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MADE IN VIETNAM

Full immersion nell'Asia emergente

Baia di Ha Long - Huè e Hoi An - Delta del Mekong - Ho Chi Minh City - Hanoi - Immagini - Piccolo Me

Povero Vietnam!

Povero Vietnam! L'unica modernità che questo paese sembra aver conosciuto è quella della guerra: le armi, gli aerei, i missili sono cose di questo secolo; tutto il resto appartiene ancora al passato.
(Tiziano Terzani, “Un indovino mi disse” - 1993)

Benché la fissazione per i luoghi rimasti arcaici e arretrati pervada la fantasia dei viaggiatori, in molti Paesi del mondo tante cose sono profondamente mutate negli ultimi vent'anni e bisogna farsene una ragione. Se nel 1995 il Vietnam aveva un tasso di disoccupazione del 25%, oggi è sceso all'1,3%. Certo, in molte fabbriche le condizioni di lavoro sono inaccettabili e gli stipendi medi equivalgono addirittura a meno della metà di quelli cinesi, ma d'altra parte è proprio questo il motivo per cui tante multinazionali hanno spostato qui la produzione. Fatto sta che la percentuale di popolazione che vive sotto la soglia di povertà è scesa all'11% e in media i vietnamiti hanno un cellulare e mezzo a cranio.

Secondo i dati forniti dal governo, circa dieci milioni di turisti stranieri hanno visitato il Vietnam nel 2016, oltre il 25% in più rispetto all’anno precedente. La crociera nella Baia di Ha Long è una delle attività più gettonate: non a caso, quando ho cercato di prenotarla era tutto fully booked e ho ottenuto una cabina solo perché una coppia poco dopo ha disdetto.
Abbiamo trascorso circa 24 ore in un elegante galeone, mangiando elaborati piatti di pesce e navigando tra le stupefacenti isolette che spuntano nella baia, in compagnia di turisti non solo del Nord del mondo come un tempo, ma anche dei Paesi emergenti (Malesia, Thailandia, Brasile, Europa dell’Est).

L’organizzazione della gita segue uno schema standard e le attività hanno una scansione vagamente militaresca. 12:30: check-in. 13:00: specially prepared lunch. 15:30: escursione in kayak tra i faraglioni. 16:30: swimming time (ma ormai il sole è quasi scomparso e fa troppo freddo). 18:00: sunset party on the sundeck in warm and romantic atmosphere (in pratica un bicchiere di pessimo vino di Dalat bevuto sul ponte, dove spira una brezza sostenuta). 19:00: cooking class (come avvolgere verdure e pesce dentro a un foglio di carta di riso). 19:30: special dinner. 20:00: relax singing karaoke (dove ho dovuto cantare “Careless whispers” per omaggiare George Michael, una delle mie icone adolescenziali, scomparso proprio quel giorno) or squid fishing (ci hanno dato gli strumenti per pescare ma lo spirito ecologista ha fatto sì che l'unico calamaro che abbia abboccato sia stato ributtato in mare ‒ tra l'altro già morto ‒ dal mio vicino di cabina norvegese).
Il giorno dopo alle sei e mezza di mattina una voce baldanzosa ci ha svegliato urlando alcune frasi corroboranti alla filodiffusione della barca. Dopo la colazione ci hanno portato alla Surprise cave, dove c'è una massa indescrivibile di gente incolonnata, tutti appena scesi come noi da una delle centinaia di barche più o meno di lusso che affollano la baia. Ammirate le concrezioni e stalattiti a forma di coccodrillo o di dito medio, segue la visita alla Pearl farm dove abbiamo assistito alle operazioni necessarie per coltivare le ostriche e produrre le perle (in vendita nel negozio attiguo).

E infine altre 4 ore di autobus per tornare ad Hanoi, con un'unica sosta anche questa volta in uno di quei magazzini enormi sulla strada, circondati da un cortile pieno zeppo di statue a forma di lady Buddha o di delfino. Qui si può utilizzare la toilette, farsi un caffè o acquistare souvenir o snack a prezzi europei: la maggior parte dei clienti è costituita dai turisti stranieri che compiono l'itinerario Hanoi-Ha Long i quali apparentemente non mostrano alcun disagio a spendere 4 euro per un pacco di biscotti. D'altra parte stiamo parlando di gente che – come me, d'altra parte – aveva sborsato la bellezza di 130 dollari per una gita di un giorno e mezzo (senza contare l'esoso costo delle bevande extra).
Durante il tragitto appare evidente quanto le risaie stiano cedendo il passo sempre di più ai parchi industriali. Impressionante la quantità di scooter nei parcheggi degli stabilimenti Samsung e Canon di Bac Ninh.

Alle 8 di sera ho preso il treno ad Hanoi e ne sono scesa a Huè dopo 14 ore (la maggior parte delle quali trascorse beatamente a dormire in una comoda cuccetta).
Rileggendo le descrizioni che Tiziano Terzani riportava dal suo viaggio in un treno vietnamita non ho riconosciuto nulla, e pensare che risalgono a poco più di vent'anni fa e non a un secolo o due. Intanto la stazione di Hanoi non ha affatto un “soffocante odore di latrina”, non ci sono centinaia di passeggeri ad aspettare il treno “bivaccando sulle scalinate, nei corridoi e lungo i binari” e a differenza di Terzani abbiamo trovato facilmente il nostro vagone. Il treno all'epoca era lentissimo, “sporco, povero, primitivo” e privo di acqua nei gabinetti, i finestrini erano muniti di inferriate per difendersi dai banditi, i sedili di legno erano ricoperti da una stuoia di paglia.
Quello che ho preso io invece (prenotato su internet), non è molto diverso dai treni italiani, ha bagni dotati di acqua corrente e un livello di pulizia standard. Ad ogni fermata non mi è sembrato di notare l'assalto delle folle urlanti di donne, bambini, venditori, mendicanti e mutilati (che, anche se dormivo, sicuramente mi avrebbero svegliato), nessuna bigliettaia è arrivata “con un pentolone per distribuire ramaiolate di minestra in untuose ciotole di alluminio” e alla fermata non è giunto nessun ometto con una bacinella d'acqua che funge da lavandino portatile. Fuori dal finestrino non scorrono poveri villaggi e capanne (“miseri tetti di paglia sorretti da quattro pali di bambù”), la gente non è vestita di stracci e i bambini non sono scalzi.
L'unica cosa in comune tra questo treno e quello di cui raccontava Terzani è la canzone patriottica che hanno diffuso in tutti i vagoni verso le 7, seguita dalla comunicazione di servizio proferita dalla “voce melliflua di una donna”.

The rainy days 

Amore / Tra poco / Cambiamo postazione / Ci incamminiamo verso il fiume dei profumi / Dove i soldati dalla riva scrivono poesie / e ritrovano i sapori familiari.
(“Il fiume dei profumi” di Biagio Antonacci)

Nel Vietnam centrale ho trascorso quattro giorni in cui non ha praticamente mai smesso di piovere. In particolare, la giornata trascorsa a Huè, sotto un cielo perennemente bianco da cui precipitano scrosci continui, è stata di una mestizia senza fine.
L'attrattiva principale di questa località è la cittadella imperiale, che ricorda il glorioso periodo, durato circa un secolo e mezzo, in cui questa era la capitale del Vietnam. All'interno, oltre a palazzi e templi, c'era la mitica città proibita, dove potevano accedere solo gli imperatori e la loro corte (la punizione per chi violava il divieto era, ça va sans dire, la morte). Per chi volesse rivivere la leggendaria epoca dei mandarini è possibile indossare – previo pagamento – gli abiti di corte utilizzati durante gli incontri ufficiali, come è stata costretta a fare questa bambina di circa 3 anni dai suoi genitori.

Oggi, a causa degli ingenti danni ricevuti durante l'offensiva del Têt, resta in piedi solo una piccola parte della cittadella. Huè si trovava infatti in una posizione alquanto sfortunata: faceva parte del Vietnam del sud ma era molto vicina al confine, pertanto nel 1968 fu colpita sia dai bombardamenti americani sia dalle forze comuniste nord vietnamite. Dopo la guerra, inizialmente, questi luoghi furono trascurati perché secondo il regime comunista vincitore si trattava di simboli di un regime feudale e reazionario, successivamente però molte aree storiche sono state restaurate e in seguito il sito è entrato nella lista del Patrimonio UNESCO.
L'altra gita che di solito i turisti non perdono a Huè è la crociera sul Fiume dei Profumi, lungo il quale si trovano moltissimi monumenti, comprese la Pagoda Thien Mu e le tombe imperiali. Le abbondanti precipitazioni però non invitano minimamente a salire su una barca, per cui faccio la cosa che mi riesce meglio in tutte le città del mondo: cazzeggiare tra i mercati e i parrucchieri, curiosare nei negozi e le bancarelle, mangiare qualche risottino locale e ricevere un massaggio low cost. La giornata, iniziata con un paio di deliziosi caffè vietnamiti in uno dei piacevolissimi bar caratteristici di tutto il Paese, è terminata in uno squallido e anonimo locale.

Per raggiungere Hoi An non è una malvagia idea prenotare un'escursione organizzata, che prevede alcune soste in luoghi di interesse insieme ad una guida squisita e logorroica, ad un prezzo veramente abbordabile. La prima sosta avviene presso Lang Co beach, una lingua di sabbia di diversi chilometri affacciata sul mare turchese. Purtroppo, nelle giornate invernali piovose e ventose, le esotiche palme sventolano vigorose e una coltre di nuvole grigie copre la spiaggia assolutamente deserta, al punto che non verrebbe in mente a nessuno non solo di tuffarsi ma proprio di fermarsi. Il secondo luogo di interesse sarebbe un villaggio di pescatori che però non è proprio pervenuto causa nebbia.
Ed eccoci al passo di Hai Van (o Passo delle nubi), il più alto del Paese con i suoi quasi 500 metri di altitudine: esso a quanto pare offre panorami così belli che di solito vale la pena rinunciare al nuovo tunnel e percorrere questa via tortuosa e piena di curve e angoli ciechi (nota per l’elevato numero di incidenti mortali), allungando così di un'oretta la strada. Qualcuno afferma che la vista a 360° spazi dalle candide spiagge bagnate dal mar Cinese Meridionale alle verdi montagne alla moderna città di Danang, ma, per quanto mi riguarda, ho percepito soltanto la pungente umidità della nuvola dentro alla quale ci trovavamo e i richiami degli invadenti venditori ambulanti, seppur semivisibili.

Le Montagne di marmo, il piatto forte della gita odierna, sono cinque monticelli scoscesi che rappresentano ognuno l’elemento naturale di cui portano il nome (fuoco, legno ecc.) e sono tutti ricchi di grotte naturali al cui interno si trovano santuari buddisti. Lungo la via che conduce all’ingresso sono schierati i negozi che vendono le gigantesche statue di marmo tradizionalmente fabbricate qui a Danang. Quindi un ascensore ci conduce comodamente in cima alla montagna d’acqua da dove si può ammirare un grandioso panorama che giunge fino al mare; da qui si può seguire un labirintico percorso fatto di sentieri e cunicoli che portano alle elevatissime pagode e alle svariate grotte piene di statue di Buddha. Trattandosi di un luogo di pellegrinaggio molto noto e frequentato, presso i luoghi di culto sono apparecchiate sontuose libagioni consistenti in elaborate pietanze ben impiattate, sontuosa frutta tropicale, maialini arrosto interi, bevande alcoliche, oche vive e quant’altro.

Hoi An è una di quelle località di cui il turista che non aborre i luoghi troppo turistici è destinato ad innamorarsi perdutamente. Il centro storico è chiuso al traffico e si può girare tranquillamente a piedi, e quando le precipitazioni diventano davvero abbondanti, offre una grandissima scelta di ristoranti e caffetterie deliziosissimi dove rifugiarsi.
Questo pittoresco centro fluviale è stato uno dei principali porti internazionali del Sud Est asiatico, dove nell’Età Moderna approdavano navi di varie nazionalità in viaggio lungo le rotte commerciali dell'Oriente. Le sue costruzioni sono un misto di stili e molte di loro sono ancora in buono stato: la città infatti è stata solo sfiorata dalla guerra americana (anche se purtroppo è stata spesso funestata da tornadi e alluvioni autunnali). Proprio per questo il centro storico è stato dichiarato Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO e i molti edifici di interesse si possono visitare acquistando un biglietto cumulativo: ad esempio le case cinesi, in legno con begli intagli e caratteristiche travi a soffitto, o gli edifici in stile coloniale risalenti all’epoca in cui l’area era amministrata dai francesi. A testimonianza del quartiere abitato da giapponesi invece rimane il ponte coperto che collegava i due quartieri della città, all’interno del quale si trova un tempio buddista.

Fabrizio, il comproprietario di questo cafè in centro, è un archeologo toscano che da parecchi anni si occupa delle rovine del vicino sito di My Son, il luogo di culto dei sovrani del regno Champa. Mentre bevo qualcosa nel suo ameno giardino, mi parla bene della fama degli archeologi italiani nel mondo e mi racconta del turismo in Vietnam, che non essendo rivolto prettamente ai backpackers incentiva limitatamente la diffusione di droghe e prostituzione. Mi fa notare quanto sia raro vedere persone che chiedono l'elemosina e bimbi che lavorano, ma non mi nasconde del tutto la natura poco democratica del Vietnam, che è tuttora una repubblica socialista monopartitica. I suoi figli, a scanso di equivoci, frequentano una scuola privata.
Hoi An è il posto ideale anche per lo shopping: le attività commerciali – spesso dotate di laboratorio – vendono begli oggetti di artigianato e gioielli, abbigliamento e abiti su misura (confezionati in poco tempo e a costi irrisori) e molto altro. Ma sono soprattutto i negozietti e le bancarelle di lanterne, realizzate a mano in seta e stecche di bambù, che creano un effetto di enorme suggestione (quando però posizioni quella lanterna o lampada a forma di loto nella tua casa italiana, il risultato è ben più misero). La sera le vie di Hoi An diventano ancora più romantiche, quando le mille lanterne si accendono di tutti i colori e centinaia di candeline vengono lasciate scivolare sul fiume insieme ai desideri espressi da chi le ha comprate.

Hoi An come si è visto è una cittadina piena di delizie ma purtroppo anch’essa ha una pecca (almeno nella stagione delle piogge): è letteralmente invasa dai ratti. Io ho viaggiato in molti paesi di vari continenti, eppure non avevo mai visto così tanti roditori: essi sfrecciano veloci davanti alle porte o addirittura dentro i locali adibiti ad attività commerciali, sul bordo di imbarcazioni romanticamente cullate dal fiume, nelle strade e tra i tavolini dei bar.

The hot spot

La mattina del 30 aprile 1975 avevo pianto di gioia nel vedere i carri armati dell'Esercito di Liberazione entrare a Saigon: finiva la guerra e i vietnamiti diventavano padroni del loro paese. Dieci anni dopo, tornando, avevo pianto di disperazione nel vedere come i comunisti avevano sprecato la loro grande, storica occasione di fare del Vietnam un paese davvero liberato. Ora ero ancora più triste. Il fallimento era dappertutto. Era nella vita di ciascun vincitore.
(Tiziano Terzani, “Un indovino mi disse” - 1993)

Il Vietnam del sud ha due stagioni: quella calda e quella caldissima. Il 31 dicembre, uscendo dall'aeroporto internazionale di Ho Chi Minh City, vengo accolta dai 32 gradi tipici della stagione invernale, la più secca.
La vecchia Saigon è una metropoli trafficata e rumorosa, e lo è ancor di più in occasione dei festeggiamenti dell’ultimo dell’anno. Nelle vie del centro, tra i grattacieli, sciamano fiumane di pedoni, auto e moto, in alcune piazze sono stati organizzati concerti e djset, sulla facciata del palazzo del Municipio viene proiettato uno spettacolo di luci, per farsi il selfie con la statua di Ho Chi Minh bisogna mettersi in coda, la stucchevole canzone “Happy new Year” degli Abba risuona ovunque, e insomma non è più solo il capodanno cinese ad essere festeggiato in grande.
Il Distretto 1 è pieno di ostelli, bar, ristoranti e negozi e non mi sembra così diverso dalle aree turistiche di Bangkok; lo sguardo ammiccante delle ragazze fuori dai centri massaggi dimostra che forse Fabrizio era stato un po' ottimista nella sua disamina sul puritano turismo vietnamita.
La notte di Capodanno è impossibile dormire a causa del baccano infernale che arriva dalla strada: alle 4, sconfitta nella mia battaglia con il sonno, sono seduta sul marciapiede a mangiare un riso e pollo accompagnato dall'ennesima Saigon Beer. Vado a letto così tardi che la mattina dopo non sento minimamente la sveglia e apro gli occhi di soprassalto ad un orario in cui, teoricamente, sarebbero già dovuti venire a prendermi per la gita organizzata. Per fortuna la flessibilità degli orari vietnamiti mi permette di aggregarmi lo stesso al gruppo assemblato per questo one day trip.

La prima tappa è il Cao Dai Holy See di Tay Ninh, il luogo di culto per eccellenza di questa recente religione che mescola elementi di dottrine religiose orientali e occidentali. Per i caodaisti le manifestazioni del divino (come dire i nostri santi) sono tantissime e disparate: Krishna, Mosè, Buddha, Confucio, Gesù, Maometto, sant'Antonio Abate, ma anche i francesissimi Giovanna d'Arco e Victor Hugo. L’esterno del tempio è coloratissimo ed è praticamente una cattedrale cattolica sotto acido; all’interno l'effetto allucinatorio sincretico ha avvolto le colonne portanti di dragoni verdi, ha dipinto il soffitto con un cielo azzurro pieno di nuvole e stelle e ha posizionato, al posto dell'altare, un gigantesco globo blu con un inquietante occhio divino al centro. In occasione della cerimonia di mezzogiorno il pavimento è ricoperto di fedeli vestiti di bianco ordinatamente seduti a gambe incrociate, mentre gli officianti indossano abiti di colori sgargianti e portano un copricapo anch’esso decorato con l’occhio divino. Durante il rituale le preghiere sono accompagnate dai gong, dalle campane e dai tamburi, mentre un gruppo suona strumenti tradizionali sul palco accanto al quale i turisti scalzi ammirano lo spettacolo (chiedendosi – in particolare quelli che hanno dormito poco – se si tratta di sogno o realtà).

I Cu Chi Tunnels sono una rete di cunicoli che fungevano da rifugio antiaereo, deposito di armi e vie di rifornimento per i Viet Cong durante la guerra. Per anni, migliaia di persone hanno vissuto sottoterra, emergendo solo dopo il tramonto, e vivendo una ben triste esistenza: l'aria era stantia, il cibo e l'acqua scarseggiavano e la malaria si diffondeva rapidamente attraverso gli stretti passaggi infestati da insetti e parassiti.
Per infilarsi nei piccoli ingressi del tunnel, mimetizzati sotto le foglie, si richiedevano doti di contorsionismo, come ci mostrano oggi queste turiste minute che si posizionano sorridenti all’imbocco per la classica foto ricordo. La gran parte dei cunicoli è andata perduta, ma una sezione è stata conservata e, se non si soffre di claustrofobia, si può percorrerla strisciando (e bestemmiando quando il visitatore davanti si ferma per farsi un selfie).
Per proteggersi dai nemici, nel terreno erano posizionate trappole micidiali costituite da pali di bambù che si conficcavano nelle tenere carni americane. Inoltre se un nemico riusciva a superare queste insidie ​​e entrare nella città sotterranea, i Viet Cong rispondevano con una manciata di scorpioni o con un serpente ben assestato in faccia (esperienza che per fortuna ci viene risparmiata). Le visite si concludono con l'opportunità di sparare in un poligono di tiro, ed ecco spiegato come mai durante tutta la visita la giungla echeggiava sinistramente di colpi di arma da fuoco.
Io e questi due turisti gallesi (i soli esponenti della vecchia Europa del gruppo, in netta minoranza rispetto ad asiatici ed americani) siamo molto perplessi. È moralmente lecito ridere della tragedia che ha decimato un popolo e intrattenere i turisti con battute così volgari e omofobe? È una trovata divertente allestire un poligono di tiro dentro ad un monumento che dovrebbe ricordare a molti un dramma nemmeno troppo antico? Il quarantenne che fa da guida – il cui padre (filo americano) subito dopo la guerra ha abbandonato il paese per sempre – è stato sempre così o si è assuefatto al livello culturale dei suoi clienti? E perché continua a ridere dicendo ItaliaMafiaDonCorleone?

Il Delta del Mekong

In Vietnam è molto semplice prenotare delle gite organizzate a buon mercato per visitare le attrazioni più significative in uno, due o più giorni. Le agenzie nel Distretto 1 di Saigon sono ad ogni angolo di strada e propongono una vasta gamma di pacchetti. Il tour prescelto è "Mekong Delta two days-one night", con la variante small group. Anche questa volta vengono a prendermi in hotel, quindi mi fanno marciare per alcuni isolati tra le vie della città fino a raggiungere un autobus a bordo del quale salgo insieme ad altre decine di persone. Un giovane pimpante dà il benvenuto ai passeggeri e racconta qualche aneddoto condito da un umorismo discutibile: è palese che queste guide turistiche abbiano imparato l'inglese guardando pessimi film americani e si sforzino di scimmiottare lo strascinato accento USA, con la complicazione che sono incapaci di pronunciare diverse consonanti.
Finora il gruppo non sembra molto small, ma – dopo essersi scusati per il disguido – al porto di Cai Be mi fanno salire su un tender meno affollato, che ci conduce fino alla prima meta. Dunque ci fanno accomodare su instabili piroghe, guidate da donne col cappello a cono, che scivolano tra i meandri e le mangrovie. Raggiunta dopo poco la terraferma, sono invitata a seguire gli altri turisti lungo un sentiero fino al Mekong Garden, un bar-ristorante affacciato sul fiume, circondato dalla giungla ma nondimeno dotato di connessione wifi. Ad ogni tavolo vengono serviti dei piattini di frutta tropicale accompagnati da una tazza di tè, mentre sul palco inizia uno spettacolino di musica vietnamita non propriamente emozionante. 

Anche le tappe successive le raggiungiamo in barca: un coloratissimo mercato e un laboratorio dove si producono rice paper e dolcetti al cocco. A pranzo veniamo condotti in un altro ristorante lungo il fiume dove ci viene servito, tra l’altro, un pesce tanto scenografico quanto insipido e poi ci danno una bicicletta con cui pedaliamo nella rigogliosa vegetazione tropicale. Di nuovo in barca il gruppo viene separato: per quelli che hanno prenotato il tour di un solo giorno l’esperienza finisce miseramente qui (bye bye, have a good trip!), gli altri vengono a loro volta divisi tra chi dorme in hotel a Cai Be e chi dorme nella più spartana homestay in campagna. Qui ci viene assegnato un posto letto e dunque partecipiamo alla onnipresente cooking class, per cui i vietnamiti hanno un vero e proprio culto, ossia impariamo nuovamente ad avvolgere frattaglie varie dentro alla famigerata rice paper e poi attendiamo che il prodotto sia fritto prima di mangiarlo.

Il Delta del Mekong resta ancora oggi uno dei luoghi più poveri del paese, ma le cose stanno cambiando anche qui. Uno dopo l'altro i traghetti che collegano le due rive dei corsi d’acqua stanno scomparendo, sostituiti da ben più comodi ponti. Ancora qualche anno e anche i mercati galleggianti non avranno più ragione di esistere: già quello di Cai Be, che visitiamo di prima mattina, è piuttosto deludente. Segue la visita alla noodles factory e quindi un’altra merenda a base di frutta tropicale e tè, dove continuo a familiarizzare con i membri del gruppo, composto da malesi, una messicana fidanzata con un olandese, uno spagnolo accompagnato da una filippina, una famiglia vietnamita emigrata a Montreal, altri quebecchesi di chissà quale origine eccetera. A quel punto siamo liberi di scegliere se affittare la bici oppure passeggiare tra le rigogliose specie vegetali lungo le anse di questo ramo del Mekong. Verso le 11, nell’attesa della ricomposizione del gruppo, mi ritrovo ad un tavolo in compagnia di alcuni milanesi che hanno ordinato una grigliata mista di ratto, serpente, rana e un imprecisato volatile; la mia scelta cade su un saporito boccone di topo al barbecue, annaffiato da un bicchiere di rice wine che mi viene gentilmente versato da quel tour leader già conosciuto ai Cu Chi Tunnels, il quale – con la sua ben nota goliardia – lo definisce "happy water".

All’ora di pranzo siamo a Can Tho: leggendo il menu di un ristorantino sono fortemente tentata di ordinare un altro po’ di ratto, che tanto mi era piaciuto nella giungla, ma temendo di trovarlo un po’ indigesto (qui lo fanno fritto con cipolle) propendo per un più leggero riso alle verdure. Non abbiamo molto tempo per visitare questa grande città, solo quattro passi sul lungofiume tra le donne che si spidocchiano, senza nemmeno la possibilità di visitare casa Duong, l’elegante dimora resa celebre dal film “L’Amante”.
Per il ritorno mi fanno salire su un piccolo van illudendomi che sia finalmente giunto il momento di far parte di un reale small group, ma è solo una breve parentesi; infatti, dopo aver visitato l’incantevole mercato di Vinh Long, sono destinata ad un altro autobus, ancora più grande di quello di prima, col quale facciamo ritorno a Saigon.

Continuavano a chiamarla Saigon

Stenderemo il tappeto rosso davanti a voi perché abbandoniate il Vietnam. Poi quando avremo finito di combattere sarete di nuovo i benvenuti qui, perché avremo bisogno della vostra tecnologia e dei vostri aiuti.
(Ho Chi Minh, messaggio agli americani - Anni Sessanta)

Il popolo vietnamita a quanto pare è composto da creature metà umane e metà ruote: la maggioranza delle persone sullo scooter indossa caschetti giocattolo minuscoli e in genere una mascherina che può essere di svariate fogge, da quella prettamente medica color verdolino fino ad arrivare praticamente al passamontagna imbottito. Poiché l'auto la possiedono soltanto i ricchi, non è infrequente che sullo scooter siano legati carichi di una certa rilevanza come lavatrici, galline o maiali vivi, scale o alberi alti anche due metri e naturalmente vari generi alimentari. I mezzi a due ruote, quando non vengono utilizzati, sono parcheggiati veramente ovunque: non solo sulla carreggiata e sui marciapiedi, ma anche su scale, terrazzi, cortili, bar, negozi.
Essere pedone a Saigon è un mestiere pericoloso, soprattutto se si ha l’insana idea di attraversare la strada. Inizialmente il neoarrivato pensa che non ce la farà mai, aspetta che arrivi qualche indigeno e si appiccica a lui. Dopo qualche ora però diventa più fiducioso: osa un passo, poi un altro; e alla fine acquista sicurezza quando scopre che i motorini, avvezzi all'attraversamento alla cazzo, lo schivano con leggerezza e grazia.

Per andare alla pagoda dell'imperatore di giada provo anch'io l’ebbrezza di salire su uno scooter; l’autista però, al momento di farmi pagare la corsa, non si rivela così simpatico come sembrava inizialmente.
Le altre attrazioni classiche di Saigon sono tutte vicine e raggiungibili a piedi. Il delizioso palazzo delle poste, progettato a inizio Novecento da Eiffel, è ancora operativo e agli sportelli si lavora alacremente tra le carte geografiche e le cabine telefoniche d’epoca, sorvegliati da un grande ritratto del vecchio zio Ho. La cattedrale di Notre-Dame è una specie di copia in dimensioni ridotte di quella di Parigi ma è rivestita di mattoni rossi. L’elegante via dello shopping Dong Khoi, nota in epoca francese come Rue Catinat, è quella che fa da sfondo alle vicende raccontate da Graham Greene nel romanzo L’americano tranquillo.
Il palazzo dell'indipendenza (o della riunificazione) fu costruito nella seconda metà dell’Ottocento per volere del Governatore francese dell'Indocina ed è rimasto esattamente com’era nel 1975, quando un carro armato (ora parcheggiato nel parco) dell'esercito di liberazione sfondò il cancello di ingresso, segnando la fine del governo filo-americano e la riunificazione del Vietnam. La visita permette di osservare tutte le sale dei quattro piani (di rappresentanza e uffici) e di attraversare le stanze al piano interrato dove sono presenti cartine geografiche, apparecchi di telefonia e radio d'epoca originali.

Il War Remnants Museum è dedicato a quella che noi abbiamo sempre chiamato Guerra del Vietnam, ma che qua è definita giustamente “guerra americana”. Subito nel cortile ci si imbatte in una ghigliottina (simpatico souvenir dei francesi), in altri strumenti di tortura e in una cella ricostruita, con tanto di statua di prigioniero in catene; i pannelli danno informazioni in merito alle carceri vietnamite (come quella dell'isola di Phu Quoc) usate per imprigionare i “soldati patrioti”, i quali “resistettero eroicamente per la libertà del paese”.
Entrando nell’edificio apprendo che la guerra di aggressione americana è finita da più 40 anni ma gli effetti rimangono ancora oggi, infatti essa non solo ha causato, nei 30 anni di svolgimento, milioni di morti e feriti, ma non bisogna dimenticare le decine di migliaia di persone colpite da mine e altro materiale esplosivo dopo il 1975. I vietnamiti, si sottolinea, nonostante tutti gli ostacoli, non hanno mai mollato e continuano a combattere per superare le difficoltà e vivere la loro vita con ottimismo, cercando di essere membri produttivi della società, tanto che sono diventati degli esempi positivi anche fuori dal paese. Attraverso le storie delle vittime della guerra - concludono - il museo vuole mostrare che il Vietnam e i suoi abitanti nel periodo postbellico hanno ricostruito una nuova e bellissima nazione. Tutti tranne i milioni di cittadini del sud che dopo la riunificazione furono considerati collaboratori e traditori e finirono nei campi di rieducazione o furono deportati nelle campagne oppure fuggirono all'estero. Ma questo naturalmente non viene scritto sui pannelli del museo.

Nelle sale molto materiale testimonia il supporto di tutti i paesi del mondo al Vietnam brutalmente aggredito, compresa l’Italia. Anche tanti americani hanno protestato contro la guerra e proprio a loro Ho Chi Minh indirizzò un telegramma in occasione del Capodanno 1968, ribadendo che il governo americano non soltanto stava distruggendo il Vietnam, ma allo stesso tempo mandava a morire i suoi giovani soldati e dilapidava insensatamente miliardi di dollari. Un cartellone molto ironico presenta in inglese e vietnamita la frase tratta dalla Dichiarazione di indipendenza americana del 1776, in cui si sostiene che tutti sono uguali e tutti hanno diritto alla vita, alla libertà e al conseguimento della felicità. E arrivando ai giorni nostri, una foto rappresenta l’incontro di Obama con il segretario del partito comunista vietnamita, avvenuto nel 2015. Molte altre immagini di fotografi famosi sono appese alle pareti, fra cui la celebre “Napalm girl”, scattata non lontano dal tempio Cao Dai, mentre lunghi elenchi e cartine tengono il conto dei danni arrecati dagli americani a cose e persone. La cosa curiosa è che il materiale sembra provenire quasi tutto da fuori (soprattutto da riviste e agenzie americane). La sala dedicata alle armi chimiche, e in particolare all’utilizzo spropositato dell’agente orange, è adatta solo agli stomaci forti. Alle 12 suona una specie di allarme e tutti se ne vanno: uno dei guardiani mima l’ora di pranzo.

Fuori dal museo, gli abitanti della metropoli conducono la solita vita di sempre: praticano tai chi e arti marziali nei parchi, giocano a badminton, seduti sulle loro minuscole sedioline si ingozzano di pho presso i baracchini. E forse, ipnotizzati dal loro smartphone, non si chiedono più in nome di cosa sono morti tutti quei loro antenati (anche perché la maggior parte dei vietnamiti di oggi sono nati dopo il 1975 e per loro sono fatti molto lontani). Intanto, ai lati delle strade, migliaia di coloratissimi manifesti di propaganda celebrano “calorosamente” la festa nazionale della Repubblica socialista del Vietnam, l'86° anniversario della rivoluzione vietnamita o il 55° anniversario della tradizionale giornata della polizia antincendio. Le parole governative invitano gli scolari a studiare e i membri del partito a competere per ottenere risultati eccellenti. I giovani col caschetto antinfortunistico, i soldati col fucile, i marinai col binocolo, gli scolari e le maestre davanti alla lavagna, tutti questi personaggi disegnati sui cartelloni svolgono il loro compito con convinzione, circondati da falci e martelli, stelle gialle, campi di girasoli, tralicci della corrente. E in alto, dentro a un fiore di loto, campeggia la faccia da tenero nonnino di Ho Chi Minh.

The North Face

...posavano lo sguardo sull’isoletta che galleggiava sul lago. Era minuscola e ospitava un tempio di pietra bianca che si rifletteva nell’acqua e sembrava protendersi verso il cielo. Era la pagoda della Tartaruga, l’animale che aveva trasportato sul dorso la spada del lago, una spada d’oro e di ferro che era stato saggio restituire alle divinità dell’acqua. C’era poi una seconda isola sulla quale sorgeva la pagoda della Montagna di Giada; Mai e Yann imboccarono il ponte che portava al tempio e si fermarono per osservare il loro riflesso nell’acqua. Videro l’immagine che tremava quando un pesce venne a sfiorare la superficie, provocando una serie di onde circolari che si allargarono lentamente prima di scomparire. Proseguirono sino all’estremo opposto del ponte e oltrepassarono tre portici di pietra ornati di pitture e ideogrammi; ancora oltre, si trovarono nel tempio vermiglio, nel silenzio, nell’incenso, sotto le falde sottili del tetto, poi i loro passi li ricondussero a riva.
(Hoai Huong Nguyen, "L'ombra dolce")

Il viaggio in Vietnam era iniziato ad Hanoi il giorno di Natale. Presso il lago della spada restituita, come in una fiaba avevo attraversato il ponte del sole nascente tutto illuminato di rosso, per poi accedere al tempio monte di giada. Al centro dello specchio d’acqua spuntava giallastra la pagoda della tartaruga, il monumento simbolo della città, e tutto intorno i riflessi dei lampioni e delle insegne tremolavano. Il fiero popolo vietnamita era allegramente affaccendato nella penombra: chi mangiava su tavolini e sedioline in formato casa delle bambole, chi giocava a badminton senza racchetta, chi sollevava pesi sulle apposite panchette, chi sfrecciava nelle strade su skateboard luminosi. Nel quartiere vecchio ci sono tanti negozietti, gallerie d’arte e localini deliziosi, in un paio dei quali avevo consumato un aperitivo e poi la cena.

Tornando nella capitale dopo aver visitato porzioni di Vietnam situate a latitudini più basse, si notano subito le differenze più eclatanti: la gente qui non parla come Paperino, per esempio; inoltre ha la pelle più chiara e i tratti somatici più raffinati. La capitale stessa, rispetto a Saigon, ha un aspetto più grazioso e meno “americano”; i tanti parchi e i laghi, i ponti sul fiume Rosso, insieme agli edifici coloniali risalenti a quando fu capitale dell’Indocina francese, le donano un'atmosfera più tranquilla, e a tratti romantica.
L’itinerario a piedi durerà l’intera giornata e avrà come punto di partenza e di arrivo il già noto lago di Hoan Kiem. Attraversando il quartiere più francese della città, si arriva alla prigione di Hoa Lo. L’edificio fu costruito dai colonizzatori alla fine dell’Ottocento per detenere i prigionieri politici vietnamiti ed era uno dei più grandi carceri di tutta l’Indocina, dotato di mura alte e spesse e di rete elettrica ad alta tensione per impedire le fughe. Nella sezione dedicata al periodo francese, i visitatori possono ammirare la stanza della solita ghigliottina, ancora con equipaggiamento originale, e gli alloggi per i prigionieri. Sui pannelli si legge che i “patrioti e i soldati rivoluzionari vietnamiti” detenuti vivevano in condizioni disumane ed erano sottoposti a infinite torture, ma nonostante ciò hanno continuato indefessi a studiare clandestinamente teoria politica e non hanno mai perso la voglia di combattere fino al loro ultimo respiro contro l’occupazione del paese.

Dal 1964 al 1973 una parte della prigione è stata utilizzata per rinchiudere i piloti americani che venivano abbattuti e catturati. Secondo le testimonianze di molti ex prigionieri, essi erano detenuti in condizioni pietose, con poco cibo e scarsa igiene; inoltre, almeno nei primi anni, venivano crudelmente torturati. Il governo vietnamita tuttavia ha sempre negato e ancora oggi sostiene che gli americani venivano trattati benissimo: le immagini esposte li mostrano mentre giocano a scacchi e a biliardo, fanno giardinaggio, mangiano generose porzioni di cibo. Non solo: secondo i curatori del museo il soprannome che gli avevano sarcasticamente affibbiato gli americani, "Hanoi Hilton", sarebbe la prova che i detenuti consideravano gli alloggi simili a quelli di un hotel. Tra l'altro, ironia della sorte, una parte del carcere è stata smantellata e ora al suo posto sorge davvero un hotel a cinque stelle!

Attraversando il quartiere Đống Đa si raggiunge il tempio della letteratura, dedicato a Confucio, che ospita la sede della prima università del Vietnam ed è raffigurato sulle banconote da 100.000 dong. Per laurearsi presso l’Accademia Imperiale tra il 1076 e il 1779, bisognava passare l'esame reale, tenuto a corte, durante il quale era il monarca stesso a porre le domande e dare il voto. Nel cortile ci sono le 82 stele superstiti, poggiate su altrettante tartarughe di pietra, che riportano il nome e i risultati finali degli studenti che hanno superato il concorso. Infine, grazie agli ampi prati e agli alberi secolari, il luogo permette di rilassarsi lontano dal caos cittadino e fa da sfondo credibile alle foto dei neolaureati odierni.

L’altra zona turistica di Hanoi, nonché luogo di pellegrinaggio prediletto da folle entusiaste di vietnamiti, è la scenografica piazza Ba Dinh, su cui si affaccia il mausoleo di Ho Chi Minh. Nonostante lui stesso nel suo testamento avesse chiesto di essere cremato, la sua salma fu ugualmente imbalsamata ed esposta in questo monumento in granito dove quotidianamente molti visitatori, organizzati in lunghe file, attendono di osservarlo per pochi secondi. Purtroppo non mi è stato possibile dargli una sbirciata perché è aperto al pubblico soltanto fino alle 11 di mattina.
Del complesso del mausoleo fa parte anche il palazzo presidenziale, un giallissimo edificio in stile rinascimentale costruito inizialmente per il governatore generale d'Indocina. Ho chi Minh si rifiutò di andarci ad abitare, scegliendo piuttosto un modesto appartamento nei paraggi. In seguito fu eretta la palafitta in legno – circondata da un rasserenante giardino – dove il leader visse e lavorò per alcuni anni, una sobria ma elegante abitazione che oggi fa parte del percorso di visita. C’è poi la pagoda ad una sola colonna, che sarebbe la ricostruzione di un tempio millenario costituito da una struttura in legno appoggiata su un unico pilastro di pietra, e infine una grande struttura di cemento ornata dal simbolo della falce e martello ospita il museo di Ho Chi Minh, che è l’ultimo monumento del complesso.
La vastità e il vuoto della piazza, uniti all’austero stile architettonico sovietico e alle esercitazioni in corso di vari plotoni di soldati in divisa verde, danno al visitatore l’impressione di un balzo nel tempo all’epoca della cortina di ferro.

L’itinerario prosegue verso nord, in direzione del lago Ho Tay, il più grande di Hanoi. Lungo le sue sponde caliginose si ergono ville, alberghi di lusso e numerosi ristoranti, ma è soprattutto la pagoda di Tran Quoc (“Guardiano delle Nazioni”) ad attirare la mia attenzione, grazie alla lotus tower che svetta sulla riva. Si tratta di uno dei più antichi templi buddhisti di Hanoi, spostato qui nel Seicento quando il fiume Rosso tracimò. I fedeli, soprattutto donne e per la maggior parte vestite di marrone, sono seduti per terra e recitano delle monotone preghiere che echeggiano per tutta l’area sacra. Per terra, sulle stuoie, grandi piatti di frutta, merendine, biscotti e altri snack; sparse un po’ ovunque banconote false. Questo “denaro fantasma”, insieme a finti lingotti d’oro e ad altri oggetti, viene bruciato in un camino: si tratta di offerte votive inviate agli spiriti dei defunti.
All’ora di punta sono di ritorno nel centro storico: le scuole stanno chiudendo e gli studenti si riversano nelle strade, gli sgabelli sui marciapiedi sono tutti occupati, le zuppe di noodle fumano, i motorini riempiono le carreggiate. I negozi di articoli da regalo sono tutti concentrati nella stessa via: piramidi di dolci, composizioni di fiori e frutta, decorazioni superkitsch piene di brillantini. 
La sera presso il Thang Long water puppet theatre mi aspetta il tradizionale spettacolo dei burattini sull’acqua e per concludere la serata partecipo alla movida che affolla alcune vie del centro storico, alla ricerca della tanto decantata birra cruda, che costa un decimo della birra in bottiglia ma è difficilissima da trovare.

Made in Vietnam

Tutto pareva marcire: i tetti, le porte, i muri; la gente stessa. L'odore della città era quello della muffa. M'è sempre piaciuto aggirarmi nei cimiteri; ma questo immenso cimitero che era Hanoi non m'ispirava alcuna grandezza.
L'«eroica», austera, silenziosa Hanoi della guerra era ormai solo una città di miseria, dove tutto era in vendita. A voler fare un simbolico viaggio nelle illusioni politiche della mia generazione non c'era che da partire da lì, dove la notte era tornata ad avere mille segreti.
(Tiziano Terzani, “Un indovino mi disse” - 1993)

Il centro di Hanoi è pieno di incongrui negozietti che vendono piumini imbottiti di colori sgargianti: è vero che in inverno le temperature possono scendere anche sotto i 15 gradi, ma non siamo certo a Canazei. Giubbotti e zainetti sfoggiano marchi famosi come "The North Face", a dimostrare che si tratta di capi usciti in qualche modo più o meno losco dalle fabbriche del paese. I loro prezzi stracciati – penso mentre contratto con la simpatica negoziante – probabilmente sono proporzionali al valore che il prodotto avrebbe se le spese di pubblicità e di trasporto non incidessero così tanto sul suo costo finale.
Per la cronaca, il mio piumino griffato "Made in Vietnam" color verde mela è stato molto utile al ritorno poiché l'Italia meridionale era sotto la morsa del gelo, gli aeroporti erano chiusi per neve e il rientro è stato una lunga, ma calda, odissea.

Gallerie fotografiche

Saigon e il delta del Mekong:

Huè, la montagna di marmo e Hoi An:

Hanoi e la baia di Ha Long: