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Notizia di un sequestro yemenita

In serata, dentro ad un nebbione fantasy, giungiamo ad Al Hajjarah, costruita sull'orlo di un precipizio tra i monti Haraz. È andata via la luce in tutta la zona e il lume di candela non fa che rendere ancora più credibile la sensazione di essere dentro ad una favola. Il cielo, senza l'inquinamento luminoso, è pieno di stelle.
Avviene durante il ballo, mentre piroettiamo e ridiamo come matti, mentre stiamo vivendo un'altra vita, come in un romanzo. Dalla lontana e banalissima Italia arrivano degli sms che ci dicono: SONO STATI RAPITI CINQUE ITALIANI. E in pratica ci chiedono se siamo noi. Non siamo noi. Noi stiamo ballando tra le stelle, circondati da uomini col pareo e la camicia e i pugnali giganti. Noi siamo liberi e felici. Il posto è stupendo. Fa abbastanza caldo.
Al mattino stendo il bucato sul terrazzo assolato e mi godo la compagnia degli autisti sfaccendati che bevono il tè. L'atmosfera è così pacifica che mi vien voglia di mandare a quel paese tutti i punti di riferimento della vita vera. Altri, sembrerebbe, sono stati rapiti. Dicono che sono italiani. Ma non siamo noi. Non sono io. Io sto chiedendo a questo yemenita che ciuccia il qat perché alcuni portano il pareo ricamato e altri il camicione. E lui, semplicemente, mi dice che il pareo è tipico del sud e il camicione del nord. Gli autisti sfaccendati, tra un sorso di tè e l'altro, mi parlano del jambiya, il pugnale a lama curva che tutti gli uomini indossano: il manico può essere di corno di rinoceronte, d'avorio, di pietre preziose, d'argento e può arrivare a costare moltissimo. Gli autisti, fumando sigarette e bevendo il tè, affermano che la scuola è obbligatoria fino ai tredici anni, ma non ci vuole la loro consulenza per aver già capito che non tutti ci vanno.
E infine gli chiedo delle donne. L'autista yemenita, con la guancia piena di qat, rivela che nella provincia sono rintanate in casa a sbrigare le loro faccende, ma nelle grandi città lavorano e studiano all'università. Io in effetti ne ho viste ben poche in giro e tutte completamente velate. Dice lui che è una loro scelta, nessuno le obbliga a vestirsi così in pubblico. Io non tanto ci credo, però faccio finta di credergli e gli sorrido, senza velo.
Al Hudaydah è molto diversa da tutto: ampi viali, concessionarie d'auto, grandi alberghi, un moderno ospedale, negozi luccicanti. Bentornati a casa, alcune vie sembrano dirci. Ma non è vero. Il ristorante di pesce è frequentato da giovani in jeans e felpe, ma c'è la solita sala separata in cui le donne cenano dietro le tendine rosa da ginecologo e i camerieri devono servire la coca cola dall'alto. Il pesce è ottimo ma ricoperto da una salsa piccantissima. L'odore del mare arriva sulla strada; quello è lo stesso di sempre.
È qui che capiamo tutto. Gli italiani rapiti sono medici e insegnanti veneti che si erano iscritti allo stesso viaggio a cui ci eravamo iscritti noi e che come noi percorrevano la strada per Ma'rib, in una delle jeep del serpentone scortato malamente. Solo che la percorrevano tre giorni dopo di noi. Tutto qui. Anche ora che abbiamo capito non so se abbiamo capito veramente. Ricapitoliamo. Siamo ad Al Hudaydah, l'odore del mare arriva fin qui. La coppia al tavolo con noi si era iscritta allo stesso viaggio della loro amica, l'insegnante rapita, ma poi erano finiti in due gruppi diversi. Noi e la coppia al nostro tavolo siamo passati di là tre giorni prima. E adesso stiamo mangiando a fatica il pesce ricoperto di salsa piccante, invece di stare in una stalla sotto la canna di un kalashnikov senza poter nemmeno fare la pipì se non chiediamo il permesso.
L'ultimo giorno prima della partenza, c'è aria di festa in Old Sana'a, ma non sono i saldi di gennaio: mancano pochi giorni all'Eid’ Al-Adha, la festa islamica che commemora la sottomissione di Abramo disposto a sacrificare il figlio Ismael. Mentre provo abiti lunghi total black e burqa giunge la notizia della liberazione degli ostaggi italiani, giusto in tempo per il volo di domani. Il suq all'improvviso sorride tra gioielli, frutta secca, lampade in gesso, narghilè, scialli, incenso e mirra.
Sul volo Yemenia, poco prima del decollo, una voce dall'altoparlante del velivolo scandisce due volte: "I cinque italiani reduci dal rapimento vengano in prima classe". All'arrivo a Fiumicino siamo accolti da tutte le televisioni, ma nessuno pare ansioso di conoscere la mia opinione.

Racconto di viaggio "IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE. Nella favola dello Yemen" 

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