aereo, quindi è una meta ancora più esclusiva delle altre, se possibile. Ciò è ben noto agli abitanti del luogo che, di fronte al rifiuto di acquistare un pareo o una collana, spiegano pazientemente al turista che è impossibile che egli non abbia soldi in quanto è giunto lì in aereo e quindi è ricco.
Per le strade, oltre a venerande Renault e Citroen adibite a tassì, sfreccia un incredibile numero di SUV e 4x4 costosissimi, che appartengono alle ONG e ai canadesi, alle prese con un progetto di sfruttamento dei minerali.
In questo complesso di bungalow più o meno confortevoli (immersi nella vegetazione e nel solito zoo di mosche, zanzare, galli e altre non meglio identificate ma rumorose bestie) è un'impresa avere asciugamani che non sappiano di pesce, papier toilette in quantità sufficiente a gestire la famosa diarrea del viaggiatore, un fabbro che aggiusti la serratura dopo che un pezzo di chiave è rimasto dentro. E comunque il Madagascar ha proprio un problema in fatto di serrature, perché la chiave va girata al contrario e spesso servono trucchetti noti solo agli indigeni per aprire una porta. Qui tra i bungalow, tra l'altro, se cercate aiuto trovate sempre e solo il monotematico venditore di vaniglia, notoriamente incapace di alcun conforto.
I malgasci effettivamente necessitano ancora di qualche miglioria da apportare all'erogazione del servizio. Due sono i punti di debolezza: i tempi e la rigidità. In merito ai tempi, non dico nulla di nuovo: il tempo non esiste, siamo in Africa, basta organizzarsi prenotando la cena due ore prima. In merito alla assoluta mancanza di flessibilità, è tutto molto più divertente: se per esempio siete seduti in 4 al tavolino di un bar e chiedete solo 2 sandwich, il personale assume espressioni sconvolte, se cambiate idea in merito ad una ordinazione vi rispondono che ormai hanno scritto cocacola non possono poi portare aranciata, fargli capire che se si è in 6 persone si può dormire in 2 stanze da 3 o in 3 da 2 è un'impresa al di sopra delle possibilità.

Nella regione sud-orientale il clima è decisamente più umido e infatti ha piovuto per tre giorni. Ma adesso basta: il sole bacia la Riserva privata di Nahampoana, un grande giardino botanico situato a 7 km dalla città. Gli amici lemuri Catta, i sifaka di Verreaux e gli apalemuri dorati sono tutti lieti di fare la conoscenza dei visitatori, le tartarughe radiate invece continuano a fare la solita tranquilla vita di sempre. La vegetazione è un trionfo tropicale di palme, didieracee, euforbie, eucalipti, baobab, sisal, canfora, ciliegi, chiodi di garofano; ci si può addentrare in una piscina naturale e percorrere in piroga un corso d'acqua tra mangrovie e orecchie d'elefante, e sfogliare addirittura l'albero della carta igienica.
A conti fatti, rinunciare alla visita della riserva di Andohela è stata invece una scelta saggia, perché richiedeva in totale cinque ore di tragitto su pista. E poi se si hanno problemi intestinali lì è un casino perché un sacco di posti nella foresta sono fady (ossia tabù) e dunque se si fa la cacca nel posto sbagliato si rischia che tutti gli antenati in massa, oppure qualche animale leggendario tipo il gatto con sette fegati, ci infilino qualcosa di orrendo proprio in quel posto.

Un'ora di motoscafo tra mangrovie e orecchie d'elefante, pandani e palme ravenala, montagne e capanne che si specchiano nell'acqua immobile, e si raggiunge Evatra, un villaggio di pescatori Antanosy situato a sud-est di Tolagnaro, dove il lago e l'Oceano Indiano si incontrano. Qui c'è un campo dove si può dormire in semplici capanne senza acqua né luce e mangiare alcuni ottimi manicaretti malgasci a base di pesce, zebù, cocco, papaya, yucca. Sulle condizioni igieniche è meglio glissare, ma comunque per fortuna avevo fatto l'antiepatite.
Per andare ad ammirare le baie e spiaggette circostanti bisogna attraversare il villaggio: circa 1500 persone abitano in casette di legno circondate da gigantesche palme da cocco in uno scenario da mozzare il fiato ed è davvero ironico realizzare che i villaggi turistici li copiano da posti meravigliosi come questo. Qui è tutto un insieme di maiali, galline e nidiate di pulcini dietro alla mamma, e cani e gatti che gironzolano tra i bambini che hanno pance gonfie e solo una maglietta sdrucita. Nei banchetti vendono piramidine di arachidi e tra di loro, sedute, le donne e le bambine si fanno le treccine a vicenda. Dalle baracche proviene il fumo di un fuocherello e da alcune anche il suono della radio; qualcuno è tornato dal mare e vende dei pesci enormi. Le donne fanno il bucato e i bambini a gruppetti ci seguono in tutto il tragitto tra zebù e piante grasse fino al punto panoramico che sembra l'Irlanda per il verde squillante e le onde che schiumano con forza sugli scogli.
Dal campo si può effettuare una spedizione a piedi verso l'incontaminata Penisola di Lokaro, tra banani, pervinche, piante carnivore ed erbe medicinali. Oppure si può raggiungere un barcone abbandonato, in uno scenario sturm und drang metallico di nuvole che avrebbe affascinato il pittore Caspar David Friedrich: onde lunghe, il cielo nebbioso, la marea che sale e individui che trasportano fascine di legna, attrezzi arrugginiti, ceste gemelle attaccate a un bastone in bilico sulla spalla. E meno male che all'ultimo un sesto senso mi ha suggerito di non andarci in canoa, perché l'imbarcazione di una coppia di turisti si è capovolta e i due poverini hanno dovuto asciugare al sole passaporti e soldi e purtroppo le inutilizzabili apparecchiature elettroniche. «E la barca tornò sola... mare crudele mare crudele», cantava quello.

UN SOGNO MALAGASY

Di ritorno a Tanà, in Avenue de l'Indépendance, per un momento sembra tutto ormai alle spalle: i villaggi, la paglia, l'argilla, i palloni di stracci, i pantaloncini a brandelli, i baobab, le piroghe, le conchiglie, le palme da cocco. Sfilano venditori di scope colorate e uomini che vendono grandi antenne televisive, c'è chi indossa colbacchi nonostante il caldo, decine di venditori di timbri personalizzati attirano l'attenzione ai lati della scalinata che porta alla parte alta. Fuori dal supermercato un poliziotto cerca di toglierci dai piedi gli invadenti venditori di fragole e arance (senza alcun successo), dentro invece è tutto pulitissimo, ordinato e deserto; il reparto macelleria è infinito e impeccabile, ma il macellaio è solo col suo cappellino e guarda immobile un punto lontanissimo davanti a sé. Trovare un prodotto fabbricato in loco è quasi impossibile, tranne naturalmente gli yogurt e l'acqua Tiko, l'azienda del Presidente, che ha appunto come slogan "Prodotto malgascio" (“Vita malagasy”), mentre per esempio la crema Nivea, la pasta Barilla e l'Autan costano molto più che in Italia.
Passiamo sulle sponde del lago di Anosy e cerchiamo di tornare in hotel accompagnati da due militari: sulla strada centinaia e centinaia di metri di bancarelle di ogni genere, tra cui spiccano i venditori di galli, galline, anatre e gatti, piccoli e legati al guinzaglio. Non so questi ultimi a quale uso siano atti: di certo c'è che in questo modo giganteschi toponi sono liberi di rincorrersi tra i banchi del mercato alimentare. Nella capitale la miseria non è l'unica realtà, ma proprio perché mescolata a situazioni opposte turba maggiormente: centinaia di migliaia di persone non hanno un posto per dormire e vivono sul marciapiede, o sotto il tunnel tra i gas di scarico, o in bidonville di lamiera e di notte, senza nemmeno un lampione, la vita continua a brulicare senza un posto dove ripararsi. È necessaria una doccia fredda e un po' di riflessione guardando i video di cantanti rap francesi alla tele.
Questa giornata di transizione, grandi contrasti e anche un po' di schifo mi stimola strane riflessioni. Alle 4, puntualmente, un gallo canta, con la solita variante malgascia del classico chicchirichì: più strascinata e da basso. Uno di quei galli muniti di zampe magrissime e sproporzionate in lunghezza rispetto al resto del corpo, che non mancano in nessuna località del Paese. Quando mi sono riaddormentata ho sognato che ero in classe che leggevo un libro ai miei studenti quando a un certo punto mi imbattevo nell'incomprensibile parola MSIMMNIRINA (parola inesistente, ma dal suono molto malagasy), mi alzavo in piedi, la vista mi si annebbiava e raggiungevo barcollando l'armadio dove c'è il dizionario, ma sfogliandolo mi accorgevo che tutta la sezione delle parole che iniziano per M mancava.

ALCUNI VALIDI MOTIVI PER TRASFERIRSI AI TROPICI

Se si osserva con attenzione una mappa dettagliata dell'Africa ci si accorge che questo continente è tutto circondato da isole. (..) Queste isole e le loro propaggini sono talmente numerose da suggerire l'idea che in Africa il lavoro della creazione sia stato lasciato a metà e che il continente che oggi vediamo sia solo una parte dell'Africa emersa dagli oceani, mentre il resto è rimasto sul fondo; e che le isole siano appunto le cime sporgenti dall'acqua di questo resto sommerso.
(Ryszard Kapuscinski, "Ebano")

All'aeroporto di Nosy Be, l'isola grande situata a nord ovest, decine di tassisti sudati e isterici scagnozzi degli albergatori accolgono i passeggeri appena sbarcati. Siccome nell'isola c'è un villaggio turistico all inclusive, si sarebbe portati a credere che qui ci si possa facilmente imborghesire, cominciando a partecipare a balli di gruppo e giochi aperitivo in spiaggia.
Le cose tuttavia non stanno propriamente così, in quanto il villaggio turistico si trova in una penisola minuscola situata all'estremità nord-occidentale dell'isola ed è praticamente blindato. Inoltre nell'isola c'è una sola via asfaltata e la corrente elettrica è quasi del tutto assente. Infine il tenore di vita degli abitanti è misero proprio come nella Grande Isola, con l'aggravante che a Nosy Be l'agricoltura è pochissimo praticata, anzi da alcuni viene considerata un'attività da terroni. Non solo, l'equivoco che qui ci siano possibilità di lavoro inganna anche i poveri immigrati da Tuleàr, che vengono qui (alcuni con zebù al seguito) e non sanno che lo zuccherificio è fallito due anni fa e che i turisti ci sono praticamente solo nel mese di agosto e alla maggior parte di loro interessa soltanto fare sesso a costi irrisori con le malgasce.

Una delle possibilità opzionabili qui è cercarsi una barca che non cada a pezzi e organizzare una gita di 4 o 5 giorni nelle meravigliose isole sparse nell'incontaminato mare cristallino che circonda Nosy Be, dormendo nella barca stessa o accampandosi in tenda. Per fare ciò bisogna andare al porto, chiacchierare con i vari capitani e filibustieri locali, annusare i movimenti di merci, dare un'occhiata alle imbarcazioni, scoraggiarsi qualche quarto d'ora e infine trovare quella che fa al caso proprio.
L'alternativa è prendere una stanza in un hotel di una località balneare situata sulla costa occidentale (più si va verso nord più salgono i prezzi) ed esplorare in giornata le meraviglie nascoste nel mare circostante. Nel frattempo si può (strade permettendo) visitare l'interno dell'isola che è occupato dalla foresta tropicale, da coltivazioni di ylang ylang (gestite tutte dagli indiani) e canna da zucchero e da piante spontanee di pepe, vetiver, cannella, caffè. A sud-est inoltre vi è la Riserva di Lokobe, che presenta un piccolo riassunto della flora e della fauna malgascia, e al centro il Monte Passot, alto appena 315 metri ma chiamato dai locali "la grande montagna", circondato da laghetti vulcanici.

Ambatoloaka è un piccolo villaggio finto ma pittoresco affollato di hotel, ristoranti e negozietti il più delle volte squallidi (si affretta a sottolineare l'eticissima guida Routard), che sorge a fianco del villaggio vero e proprio che si chiama Dar-Es-Salaam. I gestori sono per la maggior parte francesi e italiani che qui hanno trovato il loro paradiso, anche se probabilmente si aspettavano un maggior afflusso turistico.
Il grosso di queste attività sorge a ridosso della spiaggia che è più o meno bella col variare delle maree: in alcuni momenti è una lunga porzione di sabbia bianca con mare pulitissimo punteggiato da catamarani e motoscafi, in altri l'acqua è distante e poco profonda e sabbia e mare sono pieni di alghe, ogni tanto infine la spiaggia è completamente sommersa dalle onde dell'alta marea.
Proseguendo verso nord la spiaggia assume il nome di Madirokely e gli hotel e i ristoranti diventano più tranquilli e meno ambigui. Costeggiando il mare verso nord-ovest, la spiaggia successiva è quella di Ambondrona, poi c'è Dzamandzar, dove c'era lo zuccherificio e la distilleria di rum, e infine c'è la baia di Andilana, dove la strada finisce. I tassisti pascolano sfaccendati: una corsa e si pagano la giornata. Uno di loro mentre mi accompagna ad Andilana mi racconta che è single e che è molto difficile trovare una donna perché gliele fregano gli europei, e lui è anche andato a scuola e parla un po' l'italiano per lavorare coi turisti, ma niente. La spiaggia di Andilana è un'ampia conca piatta molto bella: se la percorrete tutta arrivate nel pezzo che si è accaparrato il Bravo club; lì non si può entrare però la musica del dj italiano arriva fino da questa parte e anche i clienti di questo club ci arrivano, col portafogli in mano perché ci sono le bancarelle. Questo è l'unico posto dove c'è acqua corrente buona da bere e infatti tutti chiedono a chi lavora lì di portargliene alcune bottiglie.

Sia di giorno sia di sera, ad Ambatoloaka è possibile assistere ai proficui scambi culturali di cui sono protagonisti i forti bevitori vazaha e le signorine malgasce. Sulla spiaggia avvengono i primi contatti (non serve conoscere la lingua, i gesti sono abbastanza eloquenti), mentre nei bar e nei ristoranti (che siano gestiti dalla matrona endemica o da napoletani dai lunghi capelli unti) la maggior parte della clientela è costituita da coppie miste: solitamente lui ha i capelli bianchi e la camicia fantasia semi-sbottonata e beve in continuazione, lei è visibilmente annoiata e a volte proprio depressa, salvo i casi in cui è completamente sbronza pure lei. In tarda serata, nel locale con il biliardo e il dj, alcune giovanissime signorine leopardate giocano a stecca, mentre al karaoke c'è un solo cliente alcolista che si cimenta con i brani di Eros Ramazzotti e Laura Pausini.
Se ci si sposta fino a Dar-es-Salaam, invece, tutto avviene al buio: presso i banchetti di legno si vendono cibi già cucinati e uova sode, al bar c'è un televisore che trasmette video malgasci specializzati in primi piani di inguini maschili e culoni femminili che si muovono a ritmo forsennato.

Manina tutti la conoscono: ah, l'italienne, andate su per di qui! La troviamo nella sua casa di legno vista mare che, durante la stagione delle piogge, diventa praticamente isolata nel fango. Tutto iniziò con un viaggio alla ricerca di spiagge incontaminate e buone letture: adesso sono otto anni che questa professoressa di filosofia in pensione vive qui. «All'inizio decisi di pagare la retta scolastica ad alcuni bambini, che sono solo quattro euro al mese, ma per un malgascio sono una grossa cifra; man mano i "bambini di Manina" sono aumentati a dismisura, finché ho cominciato io stessa a mettere su scuole gratuite tramite la mia associazione, e adesso sono migliaia i bambini che vanno a scuola». Col tempo queste donna simpaticissima ed energica è diventata un punto di riferimento anche dal punto di vista sanitario, «visto che nel Paese si muore per infezioni, per malaria, per bilharziosi, per sifilide, per i vermi, e a volte basterebbe un semplice disinfettante per salvare una vita. Invece gli ambulatori sono difficili da raggiungere e inoltre bisogna pagare la visita, la ricetta e anche le medicine.»
Ci spiega Manina che a Nosy Be coltivano solo un po' di manioca; galli e galline razzolano liberi; solo poche persone producono le uova; il riso viene dal Pakistan e tutti i prodotti alimentari arrivano dalla Grande Isola. «Il mio sogno è quello di costruire una scuola di agraria e insegnare a coltivare ai ragazzi, ma il proposito è molto laborioso, perché prima bisogna cambiare la mentalità della gente.» Al momento del commiato gli occhi le si illuminano: «Mi stava balenando l'idea di produrre formaggio qui a Nosy Be... voi cosa ne pensate?»

Tra le isole raggiungibili in giornata c'è Nosy Komba, dove le donne ricamano tovaglie e tende, gli artigiani creano statue e maschere di legno ed è tutto uno sventolare di bianchi tessuti traforati e plotoni di omini e donnine flessuosi intagliati, e tavoli pieni di collane realizzate con grossi semi marroni.
In questa stagione la scuola è chiusa e dunque l'edificio è adibito a chiesa, dove adesso c'è una funzione. Lì davanti, tento di scambiare la mia maglietta con quella del Presidente che indossano le ricamatrici, ma loro, dopo aver valutato a lungo la qualità del tessuto e delle cuciture, rifiutano l'affare. E vabbè che l'avevo pagata 3 euro e 99, ma io al posto loro non me la tirerei così tanto.

A poca distanza, merita di essere raggiunta Nosy Tanikely per il parco nazionale marino: con maschera e boccaglio potete passare ore a guardare i pesci coloratissimi, le formazioni di corallo, le tartarughe che nuotano incuranti, i ricci di mare dagli aculei di una lunghezza portentosa, gli anemoni, le stelle marine. Qui ci avventiamo su un pranzo sublime a base di pesce tenendo bene d'occhio i lemuri macaco che potrebbero lasciarci qualche ricordino e infatti lo fanno, sulla testa di un ragazzo francese. Questa specie di lemuri si trova soltanto in queste due isolette e si chiamano così perché hanno il volto incorniciato da peli, che li fanno somigliare a Cavour. Rispetto agli altri turisti, noi di lemuri ne abbiamo già visti di tutti i tipi e ne abbiamo anche un po' le tasche piene a dire il vero, e dunque non pronunciamo molti fastidiosi gridolini e non andiamo là a dargli la banana da mangiare.
Nosy Iranja, l'isola delle tartarughe, appare all'orizzonte come una sottile striscia di sabbia bianca a metà di due azzurri: quello compatto del cielo in alto e quello tremolante e luminoso del mare in basso (in questi casi c'è sempre qualcuno che si sente in dovere di dire che sembrano le Maldive). Un cordone di sabbia fuoriesce dalle acque soltanto nei momenti di bassa marea: se si decide di percorrerlo (perché uno non dovrebbe farlo?) si arriverà su un altro isolotto, talmente esclusivo che vi ha sede un hotel da 500 euro a notte e niente altro.
Anche qui l'organizzazione della gita prevede un pasto delizioso costituito da crabes, crevettes, poissons, légumes e fruits, che divoro senza alcun ritegno. Dopo pranzo si può salire fino al faro e godere di una vista a 360 gradi su tutta la terra emersa e il mare a perdita d'occhio, oppure ci si può stendere esattamente sotto una palma a contemplare le noci di cocco e a pensare che questo 20 luglio sarà custodito nella memoria come un momento di perfezione assoluta, probabilmente per tutta la vita.

Gallerie fotografiche

L'isola grande:

Nosy Be: